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In movimento per il reddito

di Sandro Gobetti

Intervista della Rivista Contest, a Sandro Gobetti della redazione di Inofoxoa sul tema del reddito garantito

Domanda: La parola d’ordine del reddito, nelle declinazioni che vanno dal recupero del potere d’acquisto dei salari alla rivendicazione di un reddito slegato dal lavoro (soprattutto nelle manifestazioni dei precari), ha fatto da sfondo a molte mobilitazioni degli ultimi anni. Ci sembra che questo dato abbia contribuito a costruire un atteggiamento culturalmente più fluido, a sinistra, rispetto al tema reddito/lavoro ed ai nessi che si stringono o si allentano intorno a questi due termini ed ha consentito l’elaborazione di leggi, proposte di legge regionali, o di semplici discussioni, anche tra soggetti differenti, intorno al tema di un diritto al reddito destinato non solo agli “svantaggiati” o agli “inabili al lavoro” (come è nell’orizzonte dell’assistenza sociale) ma a tutti coloro (dagli studenti universitari fino alle lavoratrici ed ai lavoratori precari) subiscano la precarizzazione delle proprie condizioni di vita. Almeno così l’abbiamo vissuta in Lombardia, dove la Rete contro la Precarietà è riuscita a costruire una proposta di legge d’iniziativa popolare sul diritto al reddito attraverso un percorso tra soggetti tra loro differenti (sinistra sindacale, sindacati di base, centri sociali, associazioni e partiti…) nell’ottica di farne anche uno strumento di conflitto e di mobilitazione.

Risposta: Le mobilitazioni avvenute in questi ultimi anni intorno al tema della precarietà e, ancor di più, la condizione reale che si è andata aggravando intorno al mondo del lavoro hanno rilanciato le ipotesi di sostegno al reddito e, hanno posto la questione di un nuovo modello di welfare. Il dibattito intorno al reddito garantito, minimo, di base, di inserimento, di ultima istanza, di continuità, di cittadinanza ha assunto una portata di carattere nazionale e le lotte avvenute in questi ultimi anni, sia in Francia con il movimento degli intermittenti, sia in Germania con le manifestazioni in difesa del welfare, segnalano la centralità anche europea di questo tematica. Ma proprio le diverse diciture utilizzate (in alcuni casi impropriamente come nel caso della legge sul reddito di cittadinanza in Campania) dimostrano, da una parte, la mancanza di un dibattito approfondito, dall’altra la confusione o la diversità circa le modalità con cui si intende concretamente realizzare una misura di garanzia del reddito. Oggi anche pezzi di imprenditoria, economisti vicini a Confindustria, teorici neoliberali pongono la necessità di ripensare una forma di welfare in cui la questione del reddito sia preso in considerazione. Ma sostanzialmente, così come sulla questione dei termini con cui viene definito, anche il modello di “reddito garantito” che si intende realizzare si incontra con la necessità di articolare una visione del modello di sviluppo in cui si inserisce e quindi di quale società si deve parlare. Possiamo dire che a partire dall’idea di un basic income (reddito di base) si può realmente rimettere in discussione un piano nuovo non solo sotto il profilo di una elargizione economica o di una misura atta a fronteggiare l’emergente povertà (Eurostat parla di 75 milioni di poveri in Europa di cui 11 in Italia), ma di un effettivo ripensamento di una società che si ricalibra intorno all’idea di una “democrazia redistributiva”. Un sistema nuovo che non accordi solo sul piano dei diritti formali l’accesso alla cittadinanza, ma che sia in grado di determinare l’accesso alle risorse, intesa come diritto di partecipazione alla società e alle sue effettive ricchezze. Si tratta di porre con determinazione il fatto che all’interno di una società che i definisce democratica, non si può prescindere da una concezione di accessiblità economica. Non basta infatti dire che la scuola è un diritto per tutti, si tratta di determinare quei passaggi necessari affinché tale diritto sia realmente esercitato. Il riconoscimento formale dei diritti di uguaglianza deve potersi realizzare con la reale integrazione dei diritti in merito alle possibilità economiche e delle condizioni sociali. Alcuni diritti debbono poter divenire inalienabili, come quello sulla casa, all’istruzione, alla cura, ai trasporti e quindi ad una vita dignitosa, a partire dalla centralità di un reddito di base che sia in questo senso non solo risposta alla emergente povertà nelle nostre società, ma che ne definisca una completezza senza la quale, questo tipo di democrazia, rimane di fatto incompiuta. Al momento la questione del reddito viene posta sostanzialmente su un piano di ammortizzazione sociale, in grado sì di offrire alcune garanzie minime contro la povertà o contro il rischio di un eventuale disagio sociale, ma imposta per lo più con modalità che accentuano, in capo ai possibili beneficiari, più i doveri che i diritti. Anche l’attuale svolta europea, dal welfare al workfare, cerca di ridisegnare un piano in cui l’inserimento non attiene più ad un generico piano sociale, quanto ad uno specifico inserimento lavorativo, rilanciando cosi non un livello di determinazione dell’individuo, quanto di un ricatto generalizzato legato addirittura ad una forma che potrebbe sembrare innovativa come il reddito minimo. Questo per essere molto chiari è il rischio che si potrebbe correre se il dibattito, in seno ai movimenti, ai sindacati, fino alle istituzioni, non si appresta ad assumere il reddito come forma nuova di rielaborazione della società a partire dalla ricchezza che produce; ricchezza che oggi, attraverso una forte polarizzazione, paradossalmente si traduce per i più in un pericoloso impoverimento. E’ bene ritenerci soddisfatti del fatto che questo tema sia divenuto di dominio sempre più ampio, ma proprio per questo lo sforzo da fare ora è quello di porre l’attenzione ad un serio approfondimento legato ad un processo di qualità della produzione (cosa, come, quanto  perché produrre)  e di garanzia di nuovi diritti che vedano nel reddito un punto fermo che rimetta in discussione proprio la società del profitto e della mercificazione delle persone e dei beni pubblici e naturali. Noi abbiamo sempre pensato che il reddito fosse uno strumento ricompositivo per i soggetti sociali, rivendicazione comune di una frammentazione generalizzata. Ma abbiamo scoperto anche che la questione del reddito ricompone un dibattito fatto di immaginari, di critica alla gestione e all’organizzazione delle ricchezze e della produzione. Una ricomposizione dei soggetti e delle idee forza su cui ricostruire una società più giusta, in cui proprio la redistribuzione diventi perno centrale e patto sociale. Diceva uno striscione alla mayday di Barcellona del 2005 “al lavoro andiamo noi, allora la fabbrica è nostra”, ecco oggi più che mai, siamo il lavoro ed i lavoratori, siamo la creatività e il consumo, e forse oggi più che mai non abbiamo bisogno di padroni che paghino con il sale il nostro tempo di vita.

