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Reddito di cittadinanza: ultimo atto

di Luigi Colombini

L’ ANTEFATTO

La lotta alla povertà nel nostro paese ha origini antiche: in effetti, nel clima di un processo di laicizzazione dello Stato (il cui primo precursore era stato Baruc Spinoza) e della corrente europea KulturKampf, volta ad affermare il ruolo dello Stato anche nel campo dell’assistenza – fino ad allora monopolio della Chiesa – con la legge 17 luglio 1890, n. 6972, emanata dal Governo diretto da Francesco Crispi, furono pubblicizzate le Opere Pie, che assumevano la denominazione di IPAB (Istituzioni di Assistenza e Beneficenza), e provvedevano, in base ai loro Statuti, fra l’altro, anche all’assistenza ai poveri.
Erano anche gli anni in cui era scoppiata la “questione operaia”, l’emigrazione di massa degli italiani e delle italiane con le loro famiglie, per sfuggire alle condizioni di assoluta miseria e di povertà in cui vivevano, specialmente nel Sud e in alcune zone depresse del Nord, e la nascita delle organizzazioni operaie e delle società di mutuo soccorso, per far fronte, stante l’inazione dello Stato, alle analoghe condizioni di povertà per chi era rimasto. Era il tempo in cui Giovanni Verga denunciava le precarietà e lo stato di miseria della vita nella sua Sicilia.
Erano anche gli anni in cui, se da una parte nacque il Partito socialista e nacquero i Sindacati, dall’altra fu emanata l’Enciclica di Leone XIII “Rerum Novarum”, che in effetti lanciò la dottrina sociale della Chiesa, ed in cui, fra l’altro, preconizzava il ruolo dello Stato che doveva mirare al benessere dell’operaio, “facendo sì che esso partecipi in qualche misura di quella ricchezza che esso stesso produce, e si dia così vitto, vestito, e un genere di vita meno disagiato”. Inoltre “lo Stato deve proteggere particolarmente i lavoratori perché più deboli”, ed ancora: “i diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda… e nel tutelare questi diritti dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli ed ai poveri. La classe dei ricchi ha bisogno meno di questa pubblica difesa”. Con l’avvento del fascismo, anche a seguito della gravissima crisi economica che colpì gli USA (così ben narrata da Steinbeck nel romanzo “Furore”, ed affrontata dal Presidente Roosevelt già nel 1935 con il “social security act”), furono posti in vigore due atti di assoluto rilievo: L’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), nel 1933, su impulso di Alberto Beneduce ex ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nel 1921, nel governo presieduto da Ivanoe Bonomi, che lo diresse fino al 1939, e la legge n. 847/1937 che istituì l’Ente Comunale di Assistenza: con tale provvedimento, dopo la legge Crispi del 1890, veniva ufficialmente legalizzata l’assistenza statale, individuando il Comune quale riferimento territoriale fondamentale (già allora secondo il principio della sussidiarietà verticale), e quindi posta mano ad una prima azione decisa verso la lotta alla povertà, condotta e diretta dallo Stato: