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Ni Una Menos. Un reddito di autodeterminazione contro lo sfruttamento capitalistico e patriarcale

di Maria Rosaria Marella

Una donna ultraottantenne si lamenta di non aver avuto da quando si è sposata, oltre 60 anni fa, un solo giorno in cui non ha dovuto cucinare, riassettare la casa, rifare i letti, ecc. “Non ci sono ferie, Natali, Pasque e compleanni per me. Non è giusto!” dice. E come darle torto? Ha lavorato tutta la vita, ogni singolo giorno della sua esistenza da adulta, e la società l’ha apprezzata sempre e solo come moglie di qualcuno. E mai l’ha remunerata per il suo lavoro. Rimasta sola sarà ancora il legame familiare con l’uomo che ha sposato a garantirle un reddito attraverso la pensione di reversibilità. Una donna di mezza età rimpiange di aver scelto di stare a casa per crescere i figli. Ora che sono grandi vorrebbe uscire dalla condizione di dipendenza dal marito (e dai genitori che ancora l’aiutano economicamente), avere un reddito suo, la libertà di non dover giustificare come spende i soldi del mese, ma nonostante la sua laurea, la possibilità di entrare ora nel mercato del lavoro è pari a zero. Perciò continuerà tutta la vita a dipendere dal marito così come è accaduto alla donna ultraottantenne. E deve anche ritenersi fortunata: se la sua unione non fosse fondata sul matrimonio, al momento dello scioglimento della coppia per lei sarebbero guai seri. A questa donna dovremmo ricordare – non so neppure se a titolo di consolazione – che se avesse lavorato nel mercato avrebbe comunque continuato a lavorare anche in casa gratuitamente per i suoi familiari, perché, anche se non lo si dice più apertamente, certe cose sono (continuano a essere) da donne. Ma senza un reddito, quale che sia la sua età, 40, 50 anni, non c’è progettualità. Solo la prospettiva di azioni ripetute ogni giorno, anno dopo anno, senza alcun riconoscimento sociale. Una giovane laureata tiene pulita la casa anche per i suoi conviventi maschi. Non in base a un accordo. Semplicemente perché è così che poi vanno le cose. Se anche lei lo fa notare e protesta, la condivisione del lavoro domestico non dura che pochi giorni. Poi ricomincia la routine in cui si fa finta che l’appartamento si tenga pulito e in ordine da solo. Il lavoro casalingo le sottrae tempo per il lavoro retribuito part time che potrebbe svolgere mentre finisce la tesi di dottorato. No lavoro remunerato, no reddito. E se decide di rivolgersi ad un aiuto pagato per guadagnare un po’ di tempo e libertà, deve contribuire alla retribuzione della colf insieme ai suoi conviventi. Pur prestando lavoro gratuito in loro favore quotidianamente. Perché è lavoro invisibile, non-lavoro. Come sarebbe la vita di queste donne se il loro impegno, la loro fatica quotidiana, fisica e psicologica, fosse retribuita per quanto vale in termini di produzione sociale? Tuttavia se ciascuna di queste donne rivendicasse nei confronti dei propri familiari una retribuzione, nessun tribunale al mondo le darebbe ragione. Perché il lavoro che presta è giustificato dal rapporto affettivo, più propriamente, dalla solidarietà familiare, una nozione di solidarietà precisamente connotata in senso politico e ideologico, saldamente iscritta com’è in un ordine sociale che si vuole radicato nella separazione fra famiglia e mercato e nel paradigma della famiglia nucleare. In base alla solidarietà familiare il lavoro domestico e di cura è dunque ritenuto giustamente gratuito. Anzi, neppure ascrivibile alla categoria Lavoro.

Hai voglia a dire queer: quando si tratta di lavoro domestico e di cura i generi si ripresentano in forma smagliante e la fanno da padroni! Il regime, anche giuridico, delle relazioni domestiche continua a fondarsi saldamente su una rigida dicotomia produzione/riproduzione. E la riproduzione è faccenda femminile – se non sempre e interamente nella sua diretta esecuzione, sicuramente nella sua gestione, organizzazione e amministrazione. Chi dice che il patriarcato è morto ignora questa diffusa realtà. Purtroppo, invece, il patriarcato è ben saldo dentro l’istituzione famiglia, nella divisione sessuale del lavoro, quasi naturalmente rafforzata e perpetuata nel modello della famiglia nucleare e procreativa. E non aiuta in questo senso – sia detto per inciso – l’affannarsi di una parte del movimento lgbt nel rivendicare accesso ad una istituzione modellata proprio sul paradigma della famiglia nucleare e procreativa. Il crittotipo patriarcale continuerà a regolare la famiglia, a dispetto della sua celebrata, nuova veste egalitaria, almeno fintantoché il lavoro domestico non sarà equamente distribuito fra i conviventi. E fintantoché non sarà riconosciuto come lavoro produttivo e quindi retribuito.

