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Reddito minimo e Reddito di base

di Valeria Virgili

La congerie intricata ed indeterminata che impera e plasma gli spazi e i tempi delle nostre esistenze in questo pianeta, nonché la possibile implosione stessa di un sistema in cui la retorica ossessiva del progresso economico è stata portata oltre i limiti ambientalmente e umanamente sostenibili dell’estremo, ha portato molti a ricentralizzare il dibattito internazionale sull’urgenza attuativa di un reddito di base universale. Un’idea che non solo permetterebbe di tamponare momentaneamente le fratture e le contraddizioni multidimensionali che oggi insorgono in maniera sempre più veemente in ogni parte del globo, ma capace anche di rovesciare drasticamente quei capisaldi corrotti e corruttivi dell’ideologia neoliberista oggi predominante, aprendo lo spazio ad un nuovo modello di vita e di sviluppo, improrogabilmente necessari.

Tale articolo mira, infatti, ad analizzare le robuste limitazioni presenti negli attuali schemi di reddito minimo vigenti nell’Unione Europea, opponendo alle loro acutissime fragilità la proposta riformatrice sfociante in un reddito di base universale incondizionato.

 Che cos’è il reddito universale di base

Il reddito di base, prendendo come riferimento la definizione data da Philippe Van Parijs (2017), uno dei suoi più grandi interpreti e sostenitori attuali, è un “reddito regolare pagato in denaro a ogni singolo membro di una società, indipendentemente da altre entrate e senza vincoli”.[1]La sua caratteristica principale è l’incondizionalità, in una triplice dimensione: è su base strettamente individuale, indipendente dal nucleo familiare, è universale, non soggetto al controllo della situazione economica dell’individuo, ed è libero da obblighi da adempiere in cambio, ovvero prestazioni lavorative o disponibilità a lavorare.[2]Il termine “base” sta ad indicare che esso dovrebbe fornire una sicurezza economica basilare agli individui: avere abbastanza cibo per sostentarsi, un posto in cui vivere, possibilità di istruirsi e di accedere a cure mediche. In altre parole, ciò che una “società giusta” dovrebbe garantire a tutti coloro che ne fanno parte. Alcuni, infatti, sostengono che esso debba costituire un diritto, mentre altri sono propensi ad affermare che il reddito di base dovrebbe avere un importo sufficiente a garantire “la partecipazione nella società”, realizzando il desiderabile scenario in cui tutti gli individui abbiano risorse adeguate, tali da poter avanzare nella società come cittadini di eguale status. Tuttavia, l’ammontare di tale trasferimento non è predeterminato. A livello accademico, il dibattito oscilla tra coloro che auspicano che l’entità di un reddito universale debba essere quanto più possibile sopra la soglia di povertà del paese di riferimento e coloro, tra cui molti suoi fautori, che, invece, sono propensi a credere che si debba iniziare con un importo assai contenuto per poi aumentarlo gradualmente nel tempo, a seconda delle risorse che si è riusciti a reperire per tale scopo e al livello del reddito nazionale, calibrandolo, in seguito, ai cambiamenti raggiunti in termini di redistribuzione dei redditi stessi.[3]

La cosa importante da puntualizzare è che, qualunque sia la sua entità, un reddito universale non è assolutamente designato come sostituto del sistema di welfare statale ma, ne è, invece, una sua componente imprescindibile. Infatti, la combinazione di sicurezza e flessibilità a cui il reddito dà luogo lo rende la configurazione più liberatoria di un welfare state attivo, ponendolo in netto contrasto con l’interpretazione punitiva che questa espressione assume nella maggior parte delle politiche attive del lavoro, associate a meccanismi assai invasivi e stringenti di verifica dei requisiti[4].

Legittimità etica

Tra tutte le recriminazioni sollevate contro tale misura quella della sua legittimità etica, per i valori che invoca, appare la più determinante da confutare.