l’Assistenza ed il controllo sulle IPAB erano di competenza del Ministero dell’Interno. La susseguente seconda guerra mondiale, provocata dal nazismo e dal fascismo, portò in Italia, nelle sue tragiche conseguenze, alla perdita di circa 320.000 militari, 155.000 civili, per un totale di circa 475.000 vite umane, alla distruzione di centinaia di città, compresi monumenti, edifici storici di inestimabile valore (chi non ricorda la canzone Munastero e’ Santa Chiara?), di parti dell’Italia (Istria, Dalmazia, Briga, Tenda) e di tutte le colonie (Etiopia, Libia, Somalia, Eritrea, Rodi (e, per conto mio, ha profondamente compromesso il mio senso di italianità, connesso al senso di appartenenza ad una nazione che nel corso di secoli è stata culla di civiltà, di diritto e di arte), furono poste immediatamente le basi per un piano di aiuti e di lotta alla miseria ed alla povertà in cui era precipitato il popolo italiano: in effetti già con il Decreto legislativo luogotenenziale (D.L.Lg) 19 marzo 1945 (e quindi ancor prima del 25 aprile giorno della liberazione dell’Italia dal fascismo) venne approvato l’Accordo stipulato in Roma l’8 marzo fra il Governo italiano e l’UNRRA (Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione); connesso all’Accordo UNRRA del 9 novembre 1943 (quindi due mesi dopo l’armistizio dell’Italia e 17 mesi prima la totale liberazione dell’Italia dal nazifascismo), per la fornitura immediata di aiuti alimentari, di vestiario; a capo della delegazione italiana , con D.L.Lg) 14 aprile 1945 fu posto l’avv.to Lodovico Montini. La perdurante condizione di miseria e di povertà diffusa nel paese, portò nel 1952 alla costituzione della Commissione parlamentare sulla miseria, che pubblicò alla fine del suo lavoro 12 volumi di assoluto interesse per la profondità e le prospettive di intervento. Nel corso di quasi cinquanta anni, durante i quali si tentava di rendere effettivi i diritti civili e sociali delle cittadine e dei cittadini della Repubblica secondo i dettami della Costituzione (art. 1, 2, 3, 4, 5, 38), solamente nel 1997 su iniziativa ed impulso dell’ on.le Livia Turco, Ministra, non a caso, della solidarietà, fu avviata con la legge n. 285/1997 la costruzione di un primo mattone del sistema del welfare con l’individuazione degli ambiti territoriali sociali, e con la legge 237/1997 avviato il primo esperimento per la configurazione di un reddito minimo, riconoscendo in tale contesto il ruolo fondamentale del Comune, associato nei distretti, quale primo livello di sussidiarietà verticale e di prossimità alle cittadine ed ai cittadini nella realizzazione degli interventi di lotta alla povertà attraverso il Servizio Sociale Professionale. A distanza di circa ventitré anni, con la legge n. 4/2019 è stato istituito il Reddito di cittadinanza, che dopo il SIA ed il REI, è stato inteso quale sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e di inclusione sociale, di cui i beneficiari sarebbero stati protagonisti sottoscrivendo un Patto per il lavoro o un Patto per l’inclusione sociale.

