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La grande convergenza per il reddito di base nell’era digitale

di Giuseppe Allegri

Just for UBIg Data*

 

Una Magna Carta per l’era digitale

«Come nelle precedenti rivoluzioni tecnologiche, le società devono trovare un modo per raccogliere i benefici dell’innovazione e al tempo stesso tenere sotto controllo i problemi e i rischi. Uno statuto che protegga i diritti e le libertà dei cittadini – una Magna Carta per l’era digitale – è il punto da cui partire».

Così il celebre sociologo Antony Giddens in un intervento pubblicato lo scorso 15 maggio 2018 su La Repubblica, nel quale ricordava la sua partecipazione alla Commissione speciale sull’intelligenza artificiale istituita presso la Camera dei Lord del Regno Unito, che ha rilasciato un rapporto nel quale si auspica che l’innovazione tecnologica sia: sviluppata sulla base di princìpi di intelligibilità ed equità; finalizzata al bene comune; accompagnata da cambiamenti di vasta portata nel sistema dell’istruzione; quindi rispetti il diritto alla riservatezza e non possa mai ricevere il potere di danneggiare, distruggere o ingannare gli esseri umani.

Perché uno dei temi centrali per i futuri decenni, e sui quali si sta già confrontando la comunità di studiosi, esperti e innovatori è il fatto che la responsabilità decisionale intorno all’intelligenza artificiale, nella connessione tra robotica ed ingegneria genetica, debba restare umana, con l’accortezza di proteggere e garantire l’autonomia dell’essere umano nelle sue relazioni sociali, affiancato dall’automa che verrà, il cui apprendimento appare al momento ancora limitato dal fatto che stiamo ancora parlando di una tecnologia orientata principalmente allo svolgimento di calcoli.

Ma intanto, per i prossimi anni, da più parti si sostiene che il digitale continuerà ad essere il principale motore dell’innovazione, della creazione e distribuzione di ricchezza, del miglioramento – o meno – del nostro benessere individuale, relazionale, sociale. E la scommessa principale è quella di pensare un ecosistema sociale, localmente territorializzato, eppure in una dinamica scalare globale, che permetta di situarsi al livello delle accelerazioni promosse dall’attuale rivoluzione digitale, per gestirle in modo inclusivo e redistribuire la ricchezza prodotta dall’interazione sociale su piattaforme digitali e reti materiali.

Nuove politiche sociali di reddito di base

Si tratta allora di pensare anche e soprattutto nuove politiche sociali, basate sulla tutela della persona nell’arco della sua vita, a partire da istruzione, salute, ambiente, mobilità e garanzia di un reddito di base in un contesto di promozione dell’autodeterminazione di ciascuno in relazioni solidale e inclusive: nuovi diritti, anche sociali, quindi. È questa un’esigenza che comincia ad essere percepita anche dal mainstream della saggistica anglosassone, se si considera che Richard Baldwin ritiene fondamentale una nuova politica sociale per ripensare le politiche della globalizzazione dei paesi del G7, a partire dalla centralità delle città nell’economia immateriale (in La grande convergenza. Tecnologia informatica, Web e nuova globalizzazione, 2018, pp. 241 e ss.). Mentre Ian Goldin e Chris Kutarna (Nuova età dell’oro, 2018, pp. 311 e ss.) parlano di un necessario e fondamentale investimento sulle nuove generazioni, le donne e le popolazioni più vulnerabili, «finanziato da imposte sul reddito maggiormente progressive, da imposte societarie più difficili da eludere e da uno spostamento da programmi di welfare universali a programmi basati sul reddito», nel senso di rifiutare definitivamente quelle contraddizioni dello Stato assistenziale già enunciate da Claus Offe nel passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento e con l’accortezza di favorire un reddito di base e servizi pubblici di qualità in favore di quell’ampia fetta di società da tempo esclusa da un concreta cittadinanza sociale e quindi ripensata in una prospettiva di Commonfare, di Welfare del comune, benessere condiviso (per riprendere l’analisi proposta da Andrea Fumagalli in questo stesso Quaderno per il Reddito, cui si rinvia per approfondimenti).  

È la centralità del reddito di base come fattore in prima istanza di diffusione e distribuzione nella società di quella ricchezza socialmente prodotta e troppo spesso drenata verso l’alto dell’economia finanziaria digitale (FinTech) in quelle rendite materiali e immateriali, che impoveriscono il sempre più invecchiato ceto medio in crisi di quelle che sono ancora ritenute economie avanzate di un capitalismo che, proprio nei settori di maggiore innovazione, appare sempre più monopolista ed “estrattivo” della cooperazione sociale in rete tra le persone.