Il fatto che il reddito di base non pretenda che i beneficiari lavorino né che siano disponibili a lavorare suscita una forte obiezione di natura etica su due fronti: se per alcuni l’incondizionalità della misura porterebbe ad incoraggiare e gratificare il vizio dell’indolenza, per altri essa minerebbe i principi di equità e giustizia: “non è giusto che chi è fisicamente abile viva del lavoro altrui”[5].

Partendo dal presupposto che chi riceve un reddito di base senza svolgere alcun lavoro, sia esso remunerato o meno, stia attuando un comportamento opportunistico (da freerider) minando quegli obblighi di reciprocità che legano ciascun individuo alla società e che permettono il suo funzionamento, Van Parijs indica tre ragioni che permetterebbero di scavalcare i robusti dissensi di origine morale.[6]

Innanzitutto, il principio secondo cui non sarebbe giusto assegnare un reddito a coloro che, anche se in grado, non lavorano dovrebbe essere adottato sia per i ricchi sia per i poveri.

Infatti, la maggior parte di coloro che spalleggiano tale idea tendono ad attribuire un significato negativo o, addirittura, a  non riconoscere  ai poveri il diritto ad avere del tempo libero di cui invece beneficiano i ricchi, come afferma B. Russel “l’idea che il povero possa oziare ha sempre urtato i ricchi”[7].Riconoscere dunque un modesto reddito incondizionato anche ai più poveri permetterebbe loro di godersi di quegli svaghi che finora sono stati relegati soltanto ai più benestanti, interrompendo questa ingiusta e assurda diversità di trattamento.

La seconda motivazione che potrebbe mettere in dubbio l’ingiustificabilità etica del reddito di base ha a che fare con i grandi progressi raggiunti dall’umanità negli ultimi anni, tali per cui si è ridotta drasticamente la quantità di manodopera necessaria per soddisfare i bisogni primari dell’intero globo.

Se infatti si ponessero nello stesso piano analogico l’inoperosità produttiva e l’inoperosità riproduttiva, perché dovrebbe essere ammesso assegnare un reddito di base a coloro che concorrono alla riproduzione sociale e dovrebbe invece essere negato a coloro che non svolgono attività strettamente produttive, pur nell’ambito contestuale di un eccesso di manodopera?[8]

Non è un caso che Jan Pieter Kuiper (1977), professore all’Università calvinista di Amsterdam, ha presentato il suo sostegno al reddito universale come sostegno alla “libertà di scelta nel contributo alla produzione come nel contributo alla riproduzione[9] ; ogni individuo, dunque, grazie a un reddito di base, sarebbe libero di decidere la natura produttiva e\o riproduttiva del suo apporto al benessere della società.

Sarebbe assai irragionevole sdegnarci come in passato se qualcuno decidesse di vivere del lavoro altrui anche perché, occorre notare, come terza ragione, che sarebbe soltanto una esigua minoranza ad avvalersi del reddito di base per vivere nell’ozio.

Se da un lato, infatti, l’universalità del reddito di base permette a coloro che ora dipendono dall’assistenza pubblica di cercarsi un lavoro degno, non sottopagato e soprattutto regolare, uscendo dalla trappola dell’inattività in cui sono stati costretti dai modelli attuali di assistenza pubblica, condizionati al rigidissimo controllo dei requisiti economici, tali per cui non sarebbe affatto conveniente cercarsi un impiego; dall’altro, sono molti gli esperimenti che dimostrano che chi decide di uscire dal mercato del lavoro, a causa di un reddito di base, non impiega il suo tempo nell’inerzia ma in attività extra produttive come il volontariato, la cura della famiglia o l’istruzione e la formazione.[10]

Ci sono, inoltre, altre ragioni per meglio comprendere come il reddito di base, lungi dal compromettere il principio di giustizia distributiva, ovvero “una giusta distribuzione dell’accesso alle risorse tra i membri di una società”, finirebbe in realtà per favorirlo considerevolmente.[11]

Innanzitutto, tale misura porterebbe al legittimo riconoscimento di tutta quell’enorme mole di lavoro non retribuito che viene svolto essenzialmente dalle donne all’interno delle mura domestiche, segnando un grande passo verso la fatidica parità di genere.

