Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
emploi

Per una società con il reddito di base e senza politiche attive del lavoro

di Roberto Ciccarelli

Breve, ma significativa, storia del «reddito di cittadinanza» in Italia

A più di due anni dall’introduzione del «reddito di cittadinanza» nel dibattito pubblico italiano non è stata compresa la reale portata di questa riforma che vincola il riconoscimento di un sussidio di ultima istanza all’obbligo del lavoro gratuito per gli enti locali e il privato sociale fino a 16 ore a settimana; all’obbligo della formazione professionale in mancanza di istituzioni deputate a farlo; all’obbligo di accettare un’offerta di lavoro anche a mille chilometri dalla residenza. La rimozione di un aspetto inquietante, eppure centrale, di questa politica di workfare è comprensibile: la legge che ha istituito un meccanismo infernale non è ancora stata applicata. La storia delle politiche sociali in Italia è piena di leggi teoricamente compiute ma irrealizzate. Di solito sono sostituite da altre leggi che restano ugualmente inapplicate e si sovrappongono alle precedenti formando un labirinto inestricabile dove la vita di chi ha bisogno di assistenza e di tutele è resa impossibile. È la doppia pena alla quale è sottoposto chi è escluso dalla cittadinanza sociale: non solo non ha i mezzi per condurre una vita dignitosa, ma deve ingegnarsi per aggirare gli ostacoli posti dallo Stato per beneficiare di tutele minime residuali che non garantiscono la sopravvivenza. La vita è spinta inesorabilmente verso l’illegalità contro la quale lo Stato si muove e punisce. Da questo circolo vizioso si può anche non uscire mai. Il «reddito di cittadinanza» è l’espressione di questa storia. Con una differenza: l’esplosione della pandemia del Covid ha bloccato le attività economiche, ha imposto l’aumento di precarietà e povertà e ha reso impossibile creare un sistema di Workfare annunciato dal governo formato da Lega e Cinque Stelle (Conte 1). La combinazione di questi
fattori ha creato una situazione inedita: in Italia, nel momento in cui scrivo (giugno 2021), si può dire che esiste un involontario sistema di reddito di base incondizionato che garantisce, a circa tre milioni di persone, un beneficio medio pari a 524 euro mensili. Questa situazione è ritenuta intollerabile per ampi settori degli opinion makers. Al termine del secondo ciclo di chiusure parziali con le quali si è cercato di contenere la circolazione del virus, al momento della riapertura delle attività nel settore dei servizi, in particolare nella ristorazione e nel turismo a bassissima produttività e altissima precarietà, è ripartita la consueta campagna mediatica a sostegno dello sfruttamento. Sono state propagandate le lamentele di chi sostiene di non trovare lavoratori in nero o a poche centinaia di euro al mese. La responsabilità è stata attribuita al «reddito di cittadinanza» che permetterebbe a un «popolo» lazzarone di restare sul divano e non lavorare in condizioni umilianti. Sempre che le cose stiano così, e non è affatto detto, si può dire che questo «reddito di cittadinanza» che non è tale ha assolto a una funzione alla quale in realtà il legislatore del 2018-2019 non aveva certo pensato: sollevare i precari dal ricatto del lavoro sottopagato, senza garanzie né diritti. In quanto «reddito di base» del tutto involontario, questa misura ha assolto a un momento preliminare della lotta di classe: il rifiuto di farsi sfruttare da parte dei lavoratori impone la chiusura delle attività dei loro sfruttatori potenziali. Se questi ultimi non sono disposti ad assumere, con tutte le garanzie e con un salario almeno decente, è bene che chiudano. Un reddito di base incondizionato, adeguatamente finanziato e organizzato in maniera organica all’interno di un Welfare riformato in termini universalistici, è una sanzione sociale, prima ancora che penale, contro gli sfruttatori. In una chiave minimamente riformista ciò potrebbe essere utile anche per creare un sistema di impresa decente. Per realizzarlo ci sarebbe tuttavia bisogno di una generale riforma della legislazione sul lavoro e, anche, delle politiche dell’occupazione, oltre che di quelle fiscali. Tali riforme potrebbero essere organizzate a partire dall’estensione dell’attuale «reddito di cittadinanza» alla platea potenziale di tutti coloro che si trovano in povertà relativa, svincolato dai vincoli al lavoro e alla formazione obbligatoria che rendono, al momento solo sulla carta, il «reddito di cittadinanza» esistente il pilastro di un feroce sistema di Workfare.

