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La riforma del welfare

di Andrea Fumagalli

Pur nella disomogeneità della situazione, siamo di fronte a problematiche comuni che rendono imprescindibile un salto analitico per poter immaginare un nuovo welfare adeguato alle trasformazioni sociali e economiche degli ultimi vent’anni.

Uno dei temi trattati dal convegno Rive Gauche organizzato da Il Manifesto a fine settembre ha riguardato il concetto di Welfare State e l’intervento pubblico. Una settimana prima, a Bruxelles, nell’ambito dell’incontro annuale degli economisti europei per una politica economica alternativa, si è discusso di flexicurity e diritto al reddito come possibile base per un nuovo welfare che sia in grado di andare oltre il welfare keynesiano fordista.

Nell’ultimo mese su Il Manifesto sono apparse due interviste, entrambe a cura di Cosma Orsi, che hanno come oggetto l’analisi critica delle politiche di welfare in due paesi simbolo del mondo capitalistico, per opposte ragioni: la Danimarca, da un lato e gli Usa dall’altro.

E’ positivo che finalmente la sinistra radicale e alternativa si ponga la questione della riforma dello stato sociale. Tuttavia, le posizioni si presentano alquanto differenziate.

Uno dei maggior esperti del welfare scandinavo, Jesper Jespersen, ha ben tracciato, seppur in modo molto moderato,  le problematico del modello sociale europeo, mettendo in risalto luci e ombre della possibilità di sviluppare un nuovo welfare che sia in grado di arginare l’ondata darwinista-liberista che proviene da oltreoceano e da oltremanica. Il modello sociale europeo nasce alla fine del XIX secolo in modo variegato prima con le politiche bismarkiane e poi, all’indomani della diffusione del modello fordista-taylorista degli anni ’20 inframmezzata dalle due guerre mondiali, con il Piano Beveridge del dicembre 1942 e la diffusione dell’idee keynesiane di porre in atto un compromesso sociale tra capitale e lavoro;  il fine, utile ad entrambi i “contraenti” era quello di ridurre gli effetti pesantemente disegualitari e distorsivi del “libero” mercato oligopolistico delle grandi imprese del secondo dopoguerra.

Il welfare europeo è il figlio necessario dello sviluppo taylorista-fordista e dalla necessaria esistenza  di uno Stato-nazione in grado di implementarlo. Nello stesso tempo assume connotati diversi a seconda dello Stato in cui si sedimenta.

Negli Stati Uniti, ad esempio, come è testimoniato nell’intervista alla femminista  Theresa Funicello, la parabola del welfare si esaurisce proprio con il passaggio dal capitalismo industriale fordista al capitalismo cognitivo flessibile e l’emergere di fasce di esclusione sempre più ampie, soprattutto etniche e femminili, con un crescente abbandono del lavoro da parte delle donne e il ritorno a forme di patriarcato, con buona pace di quel “femminismo compatibile” che aveva visto nella flessibilità un elemento caratteristico del lavoro delle donne e, quindi,  una forma di affermazione e liberazione.

Pur nella disomogeneità della situazione, siamo di fronte a problematiche comuni che rendono imprescindibile un salto analitico per poter immaginare un nuovo welfare adeguato alle trasformazioni sociali e economiche degli ultimi vent’anni.

Laddove il processo produttivo è caratterizzato sempre più da elementi immateriali legate alla capacità cerebrale e cognitiva (soprattutto nel terziario per le imprese e nei settori ad alta tecnologia con forti processi di apprendimento), non v’è alcuna differenza sostanziale tra occupazione e disoccupazione, esiste solo il lavoro intermittente, più o meno precarizzato o specializzato. Si potrebbe sostenere, in modo provocatorio, che la disoccupazione è lavoro non remunerato e che il lavoro è a sua volta disoccupazione remunerata. Si può sostenere, con buone ragioni, sia che non si smette mai di lavorare (il tempo di lavoro si allunga) quanto che si lavora sempre meno o che il lavoro necessario mediamente si riduce.

