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Serve un piano contro la mano invisibile: dal reddito di base alla ricostruzione

di Rete della Conoscenza

“Le previsioni di crescita sono da rivedere fortemente al ribasso” ha dichiarato Christine Lagarde, per poi aggiungere che  “non siamo qui per ridurre lo Spread”. Così la presidente della Banca Centrale Europea il 12 marzo ha consegnato i mercati finanziari agli attacchi speculativi, in cui Piazza Affari ha subito un calo senza precedenti nella sua storia. Dietro queste parole c’è una lunga storia di pensiero unico in economia e di ideologia neoliberale, vi è un ordinamento politico ed economico internazionale tutto funzionale ai profitti dei grandi monopoli e alla rendita finanziaria: le istituzioni devono lasciar fare ai privati e al mercato, anche quando ciò significa devastare l’economia e danneggiare le condizioni di vita di milioni di persone.

Mentre i giornali riportano le notizie dei crolli di borsa, delle previsioni di disoccupazione di massa e di recessione, vediamo esplodere ancora una volta le contraddizioni dell’ideologia del mercato concorrenziale come supremo regolatore dell’economia. Mentre gli economisti mainstream, consulenti di gruppi finanziari e think thank, parlano ancora di un andamento della crisi a V – cioè una ripresa spontanea grazie alla “mano invisibile” – è innegabile che non potremo tornare alla normalità, non solo per l’ennesima crisi ideologica del neoliberalismo, ma anche per la dissoluzione degli attuali rapporti commerciali globali.

Siamo di fronte ad una crisi sistemica, che dimostra tutta la fragilità del modello di sviluppo fondato sul libero mercato a livello globale. Nella cosiddetta ”economia di guerra” in cui ci troviamo, dobbiamo immaginare soluzioni alternative al business as usual del neoliberismo. Occorre partire da due considerazioni fondamentali: il libero mercato non è in grado di risolvere la crisi, perciò occorre un forte intervento diretto dello Stato – e delle istituzioni sovranazionali – nell’economia per seguire un piano di ricostruzione rapido ed efficiente; la ricostruzione deve risolvere le contraddizioni del sistema economico che ci ha lasciati esposti alla catastrofe, innanzitutto fissando come priorità la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini e l’eliminazione delle disuguaglianze.

 

It’s time for “helicopter money”!

La crisi che stiamo affrontando è una crisi di domanda e di offerta, perché i meccanismi che la alimentano sono soprattutto l’interruzione della produzione e contemporaneamente il blocco dei consumi. La frenata e la chiusura ormai sicura di numerose aziende causerà ulteriore disoccupazione – già elevata con circa il 10% nel nostro Paese prima dell’epidemia – e la mancanza di reddito per tantissime persone porterà ad ancor meno consumi e ulteriori crisi aziendali, in un circolo vizioso.

Le prospettive dell’Italia sul PIL sono disastrose, infatti la caduta per il 2020 potrebbe arrivare al 5%. Dopo la crisi del 2008, la perdita del 20% di capacità produttiva non è stata colmata fino ad oggi. Il rischio per il Paese è una nuova crisi di lunga durata. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, la crisi del 2020 potrebbe superare in gravità quella del 2008. La crisi che affronteremo metterà a dura sopravvivenza l’Europa e l’economia mondiale,  e se questa non verrà affrontata con le giuste reazioni delle istituzioni, ci potranno essere enormi danni per la vita di milioni di persone. Secondo uno studio condotto dall’Organizzazione internazionale del lavoro, si stima che la crescita dei disoccupati nel peggiore dei casi sia di 24.7 milioni nel mondo.

Di fronte a questa situazione buona parte degli economisti di tutto il mondo, oltre ad importanti esponenti della politica internazionale, sostengono la necessità di attuare subito la strategia dell’”helicopter money”: elargire quanti più fondi pubblici sia possibile nell’economia reale, per garantire la continuità dei consumi. Questa strategia è allo stesso tempo l’unico modo per garantire a milioni di persone la tutela del proprio reddito e quindi di un livello di vita dignitoso.

 

E’ il momento del reddito per tutti e del welfare universale.

Il Decreto Legge Cura Italia varato dal Governo impegna 25 miliardi di fondi pubblici in deficit per compensare i danni immediati dell’epidemia, una cifra largamente insufficiente anche solo per gestire appieno i problemi economici attuali. Infatti gli ammortizzatori sociali previsti per tutelare il reddito delle persone sono largamente insufficienti a tutelare le persone in difficoltà. I lavoratori parasubordinati, autonomi, lavoratrici domestiche, sono tutte e tutti esclusi dalle misure di sostegno al reddito. Per questo deve essere prioritario estendere le misure di reddito come il reddito di cittadinanza a tutti coloro che ne facessero richiesta in condizioni di difficoltà economica come rivendica l’appello di BIN Italia, eliminando del tutto le condizionalità previste ed allargando fortemente la soglia ISEE per l’accesso al beneficio: in questo modo si può garantire una copertura di sostegno al reddito agli oltre 7 milioni di lavoratori che non sono coperti dalle misure del DL Cura Italia. Inoltre non bastano 500 euro mensili più 280 per l’affitto: la cifra da garantire a tutti i cittadini in questa fase deve essere superiore almeno ai mille euro al mese netti per tutti, in modo da tutelare quanto più possibile le condizioni di vita dei cittadini e permettere un rilancio dell’economia al termine della pandemia.