Il nuovo governo Draghi ha preannunciato una riforma del «reddito di cittadinanza» di cui non è al momento possibile definire i tempi e i contenuti. È certo che andrà in una direzione completamente diversa da quella auspicabile nei termini di un garantismo sociale e democratico. Questa valutazione è comprensibile a partire da un fatto: tra le diverse ipotesi circolate nessuna ha messo in dubbio l’apparato delle sanzioni tipiche di ogni sistema di Workfare (lo descriverò nel prossimo paragrafo). In compenso, durante la pandemia il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha ipotizzato una riduzione dell’importo medio e un allargamento della platea nel tentativo di mantenere l’equilibrio tra la selezione allargata ad alcune categorie di poveri colpiti dalla nuova crisi e l’apparenza di un universalismo selettivo che si conferma una costante nel Workfare all’italiana. Non è escluso che una possibile riforma della misura esistente proceda su questi binari,  considerando la pressione delle autorità europee verso la creazione di un sistema paragonabile a quello presente in altri paesi. La «ripresa» occupazionale prefigurata dal «piano di resilienza» approvato in Italia si affida a questo schema.

È possibile che si stia pensando di separare i beneficiari del «reddito», coloro che sono stati reputati «inabili» al lavoro e alla formazione (la maggioranza, all’incirca due milioni di persone) da coloro che invece lo sono e hanno sottoscritto un «patto per il lavoro» nei centri per l’impiego (all’incirca un milione di persone). Si presume che una riforma possa sdoppiare la misura in un sussidio di povertà prolungato ma temporaneo (massimo 36 mesi, per ora), da un altro che potrebbe avere la stessa durata ma sarà comunque vincolato alla prova dei mezzi patrimoniali oltre che alla disponibilità morale del beneficiario a essere occupabile secondo i criteri scelti dallo Stato e dalle imprese. Potrebbero essere possibili interventi sulla scala di equivalenza che oggi danneggia i nuclei familiari più numerosi e privilegia i single nella distribuzione del «reddito». Esiste anche un invito alla riforma del calcolo dell’Isee per coloro che sono piombati nella povertà assoluta nell’ultimo anno della pandemia. L’Isee calcola il reddito rispetto all’anno precedente la richiesta e non permette di erogare il «reddito di cittadinanza» a chi non rientra nel perimetro della povertà assoluta cronicizzata. Anche per questa ragione prima il governo «Conte 2», e poi quello Draghi, hanno creato e prorogato una misura-doppione come il «reddito di emergenza» (Rem) che non risolve i problemi della misura principale, ma moltiplica i problemi. Il «Rem» è nato dal rifiuto programmatico di tutti i partiti che componevano la maggioranza del governo «Conte 2» di riformare il «reddito di cittadinanza» eliminando tutti i vincoli che lo rendono una politica workfarista. Per lo stesso motivo è stato preferito sprecare miliardi di euro in bonus (senza considerare quelli andati per finanziare le aziende che producono monopattini elettrici o i miliardi spesi per il «cashback» di Stato) invece di avviare la formazione di un nuovo Welfare universale a partire dall’emergenza pandemica. A oggi il consenso per questo sistema è quasi totale.

La violenza contro poveri, precari, disoccupati e stranieri extracomunitari

La lettura della legge che ha istituito il «reddito di cittadinanza» è un’esperienza istruttiva. Partiamo da questo esempio: se il beneficiario del «reddito» non accetterà né la prima, né la seconda offerta del lavoro entro i 250 km dalla zona di residenza, sarà costretto ad accettare la terza proposta anche sull’intero territorio nazionale. In cambio di un salario prevedibilmente modesto – al punto che lo stesso legislatore si è peritato di immaginare un contributo aggiuntivo di alcune mensilità per sostenere le spese del trasloco – questa persona sarà costretta a emigrare. È ragionevole pensare che questo destino sia riservato alla maggioranza dei percettori del sussidio che risiedono a Sud, cioè nella parte del paese dove non c’è una sufficiente offerta di lavoro. In questa prospettiva il «reddito di cittadinanza» è uno strumento che, nel migliore dei casi, agevola la migrazione verso il Nord, nel peggiore la impone pena ritorsioni da parte dello Stato che ha finanziato il sussidio per trovare manodopera alle aziende del Nord.

