Un altro contributo dopo l’appello alla presa di parola lanciato dal Bin Italia sul reddito garantito
Di questi tempi la parola riforma ha un che di sinistro. Per questo la volontà espressa dal governo di riformare il sistema degli ammortizzatori sociali suona terribilmente minacciosa, tanto che pure l’attenzione mostrata dalla ministra Fornero per il reddito di cittadinanza genera diffidenza, immaginandosi che esso, ove inserito nella riforma del welfare, verrà giocato contro le residue tutele del lavoro per introdurre maggiore flessibilità e precarietà, ciò che del resto la retorica del posto fisso-come-tabù profusa a piene mani nelle ultime settimane da autorevoli esponenti del governo lascia presagire. D’altra parte pure all’interno del sindacato e della sinistra (intendo quella ora extraparlamentare) la proposta del reddito di cittadinanza è largamente percepita come antitetica alla difesa del lavoro. Quando non avversata come lesiva della stessa etica del lavoro, essa è giudicata inopportuna o intempestiva in quanto distoglie risorse dall’obiettivo principale, che resta quello di restituire centralità al lavoro salariato a tempo indeterminato. Questa convinzione coincide spesso, peraltro, con la posizione politica di chi, nel contrastare il progetto dell’Unione europea e la stessa carta di Nizza in quanto depositari e promotori di politiche e valori neoliberali, contrappone all’uno e all’altra l’ispirazione sociale delle costituzioni nazionali del dopoguerra. Ora proprio in questi giorni, su iniziativa dei movimenti delle cittadinanze d’Europa, è partita una campagna finalizzata a presentare alla Commissione europea una proposta di direttiva che vincoli gli stati membri ad introdurre forme di garanzia del reddito minimo. E’ dunque il momento di aprire dentro la sinistra una discussione la più ampia e partecipata possibile tanto sul primo punto – il rapporto reddito di base/lavoro – quanto sul secondo – i diritti nella dimensione nazionale e in quella europea. E il disegno complessivo della costituzione italiana può utilmente assumersi come il primo dato su cui riflettere per avviare una tale discussione.
Nella nostra costituzione il lavoro è fattore emancipatorio per eccellenza. In essa il mutamento antropologico segnato dall’abbandono del modello del proprietario borghese e dall’assunzione a termine di riferimento del lavoratore salariato è rafforzato da garanzie che riguardano non soltanto le condizioni materiali di vita del lavoratore (la garanzia del diritto al lavoro degli artt. 4 e 35; la retribuzione atta ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa dell’art. 36, la proprietà accessibile a tutti dell’art. 42 2° co.), ma qualcosa di più e di ulteriore: l’accesso o, meglio, la partecipazione attiva alla sfera pubblica, cuore della (promessa della) pari dignità sociale dell’art. 3, 1° co., che si esplicita nel comma successivo, dove si prescrive l’obiettivo della rimozione degli ostacoli di natura economica e sociale che “impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” ed è assicurata nella sua effettività dal riconoscimento dell’organizzazione sindacale (art. 39) e del diritto di sciopero (art. 40).
Ma la costituzione del ‘48 è stata pensata in una fase del capitalismo molto diversa da quella attuale. Il lavoro non è oggi più fattore di emancipazione. Il fenomeno degli working poor, relativamente nuovo in Italia, lo dimostra chiaramente. Il lavoro ha smesso di garantire a chi lo svolge una vita degna e men che meno è oggi la base della partecipazione alla sfera pubblica. In realtà milioni di persone in questo paese sono attualmente fuori dal progetto costituzionale, escluse dalla garanzia di un’esistenza libera e dignitosa, sia perché prive della garanzia di condizioni materiali di sussistenza, sia perché escluse – in quanto estranee alla categoria dei lavoratori salariati – dall’accesso a quegli strumenti di partecipazione politica – il sindacato, lo sciopero – che contribuiscono alla dimensione della vita activa. Come ci ricorda Rodotà, ciò che dava concretezza all’homo dignus, il rinvio al lavoratore, si perde in quanto è stato spezzato il nesso fra lavoro e dignità. Di questo dobbiamo prendere atto non per buttare a mare il progetto costituzionale, ma per aggiornarlo. Magari rafforzandolo con quanto di buono può prendersi dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cominciare da quell’enfasi sul rispetto della dignità umana (titolo I, art. 1) utilissima se interpretata in chiave di dignità sociale. Se l’esigenza al centro del disegno costituzionale è quella di andare oltre il grado zero dell’esistenza, come dice ancora Rodotà, l’impegno di garantire a tutte e tutti un’esistenza conforme a dignità umana, che deve desumersi dalla Carta di Nizza, è perfettamente in linea con quel disegno. Ma ciò passa oggi ineludibilmente per il riconoscimento su base universale di un reddito di cittadinanza che sia garanzia tanto di condizioni materiali di sussistenza, quanto di vita activa, cioè di “equa partecipazione alla vita politica, culturale e sociale”, come ha di recente affermato il Tribunale Costituzionale Tedesco.
Ma c’è di più. La garanzia del reddito minimo è quanto oggi consente di guardare da un punto di vista realista, ma anche solidale e egalitario, al lavoro che cambia, di riconoscere il lavoro nelle mille forme di non-lavoro che consentono a questo sistema economico-sociale di perpetuarsi, soprattutto di cogliere gli intrecci ormai non più districabili fra produzione e riproduzione, di cui siamo tutte e tutti artefici. Una ristrutturazione del sistema di welfare che ruoti attorno all’utopia possibile del reddito minimo garantito è dunque esattamente ciò che serve per rimettere al centro del sistema costituzionale un modello antropologico concreto e inclusivo, quello della persona immersa nella rete complessa della cooperazione sociale e parte integrante della comunità, se pur non necessariamente partecipe, secondo schemi predeterminati, del sistema produttivo tradizionalmente inteso.