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Piano Nazionale di Ripresa (dei ricchi) e Resilienza (dei poveri)

di Jessica Bastianelli

È il 2021, secondo anno nell’emergenza sanitaria che ha reso più visibile uno spaccato della società che alcuni conoscevano molto bene: non tutelati e tutelati. Poveri e ricchi. Chi si può permettere il distanziamento sociale necessario al contrasto della diffusione dell’epidemia da Covid 19 e chi invece vive situazioni di sovraffollamento domestico. Persone che nei servizi dei telegiornali in onda in prima serata vengono definiti “bisognose” con pietà e tenerezza; ma termini e discorsi non sono mai neutri e, in questo caso, puntano l’attenzione sul bisogno come se fosse una causa e non, invece, la conseguenza di politiche sociali e del lavoro non adeguate. Questi “bisognosi”, in realtà, sono lavoratori e lavoratrici senza contratti, con contratti atipici, cassa integrati o lavoratori a partita iva; persone che entrano ed escono dal mercato del lavoro (vedi il Jobs-Act)[1]. E, considerando ancora una volta che la scelta lessicale ha una sua rilevanza, va sottolineato che il Mercato non è altro che il gioco di domanda e offerta; la forza-lavoro diventa quindi una merce vera e propria e come tale viene trattata. Una schiera di inoccupati di cui ci si occupa -gioco di parole- raramente e, quando lo si fa, è facile cadere nel cliché dei “poveri fiammiferai” a mo’ di favola.

La delibera del Consiglio dei Ministri del 21 aprile ha prorogato lo stato di emergenza fino il 31 luglio 2021. In un paese dove i poveri sono circa un milione in più nell’ultimo anno e il tasso di occupazione è diminuito, soprattutto tra i dipendenti a termine (-9,4%), gli autonomi (-6,6%) e i lavoratori under 35 (-6,5%)[2], si parla di ripresa economica con il prospetto di un “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” – quest’ultima, parola molto cara al Capitalismo- che, tra le altre, prevede la mission dell’inclusione sociale con altre riforme di potenziamento dei centri per l’impiego, aggiornamento delle competenze e, ancora una volta, sostegni all’imprenditoria. Anche ad un occhio poco esperto sembra lampante che le riforme strutturali richiedono tempi e modalità di gestione lunghi. Il problema si pone da solo: chi il tempo non lo ha, non può aspettare. Il mito Keynesiano della piena occupazione per come la intendevamo nelle società fordiste e post-fordiste è ormai svanito e lo stesso Keynes, sicuramente conosciuto non per essere un rivoluzionario, diceva che << Il lungo termine ci troverà tutti morti>>[3], ed è vero: non tutti possono permettersi il lusso di attendere sostegni economici frammentati, raggruppati in due o tre mesi o di non rientrare in nessuna categoria elencata dal Governo; eppure, caso strano, si parla soprattutto di incentivi e sgravi alle imprese per le assunzioni e non di erogazioni dirette e svincolate dalla precarietà lavorativa. Anche politiche del lavoro definite passive, come le casse integrazioni normali e in deroga e i sussidi di disoccupazione, hanno dei tempi burocratici lunghi tra domande, per chi riesce a trasmetterle agli Enti, e l’erogazione effettiva. In Italia le persone in povertà relativa e assoluta sono aumentate, toccando i numeri più alti dal 2005[4]. In un contesto in cui il lavoro <<non c’è e, se c’è, è povero>>[5] e per giunta a termine, il più delle volte, qualsiasi tipo di erogazione monetaria vincolata alle assunzioni risulta non adeguata. Il lavoro non rappresenta più la base solida per una vita dignitosa, anzi, sta rappresentando, sempre più di frequente e per un numero crescente di persone, uno strumento di coercizione in mano a pochi.

Attualmente in Italia si è cercato di risolvere il problema della povertà con il decreto-legge n. 4, del 28 gennaio 2019 convertito in legge, n° 26 del 28 marzo 2019 (negli anni precedenti si sono susseguiti il SIA e il REI), il così detto “Reddito di Cittadinanza”; sicuramente un punto di partenza, ma che presenta mancanze sia nel lato pratico che ideologico. Innanzitutto è su base ISEE, quindi non c’è una prevenzione dello stato di povertà, perché il RDC interviene quando già si è in difficoltà; l’importo dell’assegno è determinato attraverso una scala di equivalenza del numero di componenti del nucleo familiare, quindi non è del tutto personale. È  vincolato ad una serie di stretti requisiti: sono esclusi, per esempio, nuclei con autoveicoli immatricolati la prima volta nei 6 mesi antecedenti la richiesta, o autoveicoli di cilindrata superiore a 1.600 CC; la carta del RDC non è valida per gli acquisti online e, inoltre, il beneficio deve essere fruito entro il mese successivo a quello di erogazione; l’importo non speso o non prelevato viene sottratto nella mensilità successiva, nei limiti del 20% del beneficio erogato; il RDC è sospeso quando uno dei componenti del nucleo familiare non effettua la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro, oppure non accetta almeno una delle tre offerte di lavoro “congrue” presentate dal centro per l’impiego. È importante ricordare che la congruità degli standard non è a discrezione del beneficiario, ma definita da standard generali, imposti. Insomma, è un po’ lontano dall’essere un vero e proprio reddito di autodeterminazione: il povero deve sottostare ad alcune regole per non diventare un “parassita”. Si deve muovere, non deve stare con le mani in mano.