Lo avevano capito molto bene già all’inizio degli anni Settanta le femministe materialiste quando, rigettando la dicotomia produzione/riproduzione in quanto ideologica e mistificatoria, denunciavano, in pieno furore lavorista da boom economico, che per qualcuno, anzi per qualcuna, il lavoro non era, non era mai stato, emancipatorio e soggettivante e dunque rivendicavano a compensazione del lavoro domestico e di cura svolto in famiglia il salario per le casalinghe, esempio‘storico’ di basic income che collocava il diritto al reddito finalmente fuori dalla produzione e dal lavoro tradizionalmente intesi. Oggi quella rivendicazione appare ancora sacrosanta pur davanti ad un radicale rovesciamento di prospettiva: se negli anni ’70 si reclamava un reddito per il lavoro domestico affermando che tutto è produzione, oggi nelle economie a capitalismo avanzato tutto il lavoro sembra mimare piuttosto la riproduzione. La gratuità del lavoro domestico, la sua immagine di non-lavoro, è diventata un modello pervasivo nell’epoca del capitalismo cognitivo. Abbiamo assistito nel passato recente ad un fenomeno diffuso di femminilizzazione del lavoro, espressione che gradualmente è andata indicando prima il massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro; poi, il cambio di natura del lavoro stesso, divenuto maggiormente flessibile e meno tutelato sul modello dei lavori tradizionalmente femminili; quindi l’estensione dei modi e dei tempi propri del lavoro di cura – della sua componente affettiva, relazionale, emozionale, dell’impegno tipicamente ‘senza orario’ – ben oltre la sfera domestica, ai molti lavori ‘immateriali’. Da ultimo, l’estensione del carattere saliente del lavoro riproduttivo, la gratuità, ad altre tipologie di attività lavorative, in particolare al lavoro giovanile. Infatti, se da una parte la dicotomia produzione/riproduzione resta il baluardo di un ordine sociale ancora pervaso da motivi patriarcali, il suo rigetto, dall’altra, è fatto proprio dal capitalismo maturo che del modello del non lavoro fa ora un dispositivo con cui mettere all’opera le giovani generazioni sotto l’etichetta della formazione.

Per altro verso, le politiche della World Bank nel sud del mondo, ancora giocando fra produzione e riproduzione, mirano a realizzare l’emancipazione femminile spingendo le donne a entrare nel mercato del lavoro e a farsi imprenditrici attraverso gli strumenti del microcredito. È noto come l’ingresso nella produzione non le abbia sollevate dal peso della riproduzione, come al contrario queste politiche abbiano portato alla distruzione delle reti di solidarietà sociale proprie delle economie tradizionali, con il risultato che la disuguaglianza di genere e l’indigenza non sono diminuite e nuove forme di sfruttamento si sono radicate. Complessivamente il lavoro femminile si presenta a livello globale come avamposto dello sfruttamento capitalistico e patriarcale. In questo quadro il genere continua a funzionare ovunque come dispositivo di assoggettamento, nel mentre alimenta apparati di governo delle forme di vita che operano attraverso la frammentazione e l’individualizzazione delle soggettività nelle mille identità destinatarie di politiche di pinkwashing, di diritti umani elencati in innumerevoli convenzioni internazionali che restano del tutto sganciate da misure di welfare e di solidarietà sociale.

Fra gli otto punti che in Italia “Non Una Di Meno” ha individuato come momenti ineludibili della lotta delle donne contro la violenza di genere, con lo sciopero internazionale dell’8 marzo 2017, c’è la rivendicazione di un reddito di autodeterminazione. Per reclamare solidarietà sociale, non familiare! Un reddito che sia garanzia di dignità, autonomia, libertà di scegliere. Contro la violenza, che è anche violenza economica, determinata dalla divisione sessuale del lavoro, dalla precarietà delle condizioni lavorative, dal misconoscimento del peso sociale delle donne, del loro fondamentale contributo alla produzione sociale. Non un sussidio, una graziosa concessione, ma la giusta remunerazione del valore prodotto. In una fase in cui alla capacità emancipatoria del lavoro salariato credono ormai solo quei sindacati che rifiutano di fare del reddito universale garantito la loro battaglia, le donne rivendicano il diritto a un reddito di autodeterminazione e indicano così la strada giusta per sottrarsi allo sfruttamento e a una violenza che è strutturale al sistema. Senza alcuna passione identitaria, con la voglia, invece, di rivendicare la libertà dai generi per tutti e tutte. Nella consapevolezza che più libertà, più democrazia, più giustizia sociale possono guadagnarsi nel rispetto delle singole specificità solo dentro il rilancio di un welfare universale.

Tratto da Quaderni per il Reddito n°6 – Non un reddito di meno. Reddito di base per l’autodeterminazione – numero speciale in occasione dello sciopero generale delle donne: 8 marzo 2017

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