La violenza sociale ipotizzata in questa misura è almeno pari all’obbligo di lavorare gratuitamente fino a 16 ore a settimana per 18 mesi rinnovabili per altri 18 a beneficio degli enti locali e del privato sociale convenzionato che hanno bisogno di soggetti per sostituire manodopera contrattualizzata. Quest’ultima disposizione sarebbe valida fino al momento in cui il beneficiario di un reddito non avrà accettato un lavoro propriamente detto. È forte l’impressione che, in questo caso, il percettore del «reddito di cittadinanza» sia oggetto di un ricatto: o prosegue con i lavori socialmente utili, oppure accetta un lavoro che può essere anche a mille chilometri di distanza. Questa abiezione, tale dovrebbe essere in una società che si ritiene «democratica», è il frutto della razionalizzazione del sistema di lavoro gratuito adottato da molte amministrazioni locali per mettere all’opera persone durante gli anni dei tagli e del blocco del turn-over. Pratiche come queste sono diffuse negli appalti e nei subappalti della pubblica amministrazione che coinvolgono le cooperative, soprattutto nel lavoro culturale. Il sistema delle politiche attive del lavoro, incardinate nel «reddito di cittadinanza», è funzionale a questo sistema. Anzi, può essere considerato il suo compimento. Per dare un’idea della ferocia di questo sistema si può qui ricordare che una forma simile  ai «lavori socialmente utili» è stata praticata nell’Ungheria governata da Orban. Con una differenza: in questo caso è previsto un compenso e un contratto per chi percepisce anche un sussidio di  povertà. Tale eventualità è stata esclusa invece in Italia. Da queste osservazioni emerge il fatto che il «reddito di cittadinanza», e le politiche attive del lavoro, fanno parte di un unico sistema di Workfare. Tuttavia questa tesi stenta a essere accettata nel dibattito pubblico nel quale si preferisce – da destra e da sinistra – sottolineare il fatto che la misura in discussione è confusa perché mescola le politiche di contrasto della povertà con le politiche occupazionali.

Tuttavia è sufficiente leggere la legge per dare una più realistica valutazione di una misura ambiziosa che cerca di fare entrambe le cose in un’unica politica del Workfare. Non è escluso che ciò comporti malfunzionamenti e sovrapposizioni, anche perché la legge è in gran parte inapplicata. Ciò non toglie che, in questa o in un’altra forma, l’obiettivo resti sempre lo stesso: segmentare i «poveri» in «abili» e non «abili» al lavoro precario. Inoltre si tratta di rifondare la loro mentalità, e persino la loro antropologia, attraverso una fitta serie di prescrizioni. Infine si tratta di educare gli esclusi, i marginali, i riottosi a una nuova forma della cittadinanza morale che i teorici delle politiche attive del lavoro, nutriti dalle teorie transizionali del mercato del lavoro, chiamano occupabilità. È questo il centro propulsore della riforma del Workfare: i poveri, i precari e i disoccupati sono distinti in base a una valutazione morale, attitudinale, familiare e psicologica della disposizione ad accettare un’occupazione profilata sul «curriculum» di coloro che sono in povertà assoluta. Quante di queste persone abbiano un «curriculum» e possano avere un «profilo» da gestire managerialmente non è chiaro, ma rivela le velleità delle teorie neoliberali e il senso della loro missione di educazione del «povero».

Questa operazione mira a inserire i beneficiari del «reddito di cittadinanza» in due canali diversi: quello dell’assistenza e quello del lavoro. Nel primo canale si definisce un modello di cittadino povero ma disciplinato che percepisce un sussidio e risponde al controllo dello Stato e degli enti locali sull’ordine familiare, oltre che della sua capacità di spendere il sussidio entro un mese, pena il suo decurtamento in quello successivo. Ancora più invasivi sono i controlli per coloro che sono immessi nel canale «lavoro». Nel loro caso l’occupabilità dev’essere dimostrata attraverso riunioni periodiche al centro per l’impiego, la partecipazione ai corsi di formazione e ai lavori socialmente utili, alla disponibilità di partire e andare lontano dalla residenza e infine su quella di lasciare la famiglia e pagare un affitto in una città sconosciuta. Quante persone con redditi esigui, e in condizione di povertà, possano permettersi questo tipo di vita da studenti, o da imprenditori di sé stessi, non è dato sapere. È oggettivamente impossibile pensare a una soluzione di questo tipo. Da qui nasce l’impressione che le politiche attive del lavoro, combinate con il «reddito di cittadinanza», siano una minaccia concepita per costruire un modello di cittadinanza morale e per moralizzare i potenziali comportamenti devianti che, per natura, le élite populiste ritengono albergare nel «popolo» infido, falso e traditore. La sfiducia acrimoniosa e violenta delle classi dominanti rispetto al «popolo» è comprensibile a partire da una serie misure iperboliche e incostituzionali presenti nella legge sul «reddito di cittadinanza». A esempio la pena fino a sei anni di carcere per dichiarazioni mendaci riguardanti il lavoro nero o irregolare svolto mentre si percepisce il «reddito di cittadinanza». Oltre la perdita del sussidio e il carcere colpisce l’asimmetria della pena per il datore di lavoro che ha reclutato il beneficiario del «reddito» tenendolo in «nero» senza assumerlo: si tratta di sanzioni pecuniarie e al limite alternative, nonché facilmente oblazionabili. Per un reato simile, quello di caporalato, la pena per lo sfruttatore è minimo di un anno. La pena prevista per una dichiarazione falsa varia invece da a sei mesi a tre anni. Nel caso del «reddito di cittadinanza» è quadruplicata nel minimo e raddoppiata nel massimo. Si vuole così infierire sugli indifesi anziché colpire i loro aguzzini. Al momento non sono a conoscenza di procedimenti penali di una simile gravità, anche se sono noti molti casi di revoca del sussidio per lavoro nero. La minaccia non sembra essere efficace. Si continua, e si continuerà, a lavorare in nero fino a quando non sarà garantito perlomeno un Welfare che permette di rendere dignitosa un’esistenza attraverso la tutela del reddito e dei servizi essenziali di qualità. Senza la garanzia più ampia possibile di un’uguaglianza nessuna dissuasione, né intervento poliziesco, riuscirà mai a rendere «efficace» un sistema sociale.