Ci siamo resi conto, in questo e nell’anno appena trascorso più che mai, che un cambiamento di rotta è oltre che auspicabile, necessario. Non solo la teoria Trickle-down si è dimostrata inesatta e inadeguata, perché i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, ma ha anche forgiato un sistema culturale duro a scardinarsi: ci hanno insegnato che l’attuale sistema di redistribuzione e distribuzione della ricchezza è il migliore e che non c’è alternativa[6], che questo è senz’altro il miglior mondo possibile e che la logica del profitto è ciò che stimola ad una buona e sana concorrenza. C’è una tendenza nell’identificazione tra corpo sociale e corpo economico che priva gli individui della loro soggettività, che plasma i rapporti e legami sociali su quelli economici e ciò favorisce l’assorbimento del corpo sociale in quello economico, riducendo il corpo espropriato a immagine della logica che lo espropria[7]. Una razionalità economica in cui “più” è “meglio”, che si è imposta come unica logica razionale[8] in cui il resto esiste poco ed è condannato, alle volte emarginato. Bisogna essere produttivi, anche se il più delle volte significa arricchire qualcun altro. Esiste un giudizio molto severo sui poveri e l’idea che il povero debba guadagnarsi in qualche modo i sussidi a lui erogati è una storia vecchia e prende forma in quello che si chiama workfarismo, welfare to work, ed è la realtà in cui viviamo.

L’ideologia sottostante ai sussidi condizionati è che esistono poveri meritevoli e altri non meritevoli. Esiste una tassonomia di chi si è guadagnato quello che ha e chi non ha avuto abbastanza volontà; una cultura feroce del senso di colpa personale della povertà; il rovescio della medaglia della cultura imprenditoriale, che in teoria elogia il singolo per lo spirito di iniziativa e di performatività, ma che non tiene conto delle situazioni differenti di partenza, perché la ricchezza, come la povertà, si eredita e non ha a che fare con il merito e, pure se lo avesse (in un’altra galassia), non possiamo e, soprattutto, non dobbiamo essere tutti delle eccezioni. Il concetto di volontarismo magico[9], del “volere è potere”, è alla base dell’ideologia capitalista contemporanea, che scarica il suo fallimento nella responsabilizzazione del singolo: se non si ha il necessario è perché non ci si è impegnati abbastanza. Bisogna dimostrare, attraverso la prova dei mezzi, requisito essenziale per accedere a tutti i sussidi, di avere bisogno e di meritarsi quel sostegno, di cui in realtà non si è neanche padroni, poiché chi ne usufruisce è chiamato a rispondere sulle modalità di utilizzo di quei soldi. Ogni membro della classe subordinata è incoraggiato a credere che la sua mancanza di opportunità o la disoccupazione sia solo colpa sua[10] e questo alimenta un senso di vulnerabilità estremo, che diventa sociale ed esteso. L’esposizione al rischio coinvolge gruppi sempre più numerosi e l’insicurezza diventa un aspetto del quotidiano; un determinato rischio non corrisponde più ad una precisa collocazione sociale e, se c’è precarietà dell’accesso alle risorse, c’è precarietà anche nell’inserimento sociale, con conseguenze sulla vita quotidiana, accompagnata costantemente da un grado elevato di incertezza, che impedisce di padroneggiare il presente e anticipare progetti per il futuro[11]. La prevenzione della condizione di povertà è importante, per questo una misura di reddito ad erogazione su base personale in grado di snellire i processi burocratici del sistema Welfare, svincolata dal concetto classico di lavoro, è urgente e auspicabile. Anche perché il lavoro salariato non è il solo che produce valore, la tecnologia ha modificato la nostra vita: essendo in rete e sui social network produciamo valore, che non ci è retribuito, ma arricchisce qualcun altro. Siamo costantemente chiamati a separarci da quello che produciamo e, in questa astrazione alienante, perdiamo la centralità del nostro operato; anticamente abbiamo attribuito alla materia inerte il significato pratico del suo operare ma ora rischiamo di diventare meri esecutori di una prassi che si è cristallizzata nel tempo[12].