Come hanno scritto Nancy Fraser nel 1997 e Carole Pateman nel 2004 “se vi è al mondo chi vive a sbafo in modo sistematico, questi sono gli uomini che entro la struttura familiare tradizionale vivono del lavoro non retribuito delle loro partner”.[12]

Non si può poi non menzionare come tale misura rinforzerebbe in maniera rilevante il potere contrattuale dei lavoratori, specialmente dei più vulnerabili, contribuendo ad una loro demercificazione.

Chi, infatti, ora è costretto ad accettare un lavoro spesso malpagato e precario svolgendo mansioni che nessuno vorrebbe svolgere, grazie ad un reddito di base universale, migliorerebbe sicuramente le sue condizioni occupazionali e remunerative; i datori di lavoro si vedrebbero infatti obbligati ad offrire condizioni lavorative più attrattive, dal momento in cui nessuno tollererebbe più di essere sfruttato avendo a disposizione un reddito che riesca a sostentarlo.

Il reddito universale di base significherebbe offrire a ciascun individuo la libertà reale, e non meramente formale, di fare qualunque cosa esso desideri nella propria vita, di autodeterminarsi senza fare forzatamente ricorso ad un’occupazione remunerativa e quindi spendere più tempo in attività socialmente utili, di emanciparsi dallo strapotere del mercato, significherebbe estendere a tutti le medesime capacità (capabilities), opportunità e possibilità.[13]

Sostenibilità economica

L’accusa più frequente mossa contro i fautori di un reddito di base è quella della sua infattibilità dal punto di vista economico. Le origini dell’incertezza circa la sua sostenibilità economica hanno a che fare con due tipi di scenari rischiosi che il reddito di base potrebbe produrre.

Il primo è quello di un possibile aumento dell’inflazione locale, generato dalla redistribuzione del potere di acquisto all’interno della popolazione ricevente il reddito; la misura della pressione inflazionistica dipenderà sia dall’importo del reddito, sia dal sistema a cui esso subentra, sia dalla sua fonte di finanziamento.Tuttavia, anche se risulta opportuno tenere in conto lo scenario inflazionistico, esso non comprometterebbe la fattibilità del sistema.[14]

Ciò, invece, non può essere detto per il secondo tipo di timore che riguarda le potenziali conseguenze negative che il reddito di base, e il suo finanziamento, avrebbe sugli incentivi economici. La preoccupazione principale deriva dal fatto che, avendo a disposizione un reddito incondizionato, molte persone sceglierebbero di ridurre o di cessare completamente la propria attività lavorativa, mettendo a rischio la fonte di finanziamento da cui deriva il reddito stesso. Infatti, il modo più ovvio, nonché il più usato nella gran parte dei progetti, di sovvenzionare tale misura sarebbe il ricorso ad un’imposta sul reddito personale, che coinciderebbe, per le esenzioni godute dai redditi da capitale, con un’imposta sul reddito da lavoro.

Il procedimento più impiegato per avvalorare la tesi dell’inattuabilità economica del reddito di base è assai ingannevole e consiste nel moltiplicare l’importo scelto del reddito per il numero della popolazione interessata, così da poter calcolare l’ammontare dell’imposta personale sul reddito necessario a sovvenzionarlo, aggiungendo poi l’intero carico fiscale precedentemente esistente. È chiaro che, seguendo tale ragionamento, il risultato sarebbe un esorbitante aumento dell’onere fiscale sulle spalle di tutti i lavoratori che porrebbe forti dubbi sull’auspicabilità di questa proposta radicale.[15]