Per questo forse torna di attualità, anche qui tra studiosi mainstream, il dibattito intorno agli statuti proprietari nell’epoca dell’ambiente digitale, come anticipò già nel passaggio di millennio Lawrence Lessig (The future of ideas, 2001) e tutto il dibattito intorno ai Commons naturali, immateriali e materiali (dall’acqua, all’accesso alla rete, ai Commons urbani, etc.). Almeno stando in parte agli studi e agli scritti del giurista Eric Posner e del filosofo-economista, attualmente ricercatore Microsoft, Glen Weyl, a partire dal loro blog (http://radicalmarkets.com/) e dal successivo volume Radical Markets. Uprooting Capitalism and Democracy for a Just Society (Princeton University, 2017), dove si pongono dal punto di vista di una riforma radicale del mercato e dell’attuale capitalismo delle piattaforme digitali, nel senso di una economia sociale che valorizzi lo spazio di autoregolazione e di mutamento della mentalità proprietaria che sembra attraversare le giovanissime generazioni post-millenial, più a contatto con un uso non proprietario che con la tradizionale mentalità possessiva del primo capitalismo.

Ma questo è un confronto globale che continuerà ad occupare la scena, ben sapendo che servirà anche mettere in tensione la narrazione dominante intorno all’economia sociale, circolare, della condivisione, in un’epoca in cui i Big Data sembrano costituire il centro nevralgico del conflitto tra la nostra quotidiana messa a valore nel capitalismo digitale e i recinti ancora perimetrati dei monopolisti del Web e dell’economia digitale, dinanzi ad una duratura incapacità delle istituzioni pubbliche di adeguare il proprio livello di intervento (regolativo, sociale, amministrativo, etc.) alle attuali trasformazioni avvenute. E a quelle che ci aspettano.

 

L’Euro-Dividendo per una European Social Union ai tempi della “religione dei dati”?

Di utilizzo e trattamento di Big Data si comincia probabilmente a parlare già negli anni Sessanta del Novecento, ma l’accelerazione ulteriore, che porta ai nostri giorni di permanente Data Mining, si manifesta al passaggio di millennio, con l’ingresso delle diverse “V” che descrivono il fenomeno in espansione di Volume, Varietà e Velocità di produzione e diffusione di dati e informazioni, fino alla loro attuale Variabilità, Viralità e soprattutto Valore (come ben ricostruisce Daniele Gambetta nell’intervento contenuto in questo stesso Quaderno per il Reddito e nell’antologia sempre a cura di Daniele Gambetta, Datacrazia, 2018). Ma la religione dei dati, “il datismo”, è il punto di approdo e di confluenza di un lungo processo delle scienze biologiche ibridate con quelle informatiche, per le quali «le stesse leggi matematiche si applicano sia agli algoritmi biochimici sia a quelli computerizzati digitali», con questi ultimi – sofisticatissime macchine digitali intelligenti – che saranno in grado di decifrare e superare le prestazioni dei primi (così Yuval Noah Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, 2017).

È questo l’attuale, e futuro prossimo, terreno di confronto e di conflitto, non solo globale e immateriale, ma anche territoriale, “spazializzato”, secondo la visione proposta da Michele Mazza (Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto, 2018) che insiste molto sullo spazio di lotta e contrattazione per l’apertura dei codici digitali, per quello che potremmo chiamare, interrogando il diritto pubblico e costituzionale a venire, un governo condiviso dell’algoritmo, gestione democratica delle piattaforme digitali, redistribuzione della ricchezza sociale collettivamente prodotta, invenzione di nuove istituzioni che trasformino gli statuti proprietari, gli assetti sociali e le relazioni economiche in favore di una migliore combinazione di libertà, condivisione, solidarietà tra i molti. Nella prospettiva di una riappropriazione tecnologica dei tempi e degli spazi di vita da parte di quella Silicon Valley globale alla quale noi tutti, in qualche modo, apparteniamo come cognitari di tutto il mondo (per riprendere l’analisi proposta da Giuseppe Bronzini in questo Quaderno per il Reddito, quindi molti scritti di Franco Berardi Bifo, da ultimo Futurabilità, 2018).

D’altro canto rimane aperto il tema continentale e globale della regolazione del capitalismo digitale e di piattaforma, ricordando che la Commissaria UE alla Concorrenza Margrethe Vestager (che finirà il mandato in questa primavera con l’intera Commissione Juncker, visto che a maggio si terranno le elezioni per l’Europarlamento), ha lungamente portato avanti una campagna comunicativa e richieste di multe e risarcimenti di mancate entrate fiscali nei confronti di Google, Apple, Facebook, Amazon (Big Four dell’acronimo GAFA, con l’aggiunta della M di Microsoft), ma anche di altre multinazionali che agiscono in regimi tendenzialmente monopolistici. E da diverse contesti, a partire ad esempio dal filosofo Maurizio Ferraris, si parla di “reddito di mobilitazione” da redistribuire a tutti i cittadini d’Europa, tramite quella “accisa sui documenti digitali”, sui Big Data appunto, che proprio l’Ue potrebbe imporre ai GAFA, certo facendo passi avanti anche nel senso di una comune fiscalità di base, progressiva, europea, accompagnata da un vero bilancio continentale.

