Pubblichiamo un estratto della prefazione di Andrea Fumagalli alla nuova edizione di “La democrazia del reddito universale”, Manifestolibri, 2023 – a cura di Andrea Fumagalli e Cristina Morini. Questa nuova edizione del primo testo organico sul tema del reddito di base in Italia, ora diventato un classico del pensiero politico, avviene in un momento particolare, che segna il ritormo di politiche oscurantistiche nei confronti della necessità di rinnovare in senso estensivo il modello di welfare.

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A più di 25 anni di distanza, la tematica del reddito è diventata centrale. Quando questo libro uscì, erano veramente pochi coloro che, da sinistra, propugnavano l’introduzione di un reddito di base. Oggi il panorama è decisamente diverso, anche se più complesso e caotico. Il confronto nazionale ed internazionale sul basic income ha conosciuto un vibrante sviluppo ed al tempo stesso uno straordinario arricchimento. Il ragionamento collettivo sul tema ha trovato ulteriori connotazioni negli anni nei quali sono divenute egemoni condizioni e modalità produttive che caratterizzano il capitalismo contemporaneo: condizioni che hanno travalicato le classiche dicotomie tipiche del paradigma taylorista-fordista, in particolare quella tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro e tra produzione e riproduzione.  Il Basic income è diventato, in questo modo, il fulcro attorno al quale diveniva possibile ridisegnare il nuovo statuto delle garanzie non solo del lavoro, ma della vita.

Nei primi anni del Duemila, prende corpo quello che possiamo definire, sino a ora, l’appuntamento più importante e numericamente significativo, che i movimenti del precariato metropolitano abbiano mai realizzato, non solo in Italia, ma in tutta Europa. La cosiddetta MayDay, il primo maggio dei precari che si dava appuntamento a Milano, passò dai cinquemila partecipanti del 2001 agli oltre 100mila degli anni successivi. Un evento che riuscì ad aggregare le diverse istanze che tutto il mondo della precarietà, lavorativa o abitativa, economica o sociale, portava con sé. Il tema del reddito diventa una delle rivendicazioni ricompositive di queste figure sociali frammentate e si trasforma in un piano di riconoscimento e di lotta comune. Ma ci sono anche molte altre iniziative da segnalare: nel 2003, nel pieno della guerra in Iraq, oltre 50mila persone scendono in piazza a Roma per la prima manifestazione nazionale con un’unica rivendicazione: “Reddito per tutti”. In questo caso il legame con le spese militari è diretto e inequivocabile e lo slogan “guerra per nessuno – reddito per tutti” ben sintetizza il successo di quell’appuntamento. Il dispiegarsi delle forme di precarizzazione in maniera sempre più ampia e un certo protagonismo sociale, sono la leva per la nascita di numerose campagne come quella della Rete per il reddito sociale che unisce il sindacalismo di base e autonomo e le diverse realtà autorganizzate nel lavoro e nell’iniziativa territoriale. I lavoratori dei call center e quelli delle catene di distribuzione, i cosiddetti chain­worker, i movimenti per il diritto alla casa, le realtà sociali e i movimenti studenteschi sono i protagonisti di un periodo in cui la rivendicazione del reddito trova un soggetto sociale di riferimento. Il legame precari\reddito sembra aprire dunque una nuova fase.

Negli anni successivi il dibattito e l’iniziativa pubblica hanno coinvolto anche altre realtà sociali e hanno sviluppato approcci diversi. Nel 2008, nasce in Italia l’Associazione Bin-Italia, nel cui statuto (art. 1) si legge:

“L’associazione non ha fini di lucro ed ha lo scopo principale di promuovere e attuare studi e ricerche, convegni, seminari e ogni altra iniziativa tendente all’approfondimento dei problemi concernenti lo sviluppo dei sistemi di welfare e di tutela del reddito. Intende promuovere un collegamento tra individui e gruppi interessati all’organizzazione di iniziative finalizzate all’introduzione di un basic income, universale e incondizionato. Per raggiungere tale scopo intende favorire, promuovere e ampliare la conoscenza delle problematiche connesse allo sviluppo della previdenza sociale, attraverso contatti tra persone, enti ed associazioni sia in Italia che all’estero. L’associazione intende proporsi come luogo di incontro e di aggregazione, contribuendo in tal modo a determinare una maturazione del dibattito in tema di garanzia del reddito”.[1]

Il sito dell’Associazione[2] è il più ricco contenitore di notizie, saggi, articoli, note, documentazione varia su tema del reddito di base che esiste in Italia.