Leggiamo le altre norme sulla revoca del «reddito di cittadinanza». È prevista anche nei casi di condanna nei dieci anni precedenti la richiesta per reati di «terrorismo», ma anche nei casi di dichiarazioni false. È prevista inoltre la restituzione di quanto ricevuto. E, così facendo, si colpiscono in maniera esemplare tutti i membri della famiglia. In pratica si pensa a un’associazione a delinquere con i parenti. In caso di condanna penale definitiva per questi reati il beneficio non può essere nuovamente richiesto dieci anni dopo la condanna. È eclatante la criminalizzazione delle persone attraverso queste norme che rendono automatica la repressione anche nel caso in cui sia avvenuta una semplice infrazione che dovrebbe essere trattata tutt’al più sul piano amministrativo.

Alla luce di queste enormità si può dire che il «reddito di cittadinanza» serve per comminare pene esemplari al fine  di creare un regime della dissuasione e radicare un clima di sospetto in una cittadinanza che va rieducata nella mentalità e nelle condotte. Il soggetto di questa misura è sempre e comunque un potenziale criminale. Queste norme, ispirate al razzismo contro i poveri interni alla cittadinanza, sono politicamente collegate a quelle che escludono dal beneficio del «reddito» i poveri che sono esterni alla cittadinanza. L’esclusione degli extracomunitari residenti da meno di dieci anni in Italia risponde a una riarticolazione razzista delle politiche sociali che vanno intese in maniera parallela con il bando, il respingimento in mare, l’incarcerazione nei Cpr o il subappalto della prigionia (e delle torture) in Libia dei migranti. Da questo punto di vista il «reddito di cittadinanza» è organico alle politiche securitarie adottate dal razzismo di Stato. Per di più la legge ha «dimenticato», non casualmente, coloro che hanno ricevuto lo status di «rifugiato» e risiedono in Italia. Si tende così a fare terra bruciata e negare ogni forma di cittadinanza a chi non ha diritto a esistere.

Questa analisi dimostra come il «reddito di cittadinanza», se e quando sarà effettivamente in vigore, un caso di studio per la storia mondiale del Workfare ed esplicita la carica di inimicizia dei populisti contro il «popolo» sia «interno» che «esterno». Il loro punto di vista è rigidamente classista ed è comprensibile attraverso una costante di tutte le politiche sociali reazionarie: la povertà è governabile attraverso il diritto penale.

