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La bolla occupazionale del Jobs Act

di Dario Guarascio, Marta Fana, Valeria Cirillo

La bolla occupazionale generata, nel 2015, dal massiccio trasferimento di risorse alle imprese non ha contribuito a invertire le tendenze strutturali che inchiodano l’Italia agli ultimi posti in Europa in termini di produttività, innovazione tecnologica e occupazione giovanile

 

L’Osservatorio sul Precariato dell’INPS ha fornito i dati di sintesi circa la dinamica del mercato del lavoro nell’anno 2015. Queste comunicazioni consentono di stilare il primo bilancio degli effetti del Jobs Act. Si ritrova non soltanto la dinamica legata alla decontribuzione e il suo intreccio con il contratto a tutele crescenti, ma anche la trasformazione del lavoro, tra contratti a termine e l’evoluzione del lavoro accessorio occasionale, gestito attraverso i voucher. I dati forniti dall’INPS parlano di 606.000 nuovi rapporti di lavoro di cui 186.048 a tempo indeterminato. A questi ultimi vanno aggiunte 492.729 e 85.352 trasformazioni, rispettivamente da a termine e da apprendistato in contratti a tempo indeterminato. In un quadro generale di incremento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, la cui attivazione garantisce l’accesso alla decontribuzione introdotta dal governo a dicembre 2014, le trasformazioni sembrano aver fatto, sin qui, la parte del leone, aumentando del 50% rispetto al 2014. In tal senso, il legame tra Jobs Act e nuova occupazione rimane limitato dal momento che le cosiddette stabilizzazioni riguardano individui già occupati. Sul piano della qualità dell’occupazione, la retorica della stabilizzazione si scontra con l’indebolimento sostanziale del contratto a tempo indeterminato, sostituito dal contratto a tutele crescenti.

Inoltre, il 61% (24,1% se si escludono le trasformazioni) dei rapporti di lavoro attivati nel 2015 ha beneficiato delle misure di decontribuzione previste dalla legge 190 del 2014.  Nel mese di dicembre questa quota si è impennata, raggiungendo l’82,2% del totale tra trasformazioni e nuove assunzioni.

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Con l’annuncio del dimezzamento della decontribuzione per le assunzioni del 2016, le imprese hanno reagito aumentando cospicuamente le attivazioni e le trasformazioni di contratti a tempo indeterminato, al fine di beneficiare dell’esonero totale sul costo del lavoro (fino a 8060 euro). Questa strategia da parte delle imprese non sembra rispecchiare l’andamento dell’economia reale che, negli ultimi due trimestri del 2015, ha registrato un rallentamento rispetto alla già debole “ripresa” del Pil, principalmente stimolata da fattori esterni.

La fotografia fatta dall’INPS non segnala quindi un reale consolidamento dell’occupazione in Italia, come evidenziato anche dalla preponderanza dei contratti part-time sul totale degli indeterminati (41,7%).

Sembra dunque di essere di fronte a una ‘bolla occupazionale’, un movimento verso la creazione o la trasformazione di rapporti di lavoro drogato dall’incentivo pubblico. Una bolla che, al momento della sua esplosione, rischia però di riportare alla luce tutte le debolezze strutturali del mercato del lavoro nostrano. Da questo punto di vista, un’attenta disamina della ripartizione dei nuovi rapporti di lavoro mostra come le nuove assunzioni, distinte per qualifica professionale, interessino al 70,1% figure scarsamente qualificate, nel 25% impiegati o figure mediamente qualificate, seguiti da apprendisti, quadri e dirigenti. In termini di età, le assunzioni a tempo indeterminato con esonero hanno riguardato, per il 24%, la fascia di lavoratori dai 40 ai 49 anni e, per meno del 15% dei casi, la fascia 25-29, quella in cui il cosiddetto fenomeno dei NEET (persone che non lavorano, non cercano un lavoro e non studiano) risulterebbe essere più forte.

C’è poi il divario Nord-Sud, che emerge plasticamente osservando la distribuzione per regione delle trasformazioni. Il 24% di queste ultime si concentrano in Lombardia, l’11% in Veneto ed Emilia Romagna ed appena lo 0,9% in Calabria, lo 0,48% in Basilicata e lo 0,2% in Molise. La fragilità italiana è riscontrabile guardando alla dinamica occupazionale per settore produttivo. Il 34,7% dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato è registrato nel commercio, la riparazione di autoveicoli e nei servizi di alloggio e ristorazione, il 19,5% nel manifatturiero a bassa intensità tecnologica, il 13,8% nelle costruzioni. Con il restante 30% distribuito tra servizi pubblici, attività professionali ed altri servizi.

L’ultimo dato meritevole di attenzione riguarda i voucher. Questa nuova forma di lavoro precario, caratterizzato da assenza di garanzie sulla stabilità e di tutele previdenziali, ha visto un aumento senza precedenti nel 2015 (dal 2014 al 2015 l’incremento è stato del 66,1%, con picchi del 94% in Sicilia e dell’80,1% in Puglia).

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Uno sguardo attento, dunque, non sembra giustificare l’entusiasmo di coloro che, alla luce di saldi occupazionali positivi nel breve, trascurano i fattori che destano preoccupazione per il medio lungo periodo. La debole dinamica dell’occupazione giovanile e femminile, il divario Nord-Sud, la concentrazione dei rapporti di lavoro in servizi a basso contenuto tecnologico non sembrano essere stati intaccati dalle riforme del governo Renzi. La ‘bolla occupazionale’ generata, nel 2015, dal massiccio trasferimento di risorse alle imprese non ha contribuito a invertire le tendenze strutturali che inchiodano l’Italia agli ultimi posti in Europa in termini di produttività, innovazione tecnologica ed occupazione giovanile.

 

Tratto da Sbilanciamoci.info

Una prima versione dell’articolo è stata pubblicata da Left.it

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