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L’intreccio tra sogno europeo e reddito garantito

di Luca Santini

L’intreccio tra sogno europeo e reddito garantito. Scheda su due volumi da poco in libreria.

Segnaliamo l’uscita in libreria, quasi in contemporanea, di due volumi che sembrano scritti e pensati uno in successione dell’altro, il primo di Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini, per i tipi di Fazi, dal titolo Sogno europeo o incubo? Come l’Europa potrà tornare a essere democratica, solidale e capace di difendersi dai mercati finanziari, il secondo dato alle stampe da Giovanni Perazzoli tra i tascabili Laterza con il titolo Contro la miseria. Viaggio nell’Europa del nuovo welfare.

Il primo dei due volumi non è che l’ultima fatica di due autori da tempo impegnati tanto nell’analisi e nell’auscultazione dei nuovi movimenti sociali (tra tutti si veda di Allegri, in coedizione con Roberto Ciccarelli, Il Quinto Stato, Ponte alle Grazie, 2013), quanto nella disamina dei processi istituzionali del vecchio continente (Bronzini, in particolare, è autore di innumerevoli saggi e interventi in parte reperibili sul sito www.bin-italia.org). Questo nuovo studio muove, a suo modo, dalla stessa domanda che, allo scoppiare della “grande crisi” iniziata nel 2007-2008, la regina Elisabetta rivolse agli economisti neo-liberali: come è possibile che nessuno di voi si sia accorto di quanto stava accadendo? Domanda che alla luce dei successivi accadimenti può essere così aggiornata: come mai nonostante la conclamata bancarotta dell’ortodossia economica che da decenni guida le politiche pubbliche dell’occidente, non si è realizzato un deciso cambio di passo in seguito alla crisi? O se si preferisce lo spirito che anima la ricerca è lo stesso che si aggira nell’opera di Colin Crouch Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo (Laterza, 2011), ossia il tentativo di comprendere perché e con quali meccanismi le politiche liberiste, che secondo logica sarebbero dovute uscire sconfitte al cospetto della grave recessione indotta da anni di deregulation finanziaria, hanno invece finito per trionfare in Europa imponendo una strategia dell’austerity che sta progressivamente esautorando le rivendicazioni dei popoli e lasciando irrisolti i fondamentali  bisogni dei soggetti sociali.

Gli autori ricostruiscono con attenzione il processo attraverso il quale “dopo cinque anni di convulse trasformazioni, l’Unione europea si ritrova con norme e istituzioni impensabili anche solo un decennio fa”. Norme e istituzioni, va detto, che sembrano pensate e imposte con il precipuo scopo di esautorare le istanze comunitarie, di mortificare i parlamenti nazionali, di boicottare qualsiasi processo politico partecipativo nell’ambito dell’Unione e dunque con l’obiettivo di imporre ancora una volta le ricette neo-liberiste altrimenti in crisi di popolarità. Il pregio del volume è dunque in primo luogo quello di fare chiarezza sulle vorticose novità degli ultimi anni e di costituire una sorta di breviario nel nuovo lessico della governance europea: parole ed espressioni come six pack, two pack, meccanismo europeo di stabilità, fiscal compact, euro plus act, eccetera trovano finalmente un’esaustiva definizione e una collocazione chiara entro un contesto istituzionale in via di cambiamento. Gli autori ricostruiscono insomma quello che definiscono come “diritto europeo dell’emergenza”, caratterizzato da una preminenza degli esecutivi sulle istituzioni dell’Unione (in particolare sul parlamento europeo) con conseguente vuoto di legittimazione democratica e tutela problematica dei diritti fondamentali (anche la Corte di Giustizia pare infatti depotenziata di fronte ai nuovi trattati stipulati in sede intergovernativa).