Nel 2009 i movimenti partecipano attivamente agli incontri per la stesura della legge regionale del Lazio per un reddito minimo garantito. Nel 2012 un’ampia coalizione di oltre 170 associazioni, reti sociali, partiti di sinistra, collettivi studenteschi, comitati di lavoratori, reti contro la povertà ecc., dà vita a una proposta di legge nazionale di iniziativa popolare (Gobetti, 2016[3]). Nei sei mesi della campagna sono realizzate 250 iniziative pubbliche in altrettante città del paese. Queste connessioni sociali, politiche e culturali, così come l’aggravarsi del disagio economico di ampi strati della società, portano ad un aumento dei sostenitori del reddito garantito. La campagna di raccolta firme è sostenuta anche da alcuni partiti politici che pochi anni prima erano indifferenti al tema se non, in alcuni casi, addirittura contrari. Così come tante sono le personalità della cultura (come Stefano Rodotà) che sostengono con enfasi l’introduzione di un diritto al reddito. Nello stesso periodo il paese è chiamato al voto per le elezioni politiche anticipate e più di un partito o movimento politico si dichiara a favore all’introduzione di un reddito minimo garantito. Qualche tempo dopo le oltre 50mila firme raccolte per sostenere la proposta di legge sono consegnate alla Presidente della Camera dei Deputati (BIN Italia, 2013)[4]. Si chiede a questo punto di realizzare una “pazza idea”, cioè una maggioranza parlamentare trasversale per l’approvazione della proposta di legge popolare (Allegri, Ciccarelli, 2013)[5]. Purtroppo la “pazza idea” non ha alcun seguito e la proposta non è nemmeno mai discussa in aula. Tuttavia questa campagna impone con forza il tema del reddito nell’agenda politica nazionale. Nel 2015, viene realizzata una nuova campagna sociale per il “Reddito di dignità”, promossa, anch’essa, da una ampia coalizione sociale, che raccoglie oltre 70mila firme per chiedere che entro “100 giorni” venga introdotta una misura di sostegno al reddito. A questa campagna partecipano cattolici di base e studenti, movimenti per i diritti civili e reti di contrasto alla povertà, esponenti sindacali e di alcuni partiti. La campagna vede il sostegno di numerosi consigli comunali e di personalità del mondo accademico e della cultura. Un’attivazione trasversale e “popolare” che dimostra quanto il tema del reddito minimo garantito è ormai penetrato nei corpi sociali e sostenuto da una buona parte dell’opinione pubblica. Viene redatta una piattaforma, articolata in 10 punti, una sorta di “guida ai principi irrinunciabili”[6], così da favorire la convergenza delle forze politiche in Parlamento per la definizione di una legge. I criteri principali sono: l’individualità della misura; minori obblighi verso i beneficiari; la facilità di accesso; il diritto a servizi di qualità; la durata certa e l’ammontare dignitoso; il riconoscimento della storia professionale e delle esperienze informali del beneficiario; il riconoscimento della misura anche a studenti, ecc. Si chiede ai parlamentari un sostegno pubblico attraverso una firma in calce alla piat­taforma, cosa che fanno in moltissimi. Malgrado ciò non si arriva a nessuna iniziativa parlamentare che tenga conto dei criteri proposti nella piattaforma, ma la campagna sociale rafforza ancora di più il dibattito e le ragioni per l’introduzione di un diritto al reddito garantito. Fino ad arrivare ai movimenti del diritto all’abitare che hanno proposto il reddito insieme al diritto alla casa, o il reddito di autodeterminazione del movimento delle donne “Non una di meno”[7]. Un’attivazione sociale che si è rinnovata durante il lockdown del 2020 dove con forza sono emerse rivendicazioni di un reddito di quarantena, un reddito di cura o l’estensione della legge del reddito di cittadinanza sino a tramutarlo in un reddito di base il più possibile incondizionato. Quest’ultima sicuramene la soluzione migliore.