La suddetta operazione, tuttavia, perde completamente di significato nei paesi con sistemi fiscali e di welfare avanzati. Gran parte del reddito di base si autofinanzierebbe, infatti, grazie alle risorse pubbliche già stanziate. Esso, infatti, andrebbe a sostituire sia tutti gli aiuti statali in campo assistenziale e previdenziale inferiori all’importo del reddito, sia la parte inferiore di tutti gli aiuti più alti; potrebbe rimpiazzare, inoltre, le esenzioni fiscali delle famiglie con fasce di reddito basse e una serie di agevolazioni fiscali come, per esempio, i servizi per l’infanzia. Si stima infatti che un reddito di base equivalente al 10% del PIL pro-capite potrebbe essere finanziato attraverso uno dei due modi sopra citati. L’esperimento di microsimulazione condotto da P. Van Parijs e B. Gilain (1996), prendendo come riferimento i dati belgi del 1992, dimostra come il 40% del costo di un reddito di base mensile di 200 euro potrebbe essere finanziato con la cancellazione dei benefici di importo inferiore e con la diminuzione di quelli superiori in misura proporzionale all’entità del reddito di base.[16]

Altre fonti di finanziamento

Dunque, aumentare spropositatamente le imposte sui redditi da lavoro non sembra essere l’unica soluzione economica per poter attuare un reddito di base. Chi, infatti, crede che questa sia la sola alternativa possibile, oltre ad assumere, erroneamente, che il reddito di base si concilierebbe con le politiche di welfare già esistenti, ignora il fatto che l’introduzione di tale misura potrebbe comportare un considerevole ripensamento di tutte le aree della spesa pubblica. I governi potrebbero infatti decidere di reperire risorse riducendo o annullando la propria spesa militare (l’Italia nel 2019 ha speso 26.8 miliardi di dollari nel settore militare, l’1.4% del Pil[17]) o, per esempio, mettendo fine ai sussidi miliardari, moralmente ingiustificabili e non collegati alla crescita economica, verso le grandi imprese e le multinazionali.[18]

Inoltre, chi sostiene la sua insostenibilità economica scarta a priori la possibilità che le risorse per un reddito di base possano essere recuperate dalle imposte sui redditi più elevati, il che non richiederebbe costi netti né ai cittadini più benestanti né al Tesoro, dal momento in cui è sufficiente modificare il profilo delle aliquote fiscali e delle detrazioni in modo che l’imposta supplementare sia uguale al reddito di base versato.[19]

Secondariamente, essi non considerano l’assai cospicuo risparmio amministrativo che si otterrebbe eliminando la verifica dei requisiti economici e comportamentali che gli attuali schemi di reddito minimo prevedono; somme miliardarie vengono spese ogni anno per monitorare e sanzionare chi usufruisce di benefici da parte dello stato.[20]

Se si vogliono ricercare fonti finanziare alternative all’imposta sui redditi da lavoro non si può poi sorvolare sulla acutissima asimmetria tra il trattamento fiscale spettante ai redditi da lavoro rispetto a quello spettante ai redditi da capitale che caratterizza la grandissima parte dei sistemi fiscali mondiali, spesso profondamente complessi e regressivi ma soprattutto suscettibili di evasione ed elusione.

Un’altra alternativa assai allettante, se non doverosa, non solo per finanziare il reddito di base ma anche per assicurare la sopravvivenza al nostro pianeta, sarebbe quella di una carbon tax, un’imposta sulle emissioni di biossido di carbonio. La Citizens’ Climate Lobby ha calcolato che una carbon tax di 15 $ per tonnellata potrebbe generare negli Stati Uniti un’entrata di 117 miliardi di dollari annui che, con piccoli adattamenti, potrebbe pagare un reddito annuale familiare di 811 $ (323$ a persona).[21]

Infine, un’ulteriore opzione sarebbe quella relativa alla creazione di un fondo sovrano permanente attraverso la vendita di risorse naturali non rinnovabili. Questo è il caso dello stato americano dell’Alaska, considerato l’unico paese al mondo ad aver attuato un vero e proprio reddito di base attraverso il Fondo permanente dell’Alaska.