Questa potrebbe essere l’occasione concreta, anche nella prospettiva della campagna per le elezioni dell’Europarlamento del maggio 2019, per spostare il ragionamento culturale e politico su di una necessaria European Social Union – solo in parte anticipata dallo European Social Pillar solennemente proclamato nel novembre 2017 a Göteborg – e sulla necessità di un bilancio europeo che permetta di aggiornare le riflessioni e le ipotesi a lungo proposte intorno a un reddito di base continentale. Perché è un tema sempre presente nello scenario continentale. Già nel 1975 l’europarlamentare britannico conservatore Brandon Rhys-Williams (figlio di Juliet Rhys-Williams, favorevole a un sussidio di base universale e individuale nella Gran Bretagna dei tempi di Beveridge) propose un Basic Income continentale come alternativa alla politica agricola comune (PAC), per affermare un nuovo “Contratto sociale europeo”. Mentre un decennio dopo Guy Standing sottolineò la necessità di un reddito di cittadinanza per gli europei, e nei successivi anni Novanta il filosofo, e convinto europeista, Jean-Marc Ferry riteneva il reddito di base continentale come l’elemento qualificante una concreta cittadinanza sociale europea. Fino ad arrivare alla reiterata proposta di di Philippe Van Parijs, recentemente riformulata in compagnia del sodale Yannick Vanderborght intorno ad un Euro-Dividendo

«dall’importo medio mensile di 200 euro pro capite, pari a circa il 7.5% del PIL dell’Unione europea nel 2015 (l’ammontare sarà maggiore nei paesi con un alto costo della vita, inferiore in quelli con un basso costo della vita)» (Philippe Van Parijs – Yannick Vanderborght, Il reddito di base, 2017, p. 382, dal quale si è ripresa questa ricostruzione)

che secondo gli stessi Autori può inizialmente essere pensato per i Paesi dell’Eurozona, tramite una serie di possibili misure fiscali comuni: un’imposta europea sulle transazioni finanziarie, una Carbon Tax e l’equivalente di una commissione da pagare per l’uso delle quote di emissioni da combustibile fossile assegnate all’Ue/Uem, fino all’ipotesi della tassazione dei capitali su cui ragiona da tempo anche Thomas Piketty, in una prospettiva del 2% del PIL dell’Ue (quindi 40 euro mensili dei 200 euro proposti). Ma i due Autori sono favorevoli a legare questo Euro-Dividendo all’imposta sul valore aggiunto, già armonizzata al livello continentale, visto che è con questa imposta che si finanzia una parte dell’esiguo bilancio continentale. Nella relazione multilivello che gli Autori propongono, questo reddito di base andrebbe a costituire il primo comune fondamento di tutela e garanzia sociale delle cittadinanze d’Europa, al quale si aggiungono gli strumenti previsti al livello locale e statale, tanto di sussidi, quanto di accesso ai servizi pubblici di qualità, benefit e reddito indiretto (diritto all’abitare, mobilità, istruzione, sanità, etc.). Quindi questa garanzia di un reddito universale e incondizionato continentale costituirebbe anche una piccola base di risparmio per le casse pubbliche di ciascuno Stato membro, poiché i primi 200 euro di qualsiasi sussidio statale sarebbero coperti dall’Euro-Dividendo.

È il tempo politico, sociale e culturale per rilanciare l’attualità e la fattibilità di un Euro-Dividendo, un modesto, ma concreto, reddito di base universale e incondizionato per tutti i cittadini dei Paesi dell’Eurozona, per rinsaldare un rapporto fiduciario tra istituzioni euro-unitarie e opinione pubblica europea, sempre più rintanata nei suoi, diffidenti, fortini nazionali. Al punto che uno slogan della prossima campagna elettorale europea potrebbe davvero essere quel No Eurozone Without Euro-Dividend provocatoriamente affermato dallo stesso Philippe Van Parijs al convegno del Basic Income Earth Network del 2012. Il tutto in una prospettiva che gli stessi Autori auspichino si sposti sul livello globale, in quella tendenza che dal locale giunge al sovra-nazionale e si collega alle trasformazioni sociali, culturali e produttive innescate dall’innovazione tecnologica. Per pensare e attuare il reddito di base universale e incondizionato tanto come «il salario del precariato» (direbbe Alex Foti, General Theory of the Precariat, 2017) che come “assicurazione sociale” ai tempi degli algoritmi digitali che trattano dati umani e dell’automazione robotica che verrà, in una società che sembra avviarsi a ridurre ulteriormente il lavoro umano tradizionale, eppure a non ampliare gli spazi di libertà, felicità, condivisione di un buon vivere nel tempo guadagnato per liberarsi da una millenaria subordinazione alla fatica quotidiana.

*     Per ulteriori approfondimenti e riferimenti bibliografici sui profili sinteticamente enunciati in questo intervento, si rimanda al volume Il reddito di base nell’era digitale. Libertà, solidarietà, condivisione (Fefè editore, 2018), dal quale sono ripresi anche alcuni passaggi.

*Scritta apparsa su un muro della città di Roma nell’estate 2018, con la quale si giocava sull’acronimo UBI – Universal Basic Income ibridato con Big Data, nel senso che lo sfruttamento dei Big Data deve essere “retribuito” con un reddito di base.

 

Articolo pubblicato su Quaderni per il Reddito n°9: Big Data, WebFare e reddito per tutti. Marzo 2019 (BIN Italia)

 

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