LA FATICOSA COSTRUZIONE DI UN SISTEMA ORGANICO PER LA LOTTA ALLA POVERTA’

Nel corso di circa venticinque anni, partendo dalle Regioni con specifiche leggi regionali (Campania, Basilicata, Emilia Romagna, Friuli V.G., Lombardia, Puglia, Veneto) e dallo Stato, si è posta mano ad una complessa azione di lotta alla povertà, che è stata portata avanti innestandola nel parallelo processo di riforma dello Stato (d.lgs. 112/1998; legge 328/2000; l. cost. n. 3/2001) che si è tradotta nella costruzione di ben determinati principi fondamentali: Il Comune (ente esponenziale degli interessi della collettività), singolo o associato negli ATS quale primo livello della sussidiarietà verticale, inteso quindi il livello più prossimo e vicino al cittadino per il soddisfacimento e la risposta ai bisogni assistenziali, con l’offerta dei servizi alla persona ed alla comunità (d.lgs. 112/98) La Regione, intesa quale ente di legislazione, programmazione e controllo per la realizzazione delle politiche sociali. Lo Stato, quale sede primaria per la definizione dei livelli essenziali per l’esercizio dei diritti civili e sociali da parte dei cittadini, e la definizione di specifici interventi legislativi, di programmazione e di controllo in ordine alla lotta ed al contrasto alla povertà. Il riconoscimento del Servizio Sociale Professionale inteso quale perno centrale per la lotta alla povertà, con un deciso piano di assunzione di Assistenti Sociali connesso sia al Piano nazionale di lotta alla povertà, sia al Fondo di Solidarietà Comunale. Il riconoscimento del terzo settore sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale: Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. L’IMPATTO DEL R.d.C. SUL SISTEMA La normativa intorno al R.d.C. ha in effetti determinato una scarsa attenzione all’ osservanza del sistema sopra illustrato: è stato disposto che l’INPS provvedesse all’erogazione del beneficio economico in base all’istruttoria preliminare svolta dai Centri per l’impiego o dai CAF.
Pertanto gli attori principali per la realizzazione del R.d.C. sono stati in effetti i Centri per l’impiego ed i CAF, ed in sostanza i Comuni ed il Servizio Sociale Professionale sono stati posti in seconda linea per lo svolgimento di specifici interventi di lotta alla povertà, ignorando in effetti il principio della sussidiarietà verticale, in ordine al quale l’interessato era tenuto e rivolgersi primariamente al suo Comune di riferimento, che avrebbe attivato, anche in base a quanto era già previsto dal d.lgs. n. 237/1998 (che ha disciplinato l’introduzione in via sperimentale, in talune aree, dell’istituto del reddito minimo di inserimento,) il Servizio Sociale quale strumento fondamentale per la realizzazione del programma. L’IMPATTO DEL R.D.C. SULL’IMMAGINARIO COLLETTIVO Pur lanciato con nobili e buone intenzioni, il R.d.C., ha lastricato l’inferno di una reazione selvaggia e incontrollata da parte dell’opinione pubblica, fomentando odio ed invidia di classe, e comunque nel corso dei circa cinque anni di vigenza, proprio nella mancata osservanza di una saggia governance basata su adeguati strumenti di controllo e di verifica, che avrebbero comportato il potenziamento del Servizio Sociale Professionale inteso quale “servizio di prossimità” in grado di accompagnare gli interessati in un percorso di emancipazione e di empowerment e comunque, per converso, secondo lo spirito già indicato dalla citata legge 237/1998 e dalla legge 328/2000, valutato e controllato l’andamento del processo di inclusione (che invece è stato affidato ai “navigator”), ha determinato, con campagne di stampa assolutamente spregiudicate ed aggressive, la sua fine: già nella legge di bilancio del 2023, sono state gettate le basi per un nuovo modo di intendere la povertà, confermate nella legge e concluse con vari decreti.

LA NUOVA CONCEZIONE DELLA POVERTA’

Nel convulso intersecarsi di vari interventi per la lotta contro la povertà, le persone povere e le loro famiglie sono state divise in due categorie:
– I non occupabili
– Gli occupabili I non occupabili, rigidamente individuati con minori, anziani over 60 ed invalidi dentro casa, devono avere un Isee inferiore a 9.360 euro, per fruire di un beneficio mensile di 480 euro per diciotto mesi, rinnovabili per un anno dopo un mese di sospensione. Gli occupabili (19-60 anni) con un Isee inferiore a 6.000 euro, possono fruire, per un anno di 350 euro; I poveri da sfamare, devono avere un reddito inferiore a 15.000 euro, e con famiglia composta da almeno un figlio, beneficiano di circa 380 euro nel periodo 1 luglio-31 dicembre, quindi circa due euro al giorno, da dividere in tre: ricordiamo che la Regina Maria Antonietta, alla vigilia della rivoluzione francese a chi le comunicava che il popolo aveva fame rispondeva “dategli una brioche”, ed ora, dopo 250 anni, possono dividere una brioche in tre. Riflettendo su quanto, come riportato da mezzi di informazione, affermato da un esponente del Governo, ossia che i poveri mangiano meglio dei ricchi, non gli si può non dare ragione: a Napoli le famiglie povere hanno inventato la pasta e fagioli con i rimasugli delle varie paste invendute, rese più saporite proprio per i vari tipi di pasta impiegati (poi copiate dai ricchi!), mentre Alberto Sordi ricorda che in casa del Presidente della Fiat, Gianni Agnelli, a cena mangiò una foglia di insalata ed un piccolo dessert, e poi il caffè.