Il prossimo decreto “Aprile” dovrà riuscire a rispondere con fermezza alle grandi questioni irrisolte di cui sopra ampliando la portata espansiva della politica economica italiana. In questo modo sarà possibile sostenere la domanda aggregata nel breve periodo e quindi evitare che svanisca la possibilità di una successiva ripresa, quando l’offerta di beni e servizi potrà sbloccarsi a seguito della fine della pandemia.

 

La “mano invisibile” è un pericolo, serve un piano per il futuro!

L’offerta di beni e servizi, e dunque la produzione degli stessi, non può prescindere da un forte investimento, indirizzo e controllo dei settori strategici, arrivando alla nazionalizzazione degli stessi: di fronte a questa crisi generale serve un piano di durata almeno quinquennale che non lasci nulla al caso, perché abbiamo visto come gli ultimi dieci anni di libero mercato non abbiano minimamente risolto le contraddizioni che sono emerse nel 2008. Lo Stato dovrà utilizzare sia il debito pubblico che la tassazione per sostenere queste iniziative. Quest’ultima dovrà essere impostata in linea con il principio della progressività presente nella nostra Costituzione, in modo che la crisi non ricada sulle classi più vulnerabili e colpite dalla pandemia. Serve istituire una patrimoniale sulle grandi ricchezze, una tassazione elevata della speculazione sui mercati finanziari, aumentare le tasse sulle transazioni digitali dei giganti del web – campioni di elusione fiscale. Le tasse sui redditi personali più elevati devono aumentare per ridurre quelle sui redditi bassi, senza discriminazioni tra lavoratori dipendenti, autonomi e parasubordinati.

Le priorità dell’investimento statale devono essere istruzione e ricerca, ambiente, innovazione, sviluppo e sanità. L’istruzione viene da anni di definanziamento, e necessita di un piano di edilizia scolastica di 14 miliardi per rimettere le scuole a norma. Un piano che decidesse di affrontare questo problema occuperebbe da solo svariate centinaia di migliaia di lavoratori, e risolverebbe un problema – la mancanza di strutture per la didattica – che è alla base della corrente scarsità di medici, laureati, tecnici ed esperti fornendo al contempo la possibilità di cambiare radicalmente il nostro modello di sviluppo. La strategia deve riguardare anche le università, che avrebbero bisogno di risorse pari a 6 miliardi solo per tornare ai livelli di finanziamento precedenti la riforma Gelmini, e per la ricerca che ha perso 3 miliardi e continua tuttavia – tra precariato e retribuzioni scandalose – a fornire soluzioni per tutti anche in epoca di Coronavirus.

Il sottoinvestimento in questi settori ha evidenziato tutte le sue problematicità a fronte di una crisi che trova un Paese deindustrializzato e che ha puntato sul turismo e sull’export a basso valore aggiunto. I nostri governanti hanno lasciato mano libera ai privati, riducendo la spesa pubblica e quindi la gestione democratica di settori strategici dell’economia: il risultato è una struttura economica fragilissima sia nella capacità di fornire posti di lavoro di qualità, sia di garantire adeguati servizi pubblici essenziali.

La scarsità di medici e infermieri ha infatti origine nei blocchi del turnover, nelle riduzioni delle borse di specializzazione e nei numeri chiusi presenti in tutti i corsi di laurea di ambito sanitario. Allo stesso modo, l’attuale crisi del tessuto produttivo trova la sua spiegazione nel basso livello di digitalizzazione e automazione dei processi dato da un investimento minimo in innovazione e ricerca da parte dello Stato. Di converso, in questi anni si è vista l’incentivazione di attività che generano lavoro povero, come il turismo low cost, l’agroalimentare, i settori della ristorazione e dell’ospitalità. Questa strategia è stata realizzata anche attraverso misure vergognose come i voucher e l’alternanza scuola-lavoro.

L’ultimo risultato di questa politica economica dissennata è anche un mancato interesse verso l’ambiente, che invece avrebbe bisogno di essere rimesso al centro di qualsiasi politica di ricostruzione. Sarà necessario infatti accelerare la riconversione ecologica dell’economia attraverso piani mirati di lotta al dissesto idrogeologico, incentivi e intervento diretto nella produzione di energie rinnovabili, investimenti nelle tecnologie verdi e nel trasporto pubblico locale e nazionale al fine di ridurre le emissioni. Oggi si torna a parlare di nazionalizzazioni di industrie strategiche, un fatto positivo che mostra un superamento dei dogmi neoliberisti: tuttavia si deve garantire che il controllo statale della produzione sia orientato interamente alla più rapida transizione ecologica.

Questi interventi si inserirebbero all’interno di una rivendicazione più generale. Da una parte, c’è la necessità di superare un modello di sviluppo improntato unicamente alla crescita del PIL, visto come unico indicatore di benessere del Paese. Dall’altra, la priorità di garantire una piena occupazione e democrazia nei processi produttivi, a fronte di uno shock produttivo come quello che si vive in queste settimane.  Abbiamo visto come una pandemia globale che ha bloccato la produzione e il consumo per un mese sia riuscita a mettere in crisi generale il fragilissimo modello neoliberale. Serve un nuovo sistema, ma dobbiamo iniziare a costruirlo adesso.

Tratto da Rete della Conoscenza

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