Non possiamo più aspettare. Le scelte politiche compiute in Italia ed in Europa sono la dimostrazione evidente che l’idea di civiltà fondata sui diritti, la giustizia sociale e la dignità non ha più gambe sulle quali camminare. Dobbiamo affermare una nuova idea di società e solidarietà, perché tutte le scelte compiute rispecchiano gli interessi economici e finanziari delle élite europee. Austerità, tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, minori salari, pessime condizioni di lavoro, sistemi fiscali iniqui, assenza di misure di sostegno al reddito, hanno causato un aumento delle disuguaglianze e della povertà senza precedenti nella storia del nostro paese. Disuguaglianze e condizionamento politico sono sempre più connessi. È triplicata la povertà assoluta, arrivando a colpire quasi 5 milioni di persone. Così come è triplicato il numero dei miliardari: 342. L’Istat ha denunciato un welfare tra i peggiori d’Europa, sostanzialmente per due ragioni: aver tagliato l’80% del fondo nazionale per le politiche sociali, in un momento in cui avremmo dovuto aumentarlo; non aver ancora introdotto una misura di sostegno al reddito adeguata, proposta da più di 25 anni da molte risoluzioni europee. Il patto di stabilità inserito in Costituzione complica ulteriormente le cose, tagliando enormi risorse ai Comuni per dirottarle sul pagamento del debito. A distanza di 5 anni dalla sua entrata in vigore il pareggio di bilancio impedisce di garantire a tutti i diritti fondamentali: siamo il paese con il maggior impoverimento della popolazione giovanile, con la minor spesa in Europa per cultura e istruzione, quello che ha visto il maggior aumento delle disuguaglianze dopo la Gran Bretagna e la dispersione scolastica più alta.

Dinanzi a questo quadro il governo non ha saputo fare di meglio che stanziare 1,2 miliardi quest’anno e 1,7 il prossimo anno per contrastare la povertà, introducendo una misura di universalismo selettivo che non raggiunge nemmeno un terzo della popolazione in povertà assoluta, ed a quelli che ne avranno diritto non garantisce nemmeno la dignità. La narrazione dominante afferma che non si possono spendere risorse per il reddito di dignità per due motivi: 1) il reddito di cittadinanza è diseducativo perché riduce l’offerta di lavoro; 2) la crisi impone di pensare prima alla crescita economica attraverso i mercati e poi eventualmente a cascata ridistribuirla. La prima motivazione è figlia sia di fraintendimenti che di un approccio culturale che si rifà alle teorie del darwinismo applicate all’economia capitalista; la seconda è sbagliata in termini analitici, visto che la crisi è originata dalla strutturale incapacità dei mercati di garantire piena occupazione e distribuzione della ricchezza, attraverso la quale ridurre le disuguaglianze.

Disoccupazione, precarietà e disuguaglianze sono gli«effetti collaterali» del modello di crescita: per questo non sono vere priorità per tutte le forze politiche che si sono uniformate al pensiero economico dominante. Se non saranno le realtà sociali a rimettere al centro la priorità della lotta alle disuguaglianze non lo farà nessun altro, nemmeno chi grida dal web. L’introduzione del reddito di dignità ed il rifinanziamento del fondo nazionale per le politiche sociali sono misure che fondano la loro legittimità a partire dagli obblighi indicati dalla Costituzione. Allo stesso tempo contrastano il ricatto esercitato dalle mafie su quei soggetti ai margini, precari, sfruttati; garantiscono sicurezza a coloro che non possono lavorare o accedere a sistemi di sicurezza sociale; hanno effetti positivi sull’economia, sostenendo la domanda aggregata e liberando nuove energie sociali, considerando come sostiene l’Europa che anche in periodi di crisi i regimi di reddito minimo non vanno mai considerati un fattore di costo, bensì un elemento centrale della lotta alla crisi.

Tratto da Il Manifesto 15 giugno 2017