Una misura che possa fungere da contrasto e prevenzione alla povertà può esistere. Quando si nomina il reddito di base incondizionato e universale, l’immaginario di molti viene colonizzato da una diapositiva contenente una schiera di persone sul divano a fare nulla, oscillanti tra noia e disperazione latente, come dedicati ad un ozio continuo, lontano dalla concezione classica oraziana di cura della propria saggezza e crescita personale; un “otium” quasi impertinente, che si burla del lavoro e di chi produce davvero nel paese. Questa rappresentazione è familiare perché esiste una narrazione che elogia la produttività e il lavoro, anche se precario, intermittente o alienante; l’importante è compiere il proprio dovere e avere in cambio quella dignità che, si sa, solo lavorare instancabilmente può offrire. La libertà di non essere percepiti come “nullafacenti” e “parassiti” si paga a caro prezzo: quello di inglobare nella logica del profitto anche la vita umana. Il Basic Income rimuoverebbe pressioni delle ansie produttiviste, valorizzando ciò che non è subito misurabile e spendibile. La temporanea libertà dal lavoro salariato (o meglio, lavoro coercitivo) contribuirebbe a permettersi di non sottostare a “ricatti di assunzione” e la contrattazione salariale diverrebbe più equa, poiché non sarebbe accettabile scendere sotto la soglia del B.I.. Sarebbe uno strumento di emancipazione che porterebbe anche ad una riduzione della necessità di accesso ai servizi sociali da parte di persone, spinte da problemi di natura economica che col tempo diventano sociali. Il B.I. non avrebbe vincoli basati su condizioni lavorative o requisiti reddituali; supererebbe la categorizzazione sociale e sarebbe finanziato attraverso la fiscalità generale, in un sistema di tassazione in grado di assicurare che tutti coloro che hanno un lavoro remunerativo, ovvero coloro che non necessiterebbero del reddito di base, restituiscano le somme ottenute dal B.I. tramite la fiscalità stessa. Si potrebbe considerare, inoltre, un coordinamento dei sistemi di tassazione degli Stati facenti parte dell’UE, evitando così la competizione fiscale tra gli stessi, tale da non generare problemi di delocalizzazione interna alla UE.

In conclusione, riflettere sull’ideologia che legittima le disuguaglianze è un compito necessario in un sistema dove i rapporti economici determinano quelli di potere e la stratificazione sociale è per la maggior parte definita da essi. In questo contesto il Basic Income rappresenta uno strumento di emancipazione e libertà dal bisogno che contribuirebbe alla trasformazione degli attuali squilibri.

 

Piccola Biografia:

Jessica Bastianelli, 27 anni. Ex lavoratrice precaria e lavoratrice attualmente in cassa integrazione. Laureata in Servizio Sociale e Sociologia a Roma Tre con una Tesi su Razionalità Economica (la sofferenza degli “improduttivi”) e Basic Income.

Note

[1] La legge n.183/2014, https://www.camera.it

[2] Fonte ISTAT, ripresa da Il Manifesto, https://ilmanifesto.it

[3] Frase di J.M Keynes ripresa da C. Tognonato, Economia senza società. Oltre i limiti del mercato globale, Liguori editore, Napoli 2014. P 188.

[4] Fonte ISTAT, ripresa da Il Manifesto, https://ilmanifesto.it

[5] P. Van Parijs, intervista di R. Ciccarelli, 18 ottobre 2020.

[6] Rimando al discorso dell’ex Prima Ministra inglese, M. Thatcher, <<there is not alternative>>, abbreviazione TINA.

[7] F. Basaglia, Scritti. 1953-1980. Il Saggiatore, Milano 2017.

[8] Concetto espresso più volte in C. Tognonato, Economia senza società. Oltre i limiti del mercato globale, Liguori editore, Napoli 2014.

[9] M. Fisher, Good for nothing, articolo esposto in http://effimera.org.

[10] Ibi

[11] M. Sanfelici, L. Gui, S. Mordegna, Il Servizio sociale nell’emergenza Covid-19, FrancoAngeli 2020, cap. di M. Sanfelici, p 34.

[12] Riflessione sul concetto di Pratico- Inerte di J.P. Sartre contenuta nel libro di C. Tognonato, Teoria sociale dell’agire inerte, l’individuo nella morsa delle relazioni sociali, Liguori Editore, Napoli, 2018.

 

Tratto da Quaderni per il Reddito n°11, “Verso il reddito di base. Dal reddito di cittadinanza per un welfare universale”, Roma, Giugno 2021 (BIN Italia)

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