Una società liberata senza politiche attive del lavoro

Una trasformazione del «reddito di cittadinanza» verso un reddito di base risponde a una politica di liberazione fondata sull’autonomia personale e collettiva. L’autonomia sociale è una forma di responsabilità collettiva e solidale che incoraggia l’affermazione di virtù civili e politiche ispirate all’indipendenza e alla cooperazione ed è basata sulla libertà dai ricatti e sulla libertà di intraprendere percorsi che hanno bisogno di tempo per radicarsi e svilupparsi. L’idea del tempo sociale liberato è il contrario del tempo colonizzato dalle prestazioni che servono ai gestori delle politiche attive del lavoro per controllare la vita dei poveri, precari, disoccupati. In questo tempo liberato si potrebbe anche scoprire che non esiste nulla di più utile per un essere umano che un altro essere umano. Una società senza politiche attive del lavoro è basata su un coraggioso rovesciamento del pessimismo antropologico e dell’odio sociale per chi è pensato come un non-occupato, quindi privo di fini da perseguire nella vita, incapace di calcolare e accumulare titoli e meriti, o uno stipendio. Il tempo disoccupato è considerato socialmente pericoloso. L’obiettivo del tempo socialmente liberato è invece quello di riscoprire l’attività, liberandola dalla coazione del lavoro povero e da quello comandato. Si tratta di coltivare l’autonomia non in occupazioni inutili fini a sé stesse e funzionali alla creazione delle burocrazie che rendono un inferno la vita degli esclusi. Il problema di questa politica anti-capitalistica è il seguente: in un mondo dove la libera attività è tutt’al più intesa come il tempo libero da passare all’aperitivo in che modo può risultare convincente l’invito a istruirsi, a cooperare, a inventare, a cercare un lavoro non qualsiasi ma necessario e sufficiente per rispondere ai bisogni e ai desideri? Per rispondere a questa domanda è necessario prendere il tempo e guadagnarlo diversamente. Questo è l’obiettivo di fondo di una forma incondizionata di reddito. Tuttavia un reddito di base non è sufficiente, nemmeno come misura esemplare. È necessaria una riforma universalistica del welfare e quindi la rifondazione di un concetto molto importante: quello di lavoro sociale nei servizi pubblici. Se è necessario che il più grande numero di persone siano sollevate dal ricatto della precarietà, è altrettanto necessario che un numero altrettanto grande lavori per permettere a queste persone – ma anche a se stesse, evidentemente – di potere governare il proprio tempo attraverso istituzioni sociali che funzionano a partire da criteri di giustizia. Oggi questi criteri sono sussunti nell’efficienza economica dei saperi esperti e nella strumentalità dei rapporti burocratici che finiscono regolarmente per bloccarsi in uno stallo. La degenerazione del Welfare nasce da qui e non è mai facile prospettare il superamento dei suoi limiti. Per questa ragione occorre un’altra idea di lavoro sociale pubblico da intendere in maniera coordinata con il tempo liberato. Entrambi sono parti di una riforma dello stato sociale, oggetto della riflessione politica contemporanea, nei termini della compartecipazione ai servizi, di ripubblicizzazione degli stessi e di rifiuto dell’aziendalizzazione. Su queste basi è possibile argomentare il rifiuto delle politiche attive del lavoro, a partire dalla cancellazione del business della disoccupazione e della precarietà alimentato dalle agenzie dell’intermediazione del lavoro, da quelle della formazione, dagli enti locali, dai governi. L’esperto, l’impiegato, il dirigente non andrebbero considerati come servitori della macchina dell’oppressione, ma come alleati per sviluppare le facoltà e le capacità di prendersi il tempo e crearlo liberamente insieme agli altri e alle istituzioni co-dirette con gli utenti.

L’immaginazione costituente delle pratiche di governo dell’autonomia potrebbe essere basata su un ripensamento colossale della scuola e dell’università, lì dove dovrebbero formarsi queste pratiche, insieme allo spirito pubblico del tempo liberato. Tornare a popolare l’istruzione e la ricerca, esigenza fondamentale per creare un tessuto connettivo, simbolico e affettivo tra le persone oltre la burocrazia e gli automatismi è una priorità politica per una società che pensa l’autonomia del Welfare. In più ciò permetterebbe di ripensare la scuola e l’università al di là delle riforme neoliberali che le hanno devastate a partire dal 1989-1990 trasformandole in agenzie pubbliche del collocamento e della valutazione professionale.

Questi primi elementi di una società liberata permettono di illustrare un percorso possibile oltre la violenta prescrittività del Workfare, finalizzata a vincolare il soggetto al mondo del lavoro precario. Al fondo i sostenitori del reddito di base prospettano una libera attività a partire dalla sicurezza sociale ottenuta da una riforma dello stato sociale. Libera attività è la formula usata da Karl Marx per descrivere il doppio movimento della liberazione del lavoro dalle mansioni, dalle prestazioni e dall’auto-sfruttamento e della liberazione dal lavoro salariato e comandato. Le politiche attive del lavoro possono essere superate da queste libere attività organizzate che nascono quando gli individui sociali maturano il tempo necessario per liberare pensieri e azioni. Non è un orizzonte immediato, ma le utopie concrete si realizzano facendole.

Tratto da Quaderni per il Reddito n°11  Verso il reddito di base. Dal reddito di cittadinanza per un welfare universale.

Altri articoli

SEGUICI