Domanda: La costruzione di proposte/leggi sul diritto al reddito può rappresentare un momento di “legislazione dal basso” grazie all’individuazione di uno spazio di azione comune tra soggetti diversi (com’è stato nell’esperienza della Lombardia) ma anche momenti di legislazione partecipata e/o conflittuale (è il caso di quelle realtà in cui è l’istituzione a prendere l’iniziativa in una relazione di conflitto e/o di partecipazione con le istanze di movimento).

Risposta: L’elemento della legislazione e quindi della parte giuridica non può essere determinata dal basso se non sotto la spinta reale di un’autonomia dei movimenti sociali. Non si tratta di fare un unicum tra forme di rappresentazione sociale e forme di rappresentanza istituzionale, questo potrebbe addirittura essere un boomerang per quei movimenti che intendono invece determinare un piano della partecipazione sociale e del conflitto. E’ necessario invece non chiudere il dibattito in un ambito “politicista”, o nella politica della mediazione (piano comunque  necessario per la costruzione delle leggi), ma saper rilanciare un livello di aggregazione sociale, di iniziativa politica e culturale, di partecipazione intorno al tema del reddito, perché ciò che si pone, o si potrebbe porre, dal punto di vista dei movimenti di trasformazione, è proprio una forte critica al modello di accumulazione e di sfruttamento che oggi ci è imposto, una critica alle privatizzazioni e al profitto più complessivamente inteso. Per questo è necessario, anche sul piano legislativo, e ancor di più sul piano legislativo regionale, porre con forza l’idea di un reddito diretto (monetario) ed indiretto (di beni e servizi primari). Non possiamo accettare un piano di intervento statalista, magari fatto di un reddito  misero dal punto di vista  monetario, che dia la stura alla privatizzazione di tutti gli altri beni (sanità, scuola, trasporti…). E’ necessario quindi affermare con forza un piano pubblico che non è solo l’incontro movimenti/istituzioni intorno alla realizzazione di una legge, ma che invece è un rilancio di una partecipazione diffusa alle dinamiche di sviluppo, e quindi di una critica forte all’attuale modello produttivo. E’ necessario costruire iniziativa e intervento politico a partire dalla costruzione di nuove alleanze sociali, nei territori, tra i precari, nei luoghi e con i soggetti che vivono le contraddizioni materiali.