Ma allo stesso tempo, sulla proposta di reddito di base (che in Italia continua a essere denominato “reddito di cittadinanza”) inizia a svilupparsi una certa confusione terminologica, a seconda di come viene declinato. L’origine di tale confusione è che, spesso, quando si parla di reddito non si fa alcuna menzione al modello di welfare a cui implicitamente si fa riferimento.

Chi ha nostalgia del welfare pubblico keynesiano gestito in modo universalistico direttamente dallo Stato (sul modello renano e che in Italia non ha mai preso piede), vede nella proposta del reddito un possibile strumento di “re-distribuzione” della ricchezza, una sorta di ampliamento del sussidio di disoccupazione in grado di includere anche quelle persone che non sono in grado di lavorare. Normalmente, si usa il termine di “reddito di inclusione”.

Una versione più ristretta e più condizionata, come strumento non solo di lotta all’esclusione sociale e alla povertà, ma soprattutto come strumento di politiche attive del lavoro viene portata avanti dai teorici del sistema di workfare. Al riguardo, una delle tesi sostenute nel libro che avete tra le mani va esattamente in senso contrario: una politica di reddito di base non ha nulla a che fare con le politiche attive del lavoro. Si tratta di due sfere di intervento del tutto separate. Le politiche attive del lavoro avrebbero la funzione di favorire la possibilità per chi è inoccupato di entrare nel mercato del lavoro, riducendo il mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Si tratta pertanto di una misura di politica industriale e occupazionale, che interviene dal lato dell’offerta. Di converso, una politica di sostegno al reddito ha a che fare solo con la sfera distributiva, intervenendo dal lato della domanda.

Ritenere che una legge sul reddito possa essere intesa come parte integrante di una politica attiva del lavoro, oltre a essere un grave errore metodologico, è anche causa della sua inefficacia Ne consegue che il pur lodevole tentativo del Movimento 5S di dotare l’Italia di uno strumento di contrasto alla povertà risulti alla fine facilmente criticabile da coloro che vedono nell’occupazione e nell’occupabilità la sola ragione per uscire da condizioni di indigenza.

Il reddito di base, anche nella sua declinazione limitativa di reddito di cittadinanza dovrebbe essere, invece, un provvedimento che ha l’obiettivo di dotare la persona dei mezzi necessari per poter intraprendere un proprio programma di autodeterminazione di vita. Tale obiettivo non può dipendere dalla condizione lavorativa e professionale. Piuttosto la determina. In altre parole, la proposta del reddito di base ha a che fare con i diritti dell’essere umano e non del lavoro.

Come scrivono lucidamente Bascetta e Bronzini nell’introduzione del libro:

“La proposta di un reddito incondizionato, indipendente cioè dalla prestazione lavorativa o dalla provata intenzione di vendere, alle condizioni imposte, la propria forza lavoro, deve misurarsi non tanto con gli squilibri distributivi, con il vuoto della disoccupazione, ma con il pieno del modo di produzione postfordista, con i processi effettivi di produzione della ricchezza”.(p. 27).

E a pag. 31:

“Esso è incondizionato e dunque indipendente da ogni prestazione lavorativa individuale o dalla manifesta volontà di cercare e accettare un posto di lavoro, nè può essere collegato a specifiche prescrizioni comportamentali”

Anche il contributo di Caillè presente nel libro ribadisce questo concetto, quando afferma che un reddito minimo incondizionato libererebbe i lavoratori dall’ossessione della negoziazione ad ogni costo di contratti relativi ad una subordinazione spesso “fantasmatica”[8].