Reddito universale e reddito minimo: due termini e due misure a confronto

Dopo aver tentato di sciogliere i principali nodi riguardo la fattibilità di un reddito universale, sembra ora opportuno scardinare anche gli equivoci terminologici di cui tale misura risulta spesso oggetto, non solo tra l’opinione pubblica ma anche tra l’élite politica (vedasi caso italiano).

Difatti, parlare di reddito di base implica discutere anche del suo rivale: il reddito minimo. I due termini vengono molto spesso confusi l’uno con l’altro ma, in realtà, incarnano due modelli concettuali assai distinti.

Se infatti il reddito di base, seguendo la sua accezione più convalidata, reperibile nello statuto del BIEN e nella letteratura dei suoi associati, viene definito: “un reddito erogato in modo incondizionato a tutti, su base individuale, senza alcuna verifica della condizione economica o richiesta di disponibilità a lavorare”; il reddito minimo consiste, invece, in un trasferimento di reddito destinato esclusivamente a famiglie in condizione di indigenza  e disponibili a cercare un lavoro o a partecipare ad attività di formazione\istruzione.[22]

Dunque, se il primo si configura come la formula più universalistica di un welfare state che si propone di garantire a tutti un reddito incondizionato, il secondo rappresenta una misura di carattere selettivo subordinata alla cosiddetta “prova dei mezzi” (means-testing).[23]

Pertanto, partendo dalle definizioni delle due misure è possibile dedurre le due caratteristiche principali che differenziano il reddito di base dai trasferimenti vigenti di sostegno al reddito: l’assenza di qualunque forma di selettività e la mancanza di vincoli di reinserimento nel mercato del lavoro per coloro che ne sono stati esclusi.

Principali criticità nei sistemi attuali di reddito minimo europei

Non è solamente l’inadeguatezza degli importi degli schemi di reddito minimo a suscitare notevoli criticità sul loro concreto impatto, ma è piuttosto la combinazione della stessa con le severissime condizionalità a cui devono attenersi i beneficiari, che manifesta, in realtà, le consistenti fragilità strutturali che tali programmi racchiudono.

In primo luogo, è ampliamente evidente come tali benefici limitati tendano a scartare larghe fette di popolazione. I giovani, per esempio, pur risultando le principali vittime della crisi del 2008, nonché di quella pandemica attualmente in corso, ne risultano solitamente esclusi per due motivi. Da un lato, poiché l’unità di riferimento di tali schemi è generalmente la famiglia, essi, per accedere al sussidio, sono costretti a lasciare l’abitazione familiare e formare un nuovo nucleo autonomo; processi assai complicati se si considera che il tasso di disoccupazione giovanile comunitario, ad agosto 2020, era pari al 17.6%.[24] Dall’altro lato i limiti di età imposti lasciano fuori dalla potenziale platea dei beneficiari tutti i minorenni e in alcuni casi, persino coloro che non abbiano raggiunto i 25 anni di età. Inoltre, come si è anteriormente osservato, gli stringenti criteri di accesso relativi alla cittadinanza e alla residenza rendono assai complicata, se non impossibile, l’ammissibilità dei richiedenti asilo e, molto spesso, dei migranti regolari. C’è poi la questione delle persone senza fissa dimora che, non avendo un’abitazione e, frequentemente, neanche dei documenti, vengono ignorate a priori dall’architettura di tali programmi, pur costituendo una delle categorie più vulnerabili e bisognose di aiuto.