L’IMPATTO SOCIALE SULLE NUOVE MISURE

Le povere ed i poveri, con le loro famiglie, sono in effetti digitalizzati, e quindi rientrano in un elenco dal quale vengono estratti quelli che hanno titolo a ricevere qualcosa, da quelli che hanno perso tutto, tramite un semplice SMS, senza alcun rispetto dell’unica cosa che ancora rimane al povero: la dignità. Sembrano emergere dal lontanissimo passato le tavole di proscrizione di Silla, che le affiggeva al Foro romano, così che il cittadino romano, inconsapevole, era additato quale persone da eliminare, e quindi le leggeva con profonda angoscia, per vedere se il suo nome c’era o non c’era. È stato assolutamente indicato residuale il Servizio Sociale Professionale quale strumento fondamentale per accompagnare le persone povere e le loro famiglie verso un percorso di emancipazione e di autonomia, basato, ovviamente sulla comunicazione e sul dialogo, quale base di avvio del rapporto professionale e redazione della cartella sociale (mai presa in considerazione), al quale i poveri vengono dirottati in seconda battuta. Viene ignorata la dottrina sociale della Chiesa, la complessa costruzione di un sistema che, collegato anche ai Fondi europei, possa essere in grado di concretizzare le azioni e gli interventi di lotta alla povertà, nell’osservanza dei principi costituzionali della Repubblica italiana. Si assiste ad una brutalità concettuale del povero, stigmatizzato nel suo stato, ed estratto dalla sua condizione con l’approntamento e predisposizione di progressivi passaggi ad ostacoli ed ad adempimenti burocratici ed informatici che in effetti più che favorirne la promozione sociale, lo impoveriscono, lo avviliscono e lo allontanano dalla società ancora di più, in un infernale gioco dell’oca. Il popolo delle povere e dei poveri nel nostro paese vivono non già nella prospettiva e nella speranza di un futuro benessere, secondo l’art. 3 della nostra bellissima Costituzione, ma nell’attesa kafkiana di ciò che potrà succedere fra tre mesi, fra due anni, fra tre anni… a loro ed alle loro famiglie. Ho ancora davanti agli occhi gli sguardi di smarrimento e di angoscia delle povere e dei poveri che hanno manifestato a Napoli, che mi hanno fatto venire in mente quanto la Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria, 70 anni or sono, sottolineò: 90 mila napoletani non avevano di che mangiare nella giornata. Viene riproposto lo stesso scenario, con l’ammonizione collegata al principio che chi non lavora non mangia, e quindi è la persona in condizione di povertà e di disagio che deve attivarsi da sola, senza alcun sostegno ed accompagnamento – che dovrebbe essere garantito dal Servizio Sociale Professionale – attraverso un diretto rapporto con lo Stato, rappresentato dall’INPS o dal CAF, ed inserito in un sistema informatico che certifica la sua condizione e l’ammissibilità al beneficio, peraltro provvisorio. Viene ignorato il principio della sussidiarietà verticale, già individuato dal fascismo con la legge 847/37 sugli ECA, e costituzionalmente sancito dall’art. 5, e quindi il ruolo primario del Comune quale primo referente del cittadino per lo svolgimento dei servizi sociali. I Comuni vengono impegnati soltanto come recettori degli elenchi dei poveri individuati dall’INPS, e quindi quali soggetti abilitati a certificare lo stato di povertà che conferisce il titolo a fruire della Carta “dedicata a te”, e che in effetti ricorda Totò nel film “47 il morto che parla”, che esibiva la tessera di povertà per accedere gratis alle terme. Infatti la carta “dedicata a te” viene esibita nei supermercati per acquistare ben determinati prodotti. Lo scenario finale è di un ritorno al passato, a prima di quando il fascismo, nel 1928, istituì a S. Gregorio al Celio una prima scuola per Assistenti Sociali finalizzata ad aiutare le famiglie con quello che poi sarebbe stato indicato quale segretariato sociale.

 

Ringraziamo il CILAP per averci segnalato l’articolo, tratto da Mappeser

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