La rivendicazione dell’incondizionalità del reddito di base, presente in tutti i contributi del libro, è il lascito più importante ai nostri giorni e rende questo libro “profetico”. Ma c’è di più. Anche se non esplicitamente dichiarato, nel testo si analizzano alcune caratteristiche del nuovo modello di accumulazione capitalistica che si andava instaurando, all’epoca, come già ricordato, denominato post-fordista. Termini come “cooperazione sociale produttiva”[9], “general intellect”, “sapere vivo” iniziano ad essere utilizzati per descrivere le basi dei nuovi processi di valorizzazione, anche grazie agli input derivati dai contributi della rivista Luogo Comune[10].

Non è ancora possibile arrivare alle teorizzazioni che oggi definiscono il capitalismo bio-cognitivo delle piattaforme come un’organizzazione finalizzata alla messa a valore della vita sia in forme dirette che indirette. Ma l’intuizione che il reddito di base deve essere considerato strumento di remunerazione è già in nuce. Strumento di remunerazione significa che il reddito di base rappresenta il pagamento di tempo di vita, inopinatamente considerato improduttivo ma che invece si rivela altamente produttivo, al punto di divenire la linfa vitale sui cui si basa oggi l’industria dei big data e il concetto di “network value”. Il capitalismo delle piattaforme riduce (anche senza eliminarla del tutto) la necessità di organizzare il lavoro, se non per quelle attività necessaria ad allenare gli algoritmi della piattaforma stessa (i clickworkers)[11].

La tradizionale distribuzione del reddito ne risulta stravolta. Il salario (come remunerazione di un’attività di lavoro certificata come produttiva) e il profitto (come remunerazione dell’attività di impresa) diventano marginali. Ciò che conta oggi è, da un lato, l’incremento del valore dell’impresa quotata in borsa (la sua finanziarizzazione), spesso scollegata dai risultati di bilancio ma sempre più dipendente dalle dinamiche speculative, e, dall’altro, l’attività gratuita che gli utenti delle piattaforme in modo più o meno cosciente svolgono (prosumer). Attività gratuita, mossa dalla necessità di “vivere”, ma non riconosciuta e certificata come produttiva. Non è un caso che oggi la frontiera dell’accumulazione e l’innovazione tecnologica sia sempre più interna ai processi di riproduzione sociale.

La dicotomia distributiva non è più solo tra chi svolge un’occupazione remunerata e chi è inoccupato. La dicotomia sempre più emergente è tra chi compie quotidianamente un atto di vita produttiva certificato come tale (e quindi più o meno remunerato) e chi compie un atto di vita produttiva non riconosciuto come tale (e quindi non remunerato)[12]. Tale dinamica penalizza la struttura salariale, individualizza e esternalizza sempre più il rapporto di lavoro, favorendo la precarizzazione della vita, con l’effetto di far aumentare le diseguaglianze e la concentrazione del reddito. Il ricatto del bisogno da un lato e la creazione di immaginari vincenti – ma solo per pochi – dall’altro, sono oggi gli strumenti principali del controllo sulla vita umana e, in subordine, del lavoro.

Per fronteggiare tale deriva, è sempre più inderogabile proporre un reddito di base che, essendo remunerazione di atti che hanno prodotto valore di scambio (ovvero, profitto e rendita finanziaria), non può che essere incondizionato. Tale proposta di reddito deve far parte di un progetto più ampio di welfare in grado di garantire, oltre alla liberazione dal ricatto del bisogno, anche il diritto universale all’accesso ai servizi sociali (sanità; istruzione, trasporti) e a tutti quei beni comuni e a quella ricchezza comune che oggi è stata piegata e distorta per alimentare il processo capitalistico di accumulazione.

Occorre, cioè, proporre un welfare del comune, con le caratteristiche descritte nel manifesto per il Commonfare[13].

