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MayDay 2012: il punto di vista precario dentro il movimento globale

di di Massimiliano Franchini "Frenchi"

Un articolo per la Mayday, la parade dei precari, del 2012. Reddito di base incondizionato una delle parole d’ordine della Mayday.

Quella di quest’anno, a Milano, sarà una Mayday di transizione. Col passare degli anni alcuni aspetti della Mayday hanno perso di slancio, altri si sono evoluti, altri ancora si sono posti in primo piano, assumendo nuova centralità. Inizialmente, è stata una tribuna di denuncia, un luogo di autoindagine e di narrazione. Poi, nel tempo, è diventata un luogo di riconoscimento e di autorganizzazione. E infine, naturalmente e giustamente, è diventata parte delle nostre pratiche di tutti i giorni, pratiche di lotta e di denuncia, pratiche di elaborazione e di relazione. E’ diventata parte di noi.

Che senso ha, oggi, la Mayday? A questa domanda si può rispondere, innanzitutto, che l’edizione dello scorso anno ha dimostrato tutta la giovinezza della parade, dieci anni dopo l’inizio. Niente contestatissimi carri, niente party serale, eppure è stata attraversata da decine di migliaia di persone. E’ un evento che continua ad aggregare, che tracima sempre le aspettative con una forza superiore alle possibilità di qualsiasi altra iniziativa lanciata dal corpo politico attuale. La Mayday, inoltre, è uno strumento formidabile di connessione internazionale: tante sono oggi le Mayday nel mondo.  Dopo l’Hub meeting svoltosi a Milano il 31 marzo e il 1 aprile, molte città hanno deciso di coordinare i propri sforzi per creare venti giorni di mobilitazione globale contro la crisi, la finanza mondiale, la precarizzazione. Quest’anno avremo la Mayday a Lisbona, Berlino, Amburgo, Vienna, Porto, Chicago, Oakland, Miami, New York, Toronto. Dall’Europa e dal Nord America si lanceranno le mobilitazioni che termineranno nella grande iniziativa di Francoforte dal 17 al 19 maggio, dopo aver attraversato le piazze del 12 e 15 maggio. Anche in questo senso le cose sono cambiate rispetto a qualche tempo fa.

Intorno al primo maggio si concentravano, all’inizio, azioni più o meno simboliche di avvicinamento all’evento. Azioni di denuncia, di conflitto e di comunicazione per rompere il silenzio e l’isolamento dei precari e delle precarie. Piano piano queste azioni si sono radicalizzate e radicate, vengono agite non dai militanti ma dai soggetti reali, da strutture embrionali e solidali di autotutela e di autodifesa che rappresentano un elemento di continuità unico nel tempo. Per quanto in questa crisi tutto appaia a prima vista immobile noi percepiamo invece il continuo ribollire che attraversa i luoghi di lavoro e i territori. Un ribollire caotico e scomposto, alcune volte cieco, altre volte incapace di parlare, eppure sempre presente e sempre crescente. Nel territorio metrolombardo sono decine le vertenze che nelle grandi aziende come nelle piccole si accendono sempre più tenacemente. Pensiamo che da questo punto di vista la metropoli milanese stia vivendo una situazione particolare, di lenta ma inesorabile maturazione dei conflitti. Sopravvalutiamo questo ribollire? Crediamo di no.

Quindi, che cosa fare di questa Mayday 2012? Innanzitutto usarla, per dare voce alle realtà in lotta e per dare voce al precariato giovanile e meno giovane che in quel giorno si concentra nella piazza milanese. Ci piacerebbe finire la Mayday di quest’anno con un grande momento di confronto – agorà Mayday, una specie di microfono aperto in cui chiedere a tutti di esprimersi sulla domanda: “E tu, come resisti alla precarietà?”. E poi vorremmo collocare le vertenze, e le voci metropolitane, in un contesto più ampio, transnazionale: ci prodigheremo per collegare la Mayday milanese alle lotte globali (e dunque alle rivendicazioni). E infine vorremo usarla per lanciare le azioni che nei primi venti giorni di maggio prepareranno la data internazionale di Francoforte, e ancora più in là, per esprimere anche il nostro dissenso totale, l’opposizione viscerale all’ennesima riforma del mercato del lavoro in Italia, infame e classista.