L’antica distinzione tra “lavoro” e “non lavoro” si risolve in quella tra “vita retribuita” e “vita non retribuita”. Il confine tra l’una e l’altra è arbitrario, mutevole, soggetto a decisione politica.

E’ su questo elemento che è necessario confrontarsi per una ridefinizione attuale del Welfare State. Esso non è più dipendente e, nello stesso tempo, finalizzato a creare le condizioni per entrare nel mercato del lavoro e sancire il dettame costituzionale del “diritto al lavoro”. Piuttosto il nuovo welfare deve creare le condizioni perché ogni individuo residente in un territorio abbia la garanzia, in modo incondizionato, di un reddito stabile e continuativo in grado di consentire da un lato lo sviluppo delle sue capacità cognitive-creative, dall’altro il diritto di scelta alla prestazione lavorativa che più gli aggrada. Il diritto alla scelta del lavoro è concettualmente diverso del diritto al lavoro.

In secondo luogo, occorre prendere atto che il luogo della produzione e dell’attività lavorativa non è definibile in uno solo (fabbrica, ufficio, casa),  ma è disseminato in un territorio, che è allo stesso tempo fisico e virtuale. Attività produttiva e spazio tendono a coincidere, così come l’attività lavorativa è sempre più attività di relazione e interconnessione comunicativa reticolare, che si sviluppa su basi rizomatiche più o meno ricombinanti o nomadi. Ciò significa che l’attività di lavoro coincide con la vita stessa: oltre al venir meno della distinzione tra lavoro e non lavoro, sfuma anche la separazione tra produzione e consumo, produzione e riproduzione. L’esistenza degli individui, in quanto interna ad un processo di cooperazione sociale sempre più indotto (e di cui si è sempre meno coscienti), è sussunta nell’attività di lavoro che si svolge in un ambito sempre più cooperativo.

E’ dunque il territorio definito dalla cooperazione sociale l’ambito che definisce lo spazio del nuovo Welfare State. Tale spazio può essere rappresentato da realtà locali come da realtà sovranazionali, non più esclusivamente nazionali. Ciò significa che il nuove welfare, nel garantire come perno centrale della sua azione la garanzia di un reddito dignitoso incondizionato, deve assumere come referente un duplice livello spaziale: quello sovranazionale (nel nostro caso, esso è rappresentato dall’Europa) e quello locale. Lo sviluppo di welfare municipali, a livello regionale, è condizione necessaria perché le realtà produttive interessate, che variano in funzione delle peculiarità, della storia e dell’antropologia del territorio di appartenenza, abbiamo interventi adeguati alle proprie caratteristiche all’interno di un quadro normativo e sociale generale e comune a livello europeo

Occorre infine considerare che lo sviluppo del paradigma cognitivo di accumulazione tende sempre più a basarsi sullo sfruttamento di beni “comuni”, ovvero quei beni e quelle risorse che sono il frutto dell’agire sociale umano: non si fa riferimento solo ai beni primari della terra, quali acqua, energia, ma soprattutto a quei beni, quali la conoscenza (knowledge), le comunicazioni, le informazioni che sono il risultato delle interconnessioni sociali che stanno alla base della cooperazione sociale produttiva e sulla cui espropriazione da parte dei poteri privati dell’economia si base la creazione di ricchezza (vedi Direttiva Bolkenstein). Si tratta di beni che sono allo stesso tempo individuali e sociali. In un simile contesto, la dicotomia privato-pubblico appare superata a vantaggio del concetto di proprietà comune e, quindi, di autoriappropriazione sociale. La preservazione di tali beni comuni e la distribuzione sociale dei guadagni che il loro sfruttamento comporta sono il nuovo obiettivo di un possibile welfare adeguato all’attuale struttura produttiva.

E poiché questi beni sono inalienabili dalle persone, anzi sono il frutto stesso della loro capacità esistenziale, il nuovo welfare non può che porsi sul piano della critica alla biopolitica dell’esistente E’ su questo nuovo livello di analisi che va portata avanti la sfida verso un futuro di  civile convivenza: il perseguimento delle sole politiche keynesiane nazionali di stampo fordista non solo non è più sufficiente, ma rischia di diventare desueto e impraticabile.

 

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