Senza questo libro, il percorso che ci ha portato sin qui sarebbe stato, sicuramente, più impervio e tortuoso.

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Note:

[1] https://www.bin-italia.org/UP/statuto_BIN.pdf. I soci sono fondatori sono: Giuseppe Allegri, Giuseppe Bronzini, Franco Carlucci, Andrea Fumagalli, Sandro Gobetti, Cristina Morini, Luca Santini, Rachele Serino, Andrea Tiddi.

[2] https://www.bin-italia.org

[3] S. Gobetti, “Un reddito garantito ci vuole! Questo è il minimo e vogliamo di più”, in BIN Italia (a cura di), Un reddito garantito ci vuole. Ma quale, Quaderni per il Reddito N.3, Associazione Basic Income Network Italia, Roma, 2016

[4] BIN Italia, La proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito, Basic Income Network Italia, 25 aprile 2013: https://www.bin-italia.org/la-proposta-legge-iniziativa-popolare-sul-reddito-minimo-garantito/

[5] G. Allegri, R. Ciccarelli, “Pazza idea: Grillo e la Sinistra alleati per il reddito minimo garantito”, in Micromega, 14 febbraio 2013

[6] Per conoscere i 10 punti della Piattaforma per il Reddito di dignità vedere: www.bin-italia.org/10-punti-della-piattaforma-del-reddito-dignita.

[7] BIN Italia (a cura di), Non un reddito di meno, Reddito di base per l’autodeterminazione. Numero speciale in occasione dello sciopero generale delle donne: 8 marzo 2017, Quaderni per il Reddito n. 6, Associazione Basic Income Network Italia, Roma, 2017

[8] Tale opinione è stata espressa anche in un precedente contributo di Caillé, dal quale è tratto il dibattito riportato in questo libro: cfr. V. A. Caillé, «Défence du revenue minumum d’existence», in Esprit, giugno 1995

[9] Ad esempio a pag. 31, Bascetta e Bronzini scrivono: “In questo, (un reddito di base incondizionato, ndr.)  corrisponde pienamente alla natura di un processo di cooperazione sociale produttiva che, come quello che abbiamo descritto, non discende dall’organizzazione di singole prestazioni di lavoro, ma è sempre più il frutto di facoltà diffuse che agiscono all’interno di un contesto sociale dato a un certo grado della sua evoluzione”.

[10] Nel 1990 l’Associazione Culturale General Intellect nasce con il principale scopo di editare una rivista, Luogo Comune, a cui partecipano nomi importanti della cultura italiana, oltre che diversi protagonisti dell’agitata stagione che va da fine anni sessanta a fine anni settanta. Giorgio Agamben, Paolo Virno, Franco “Bifo” Berardi, Lucio Castellano, Toni Negri, Franco Piperno, Marco Bascetta, Giuseppe Bronzini, Benedetto Vecchi sono solo alcuni delle firme più o meno ricorrenti di Luogo Comune: https://www.generalintellect.it/luogo-comune/

[11] Al riguardo, si veda A. Casilli, “Gli schiavi del click”, Feltrinelli,  Milano, 2022.

[12] Tale affermazione deriva da un documento firmato IWW: Immaterial Workers of the World, “Ma che te lo dico a fare”, Derive&Approdi, numero 18, Primavera 1999.

[13] General Intellect, “Prolegomeni a un manifesto per il Commonfare”, in A. Fumagalli, G. Giovannelli, C. Morini (a cura di), La rivolta della cooperazione. Sperimentazioni sociali e autonomia possibile, Mimesis, Milano, 2018, pp. 25-34; General Intellect, “Commonfare or the Welfare f the Commonwealth”, in  Inte Gloerich, Geert Lovink, Patricia de Vries (eds.), MoneyLab Reader 2: Overcoming the Hype , Institute of Network Culture, Amsterdam, 2018, pp. 244-250 https://networkcultures.org/wp-content/uploads/2018/01/22-generalintellect.pdf

Questo articolo è stato pubblicato congiuntamente anche sul sito di Effimera