Sono tre i punti sui quali insistere e rilanciare:

1) La diffusione del punto di vista precario come chiave di lettura fondamentale dei processi di trasformazione in atto e come bacino di sapienza e saggezza dal quale attingere strategie e tattiche utili per resistere alla precarizzazione. Per oltre dieci anni la Mayday è stata attraversata da decine di realtà organizzate e autorganizzate ed è stata partecipata da centinaia di migliaia di persone. Per alcuni era la festa del primo maggio, per altri è stata semplicemente una festa, per altri ancora un momento di visibilità e di novità. Per noi è stata tante cose insieme: presa di parola, innovazione, consolidamento, veicolo di messaggi, bacino di relazioni. Sempre, in tutte le dodici edizioni, la Mayday è stata un luogo di indagine, di conoscenza, di conricerca. E’ questa la vera essenza della Mayday che a molti sfugge. L’esperienza della MayDay ci ha ci ha fornito elemento di chiarezza inequivocabile sulla precarietà, sul ricatto, sulle tecniche di comunicazione, sulle modalità delle vertenze da costruire. Ci ha fatto capire che la pretesa di un reddito di base incondizionato, anche minimo, è uno strumento portentoso di rivalsa: i precari devono considerarsi un soggetto portatore di interessi propri. E il reddito è la richiesta fondamentale, il centro delle rivendicazioni di questa soggettività.

Spesso i precari vengono invitati a testimoniare la propria sfiga, a raccontare le proprie condizioni, a supportare dibattiti, appelli, incontri, che sindacati e partiti confezionano per poter dire di essere sensibili alle disgrazie generazionali. In nessuno di questi ambiti si va oltre. Andare oltre significa ragionare non sulla condizione ma sul protagonismo precario. Andare oltre significa spronare i precari a far da sé, a unirsi, a confliggere, ad agire. E spesso i risultati ci hanno dato ragione nelle molte vertenze che, come Punto San Precario, siamo stati in grado di agire. Quindi la Mayday è diventata soprattutto il luogo in cui le strategie dei precari sono state condivise ed amplificate, sono diventate terreno comune.

Da nessuna parte come a Milano si è venuto ad abbozzare  un punto di vista precario, da nessuna parte come a Milano i precari si sono dati organizzazione e riferimenti diversi da quelli tradizionali. Pur con tutti i limiti, la Mayday, per dodici anni, è stata tutto questo: è stata capace di ragionare all’attacco, costruendo controffensive e incursioni, visioni e cultura.

2) Verso l’Expo 2015. Bisogna cominciare a dirlo ora, da adesso: l’anno prossimo la Mayday di Milano si trasformerà ulteriormente. Alle tematiche sue proprie aggiungerà la questione No Expo. A due anni dal grande evento inizierà un countdown. Per noi questo passaggio è essenziale. Pensiamo infatti che per come è stata concepita l’Expo 2015 non ci sia occasione migliore per affermare un’idea diversa di sviluppo urbano (non crescita). L’Expo 2015 sarà tutto ciò che noi non vogliamo: speculazione, cementificazione, precarietà nel lavoro, vetrina superficiale, umiliazione dei desideri. Un evento-merce ad alto contenuto ideologico che si prefigge, prima ancora che di esporre, di vendere, di incassare, di incidere sugli stili di vita,  sui tessuti urbani, sulla fisionomia sociale. E tutto ciò in una forma che sta agli antipodi dell’idea che abbiamo noi di sviluppo e di benessere. Il nostro compito non sarà semplicemente quello di opporci e di contestare: dovremo dimostrare attivamente cosa si può fare, come si deve farlo, con che mezzi si può realizzare, mostrando con chiarezza le diversità “congenita” fra la loro città e quella che noi vorremmo. Dobbiamo smontare l’Expo – intesa come “merce ad alto contenuto ideologico”, ovvero come insieme organizzato di suggestioni speculatrici, arraffone, precarizzanti  –  mattone dopo mattone, affinché tutti abbiano chiaro che va immaginata un’altra città. La debacle dell’Expo è la rinascita di Milano.