In secondo luogo, si è assistito negli ultimi anni ad una sempre più crescente propensione a basare qualsiasi programma di reddito minimo sulla centralità del lavoro e dell’attivazione, accompagnata da uno spiccato inasprimento degli impegni che il beneficiario ha l’obbligo di rispettare. Il fatto che al cuore  ideologico degli impianti di reddito minimo venga messo il lavoro e non la redistribuzione sta a significare che, secondo l’approccio “lavorista”, seguito dalla totalità della comunità europea, la colpa della povertà, qualora si possa configurare come tale, è largamente da addossare al povero che, spesso disoccupato, deve essere incoraggiato, tramite gli impegni assai rigorosi e  le sanzioni severissime che il trasferimento comporta, a fuoriuscire dalla sua condizione di marginalità e a guadagnarsi un lavoro, poco importa se esso sia non idoneo, malpagato o precario. Se al contrario, le logiche di contrasto alla povertà mettessero al centro la redistribuzione, il reddito minimo si costituirebbe come un giusto, se pur modesto, risarcimento a chi è in stato di bisogno, di una parte della ricchezza collettiva che una società imperniata di diseguaglianza non è riuscita a garantirgli.[25]

Infine, dopo aver segnalato le difficoltà dei regimi di reddito minimo nel supportare il passaggio verso una stabile entrata nel mercato del lavoro, malgrado l’imposizione di rigidissimi impegni e penalizzazioni, non è possibile tralasciare una delle lacune più consistenti di tali misure che ne inficiano la pertinenza stessa. La questione è relativa alla mancata ammissione ai sostegni dei soggetti che, in base all’architettura del programma, ne sarebbero legittimati. Secondo le stime, infatti, il tasso di non take-up, ovvero il numero di persone che pur avendo diritto alla misura non la reclamano, è mediamente del 40%, con fluttuazioni che vanno dal 20% al 75%. [26]La portata di tale fenomeno è imputabile a più fattori: la complessità burocratica dei programmi, la presenza di forti asimmetrie informative, il timore di essere socialmente stigmatizzati, le modalità scadenti di amministrazione del programma, l’incompetenza o la carenza degli addetti pubblici incaricati di informare e gestire le domande e, come ribadito in precedenza, i forti obblighi pretesi dai potenziali beneficiari, nonché la rigidissima verifica dei requisiti economici e\o patrimoniali.

Date siffatte problematiche, acuite terribilmente dalla corrente emergenza pandemica, appare assolutamente inderogabile un intervento più vigoroso da parte delle istituzioni europee che miri a plasmare la strada verso un netto cambiamento di paradigma in materia di politiche di reddito minimo, allentando gradualmente le condizionalità di accesso e sospendendo progressivamente l’obbligatorietà alla partecipazione nel mercato del lavoro, al fine di avvicinarsi quanto più possibile ai pilastri ideologici di un reddito universale, ora più che mai imperativamente impellente.

Conclusioni

A conclusione del suddetto lavoro è, dunque, emersa la forte consapevolezza della totale e lampante inadeguatezza degli attuali schemi di reddito minimo vigenti nell’Unione Europea nel costituire un solido argine economico e sociale per gli individui versanti in condizioni di vulnerabilità economica. La totalizzante e pervasiva capacità del sistema economico odierno di mettere a valore qualsiasi aspetto della vita umana , rendendo labili i confini tra tempo di lavoro e tempo di vita, tra produzione e riproduzione, in un contesto in cui il potere pubblico si dimostra sempre meno capace di tutelare la sicurezza sociale dei suoi cittadini di fronte ad una sempre più vasta e multiforme moltiplicazione dei rischi derivanti dalle trasformazioni degli assetti produttivi che, negli ultimi anni, hanno provocato sacche di precarietà, diseguaglianza e insicurezza cronica, rende inderogabile l’adozione di un reddito universale di base,un potente strumento di sovversione dell’ordine costituito che supera definitivamente gli attuali schemi di sostegno al reddito subordinati allo sfruttamento del lavoro da parte del capitale.

 

Valeria Virgili, studentessa, ha conseguito la laurea in Sviluppo e Cooperazione Internazionale all’Università di Bologna con la tesi “Superare gli schemi di reddito minimo: la proposta radicale di un reddito universale di base” ottenendo il massimo dei voti.