La gabbia di ferro del rigore neoliberista, fabbricata dalla Germania della Merkel e dai suoi fedeli alleati, sta stritolando e umiliando i Paesi del sud e  – notano gli autori – sta mandando in frantumi qualsiasi ipotesi di solidarietà pan-europea. Non che manchino proposte alternative sul campo, da quella del gruppo Spinelli (che ha licenziato il progetto di un nuovo Trattato per l’istituzione di un governo federale europeo) a quella dell’Eiffel Group, che auspica un’iniziativa franco-tedesca per la creazione di un’imposizione fiscale comune da utilizzare nel finanziamento di politiche europee innovative, prima tra tutte la parziale corresponsabilità tra tutti i Paesi membri nel finanziamento dei sussidi di disoccupazione . Ma questi e simili disegni rischiano di infrangersi, al pari dei precedenti progetti costituzionali europei, contro i veti incrociati degli Stati e difficilmente riuscirebbero a superare la recente contrapposizione tra paesi virtuosi e “spendaccioni”, e potrebbero addirittura acuire anziché alleviare il conflitto tra i Paesi che, con l’adozione  dell’euro, paiono ormai destinati a una sempre più stretta “fusione degli orizzonti” e i Paesi da sempre euroscettici, prima tra tutti la Gran Bretagna, la cui sterlina rimane una moneta naturalmente rivale dell’euro.

Come uscire dunque dall’impasse istituzionale dell’Europa e come archiviare al contempo la “decade malefica” gestita dalla coppia Barroso-Merkel all’insegna dell’austerità? Allegri e Bronzini incitano a cogliere “l’occasione costituente della crisi” e auspicano l’emergere di un forza, di una tensione “estranea ai poteri statali, che li costringa o induca a piegarsi davvero a un potere pubblico sovranazionale, democratico e sociale”. Auspicano un moto convergente dal basso e dall’alto: dal basso vi sarebbe bisogno di un soprassalto di creatività e di insubordinazione da parte dei movimenti sociali, dall’alto spetterebbe prioritariamente al parlamento europeo di guidare una reinvenzione dell’assetto istituzionale dell’Unione. Tutto ciò contribuirebbe al risveglio dall’incubo europeo degli ultimi anni, per ridare fiato al sogno di un continente che sia luogo di emancipazione, democrazia e solidarietà per tutti i suoi abitanti. E’ chiaro qui che la vera posta in gioco non è solamente quella della riscrittura dell’architettura costituzionale, quanto piuttosto quella delle politiche da intraprendere. Da questo punto di vista la difesa e il rilancio del modello sociale europeo costituisce il vero luogo di distinzione tra incubo e sogno.

Ma in cosa consiste concretamente, occorre allora chiedersi, il “modello sociale europeo”? Quali sono i suoi elementi portanti? E’ proprio su questo punto che torna assai istruttiva l’inchiesta con cui Giovanni Perazzoli ha passato in rassegna i sistemi di welfare dei principali Paesi europei. Con metodo empirico e facendo ricorso a fonti di varia natura, tra cui i rapporti statistici, le storie di vita e perfino i dibattiti on line su siti quali Yahoo-Answer, Perazzoli giunge a una conclusione perentoria e tuttavia condivisibile: il nucleo forte del modello sociale di cui l’Europa va fiera, risiede nelle forme di tutela del reddito la cui data di nascita può essere fatta risalire al famoso Rapporto di William Beveridge del 1942. Si tratta di quelle misure universalistiche (cioè rivolte alla generalità dei cittadini) di sostegno nei periodi di disoccupazione, di durata tendenzialmente illimitata, che fioriscono nell’Europa del dopoguerra, che vanno sotto il nome di Rsa, Allowance, Dole, eccetera, di cui si è occupato anche il volume del BIN-Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile, Edizioni Gruppo Abele 2012 e su cui Perazzoli ritorna con il suo vivido racconto.