3) World Mayday: proliferazione virale. Dobbiamo insistere sull’esistenza di una mobilitazione transnazionale costante. Finalmente abbiamo di fronte un movimento transnazionale, magari non ancora globale, ma sicuramente transnazionale. Ciò che accade negli Usa, insieme a ciò che avviene in Spagna, e poi in Germania e in Italia, in Grecia, finalmente ci fa assaporare il gusto della presa di parola dal basso, di una rivolta che si evidenzia non più per le proprie fiammate in forma di riot, bensì per la propria radicalità, per il radicamento, per l’innovazione e soprattutto per la sua trasversalità oltre gli stati-nazione che si costruisce sulla parola d’ordine: “non ci rappresenta nessuno”.

E’ così che, partendo dalla data del primo maggio con la MayDay di Milano, Occupy Mayday Chicago, Occupy Mayday Wall Street, si arriverà a Francoforte il 19 di maggio. Le realtà europee e non solo si stanno organizzando per dare il loro apporto alla mobilitazione globale. Le difficoltà che abbiamo incontrato nell’Hub meeting di Milano mostrano comunque un aspetto positivo. Nelle diverse realtà nazionali stanno crescendo movimenti peculiari che sperimentano pratiche altrettanto particolari, ma che hanno obiettivi e parole d’ordine simili tra loro. La suggestione globale che oggi deve essere coltivata il più possibile poiché in essa sta l’antidoto a uno dei mali nostrani più ricorrenti: l’autoreferenzialità e il provincialismo.

Noi, con umiltà e determinazione, dobbiamo fare la nostra parte. Con forza dobbiamo trasformare le mille voci d’opposizione sparpagliate in questo paese in un unico battito cardiaco, umano, forte, profondo: il processo di creazione dello sciopero precario. Un’idea di sciopero delle vite precarie nella precarietà, contro la precarietà, animato dall’intelligenza di tutti coloro che credono che la precarizzazione sia l’origine del male, che rivendicano reddito e diritto all’insolvenza, un nuovo welfare e diritto ai saperi. La costruzione di uno sciopero precario ci sollecita ad approfondire il suo aspetto metropolitano perché è qui che i flussi diventano nodi e quindi vulnerabili all’azione. Inoltre, lo sciopero precario ci permette di ragionare su un piano di nuova unità del corpo sociale. Tutti percepiscono che la precarietà è un problema. Chiamare le moltitudini a dire “basta” vuole dire interrogarle sullo sciopero precario. In questo senso, lo sciopero precario è più generale dello sciopero generale stesso. Lo sciopero generale infatti rivendica diritti che alcuni hanno e altri no, mentre lo sciopero precario denuncia che la mancanza di diritti che cosa che riguarda tutti: anche coloro che li hanno temono di perderli e già li stanno perdendo.

Infine, vista l’ignominiosa riforma del mercato del lavoro di Elsa Fornero, pensiamo che sia doveroso immaginarci all’interno di una tattica di pressing continuo, da inventare insieme alla rete degli Stati generali della precarietà. In modo che i momenti più caldi dell’iter parlamentare si trasformino in una mobilitazione “creativa”, allargata a tutti/e coloro che si sono resi del conto delle conseguenze reali, sulle vite, che avrà questa riforma. Ora come mai siamo convinti che solo la creazione di fronti popolari il più vasti possibile renderà possibile trasformare la r/esistenza in una ri/generazione dell’opposizione sociale.

 

Tratto da Uninomade 2.0

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