Riferimenti Bibliografici

  • Bertrand Russell, In Praise of Idleness (1932), in Bertrand Russell, In Praise of Idleness and Other Essays, London, Unwin Paperbacks, 1976, pp.11-25; trad. it. Elogio dell’ozio, Milano Tea
  • Fraser Nancy, 1997, After the Family Wage: A Postindustrial Thought Experiment, in Nancy Fraser, Justice Interruptus: Critical Reflections on the “Postsocialist” Condition, New York, Routledge, pp.41-66
  • Standing, Basic income: and how we can make it happen, Pelican Books, 2017
  • Gilain, Bruno e Philippe Van Parijs, L’allocation universelle: un scénario de court terme et son impact distributif, in “Revue belge de Sècuritè Sociale”, 1996
  • Frazer, E. Marlier, Minimum income schemes across EU member states. Synthesis Report, EU Network of National Independent Experts on Social Inclusion, 2009
  • https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20171201STO89305/la-disoccupazione-giovanile-inumeri-e-le-soluzioni
  • https://www.sipri.org/sites/default/files/2020-04/fs_2020_04_milex_0_0.pdf
  • Jon Elster, 1986, Comment on Van der Veen and Van Parijs, in “Theory and Society”, 15, n.5, 709-721, in P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017
  • Kuiper J. Pieter, Samenhang verbreken tussen arbeid en levensonderhoud, in “Bouw”, 19 ,1977, pp.511
  • Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017
  • Pateman Carole, 2004, Free-riding and the Household, in Basic Income: an Anthology of Contemporary Research, pp.173.177
  • Feltri, Reddito di Cittadinanza, PaperFIRST, 2018,
  • Statistiche sulla povertà di reddito – Statistics Explained (europa.eu)

 

Note:

[1] P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017, p.12

2 Ibidem, p.18

[3] G. Standing, Basic income: and how we can make it happen, Pelican Books, 2017, p. 3-4

[4] P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017, p. 47

[5] Jon Elster, 1986, Comment on Van der Veen and Van Parijs, in “Theory and Society”, 15, n.5, 709-721, in P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017, p.163

[6] P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017, p.165,166

[7] Bertrand Russell, In Praise of Idleness (1932), in Bertrand Russell, In Praise of Idleness and Other Essays, London, Unwin Paperbacks, 1976, pp.11-25; trad. it. Elogio dell’ozio, Milanom Tea

[8] P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017, p.167

[9] Kuiper J. Pieter, Samenhang verbreken tussen arbeid en levensonderhoud, in “Bouw”, 19 ,1977, pp.511 in P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017, p.167

[10] P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017, p.168

[11] Ibidem, p.171

[12] p.169, Fraser Nancy, 1997, After the Family Wage: A Postindustrial Thought Experiment, in Nancy Fraser, Justice Interruptus: Critical Reflections on the “Postsocialist” Condition, New York, Routledge, pp.41-66 ; Pateman Carole, 2004, Free-riding and the Household, in Basic Income : an Anthology of Contemporary Research, pp.173.177

[13] P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017, p.171,172

[14] P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017, p.216

[15] Ibidem, p.217

[16] Gilain, Bruno e Philippe Van Parijs, L’allocation universelle: un scénario de court terme et son impact distributif, in “ Revue belge de Sècuritè Sociale”, 1996, 1 in P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base, Il Mulino, 2017 p.218

[17] https://www.sipri.org/sites/default/files/2020-04/fs_2020_04_milex_0_0.pdf

[18] G. Standing, Basic income: and how we can make it happen, Pelican Books, 2017, p.132

[19] Ibidem, p.131

[20] ibidem

[21] Ibidem, p.149

[22] S. Toso, Reddito di Cittadinanza, Il Mulino, 2016, p. 7-8

[23] ibidem

[24] https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20171201STO89305/la-disoccupazione-giovanile-i-numeri-e-le-soluzioni

[25] S. Feltri, Reddito di Cittadinanza, PaperFIRST, 2018, p.57

[26] Ibidem, p.61

 

Tratto da Quaderni per il Reddito n°11, “Verso il reddito di base. Dal reddito di cittadinanza per un welfare universale”, Roma, Giugno 2021 (BIN Italia)

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