Limitare il discorso sul welfare europeo all’ambito dei cosiddetti benefit, cioè delle misure a cui il disoccupato o l’occupato a basso reddito ha diritto nei vari Paesi europei, potrà sembrare un’operazione viziata da eccessivo riduzionismo, e tuttavia Perazzoli ha buon gioco nel dimostrare che il poter disporre (come in tutti i Paesi dell’Europa del nord) o il non poter disporre (come in Italia) di misure di reddito minimo conduce a configurare quadri sociali e politici completamente differenti. Invero concetti e problemi quali “povertà”, “disoccupazione” o “emergenza abitativa” sono conosciuti e dibattuti in tutta Europa, tuttavia fuori dall’Italia, dove esistono misure di garanzia del reddito, essi assumono una dimensione del tutto  particolare: sembra che si stia parlando delle stesse cose, e invece ci si riferisce a situazioni completamente diverse. Altra infatti è la condizione del disoccupato italiano destinato a scivolare più o meno lentamente nella povertà e poi magari a perdere la casa e ogni progetto di autonomia, e altra è quella del “disoccupato europeo” assistito e sostenuto da strumenti di welfare che gli garantiscono reddito, alloggio, assegni per i figli, contributi per le spese impreviste, corsi di formazione, sussidi per il trasloco…

L’autore ricostruisce i termini di un dibattito che è moneta corrente in Europa e che è totalmente sconosciuto, per non dire incomprensibile, qui da noi. Il Governo britannico, ad esempio, ha avuto a che fare con lo scandalo, largamente ripreso dai media, di una lavoratrice cui i servizi per l’impiego avevano consigliato a ragion veduta di licenziarsi da un’occupazione part-time perché, a conti fatti, vivere per un certo tempo di dole, cioè di reddito minimo, sarebbe stato economicamente più vantaggioso. Ebbene, riscontrare che il reddito minimo è ormai diventato, in certi casi, più generoso della paga offerta sul mercato del lavoro la dice lunga sullo stato di salute della società salariale, ma è ancor più sconcertante scoprire che esiste talvolta in Europa la possibilità di una disoccupazione “scelta”, di una determinazione libera e consapevole che induce gli individui a fuoriuscire per un certo arco di tempo dal mondo del lavoro. Si pone insomma concretamente,  laddove esiste un reddito minimo, diversamente che da noi, il quesito se e a quali condizioni convenga lavorare. E  tutto ciò non necessariamente crea un segmento sociale di “assistiti a vita” o di esclusi, poiché un esito del genere non è affatto connaturato alle misure di reddito minimo, è semmai un portato di processi di esclusione sociale che si pongono “a monte” e non “a valle” della redistribuzione offerta dai benefit.

E ancora Perazzoli ridicolizza la stampa italiana quando, ignara dei livelli di civiltà vigenti oltralpe, parla dei sacrifici che la legge Hartz-IV ha imposto al popolo tedesco. Invero, nota ironicamente l’autore, il giovane Werther tedesco ha potuto ben consolarsi dai suoi “dolori” constatando che “la potatura del welfare avviene nell’altra Europa a partire da un albero enorme, al cui confronto in Italia abbiamo una misera pianticella”. Ad esempio, viene annotato con puntiglio, prima della riforma una famiglia composta da due disoccupati e da due figli minori avrebbe ricevuto 1.420,50 euro mensili, che dopo la riforma si riducono a 1.339,00 euro, con un risparmio per lo Stato pari a 81,50 euro al mese. Insomma, qualcosa di semplicemente impensabile qui da noi.

Ma perché, è lecito chiedersi, l’Italia è rimasta così drammaticamente distante da riforme e strumenti del welfare così strategici e così profondamenti radicati nella vita quotidiana e perfino nell’ethos dei popoli europei? Difficile dare una risposta esaustiva a un simile interrogativo, Perazzoli si richiama a Piero Gobetti e ipotizza che la diffidenza verso il welfare del modello sociale europeo sia il sintomo di un certo autoritarismo della società italiana e di una diffidenza verso la libertà e l’autonomia individuale.

Come che sia, rimane sul campo l’esigenza di un adeguamento radicale dello stato sociale in Italia, da collocare entro una prospettiva di rilancio del welfare europeo. A tale proposito i due volumi qui segnalati convergono nel definire un campo di valori che avrebbe bene le carte in regola per trasformarsi in un vero e virtuoso progetto politico e culturale, da realizzare con decisione e urgenza.

Luca Santini Presidente BIN Italia

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