Domanda: Le trasformazioni che si sono prodotte, negli ultimi anni, sul terreno della produzione e nel mercato del lavoro possono essere schematizzate nell’invalidità del nesso “fordista” lavoro à reddito à cittadinanza. Oggi il problema della povertà materiale travalica le sacche di marginalità ed “eccedenza” sociale cui erano destinati i soggetti “non produttivi” e diventa un problema generale che coinvolge anche chi è pienamente inserito, come i lavoratori precari, nel ciclo della produzione. In uno schema in cui il lavoro è lo strumento principe dell’inclusione sociale, le politiche di sostegno al reddito sono destinate ai cosiddetti “inabili al lavoro” (pensioni di invalidità, pensioni di vecchiaia etc…) e ai “poveri abili” condizionatamente alla loro disponibilità di usufruire di percorsi di inserimento lavorativo, riqualificazione professionale, percorsi terapeutici, politiche attive del lavoro o altro. In quest’orizzonte si è mossa anche la sperimentazione del RMI (Reddito Minimo di Inserimento) promossa dai governi di centro sinistra. In un quadro, come quello odierno, in cui la disoccupazione è solo una delle cause che precludono l’accesso ad effettivi diritti di cittadinanza, lo schema dell’assistenza e dell’accompagnamento al lavoro salta. Ci sembra che le leggi regionali sul reddito in discussione in questi mesi forzino e cerchino di superare il modello dell’erogazione del reddito come misura condizionata e assistenziale.

Risposta: Oggi, come si suggeriscono alcune raffinate analisi del postfordismo, siamo nell’epoca in cui il pluslavoro determina di fatto un plusvalore spesso non calcolabile. L’accezione di interno-esterno, dentro-fuori, la si evince, di fatto, non più dentro il mercato del lavoro, ma la si riscontra dentro il piano dei diritti e del soddisfacimento dei propri bisogni. Quando possiamo dire, ad esempio, che un precario è dentro o fuori? Quando si forma, e assume le competenze di cui ha bisogno per lavorare, è dentro o fuori? Quando consuma o quando è in cerca di lavoro, o meglio forme di salario/reddito, è dentro o fuori?L’idea di condizionare una forma di sostegno al reddito è sbagliata, in particolare in Italia, perché significherebbe porre i soggetti in  una condizione di ulteriore ricattabilità (accettare qualsiasi lavoro pur di non veder vanificata l’erogazione di un reddito garantito). Non si tratterebbe più, quindi, del riconoscimento di un diritto soggettivo, ma appunto di un ricatto. Un diritto è un diritto…se la scuola è un diritto, non significa che ci può andare solo chi compra i libri per studiare!!! Ad oggi purtroppo non esiste in Italia alcuna misura di garanzia del reddito e men che mai forme che potrebbero alludere a un livello adeguato di incondizionatezza. E’ attivo un dibattito e il nuovo ruolo assunto dalle Regioni dopo la modifica del Titolo V della Costituzione può permettere un piano della discussione, e quindi della partecipazione ad eventuali leggi sul reddito, più vicino, più “territorialmente favorevole”. Ma la strada è ancora lunga e il rischio di accettare il minimo perché meglio che niente è sempre presente. Cosi come il rischio di accentrare il piano della rivendicazione solo sul piano regionale, rischierebbe di determinare un modello a più dimensioni. La battaglia intorno al reddito deve farsi più alta sotto un profilo dei contenuti e delle rivendicazioni, nonché và incentrata su un piano nazionale se non addirittura europeo. Questo significa porre un problema di strategia e organizzazione della lotta e probabilmente anche le mediazioni successive porteranno a principi in grado di determinare un altro e più alto livello di conquista.

Domanda: La copertura finanziaria di provvedimenti di questo tipo è un terreno di ricerca che vale la pena mantenere aperto. Nel caso della proposta lombarda il finanziamento prova a non pesare indistintamente sulla fiscalità generale, ma a gravare su quei soggetti economici (imprese utilizzatrici, somministratrici…) che traggono profitto dallo “scambio” di lavoro precario, al fine di rappresentarne un disincentivo. Un ragionamento complessivo su una nuova fiscalità “redistributiva”, che possa finanziare un nuovo Welfare, è sicuramente un orizzonte imprescindibile che forse può essere sollecitato anche sulla base di provvedimenti locali sul diritto al reddito ed ai servizi.

Risposta: La compartecipazione al finanziamento da parte dalle imprese è necessaria, non solo per porre un freno alle forme di precarizzazione selvaggia, ma proprio per cominciare a colpire il piano della iniqua distribuzione dei redditi. La questione del reddito rilancia anche un piano di lotta all’evasione fiscale (che solitamente non viene fatta né dai lavoratori dipendenti ne dai cococo…) e di ridiscussione della spesa sociale (cominciando a tagliare le spese militari e la sicurezza). Insomma, si apre un nuovo ambito di dibattito che non è slegato dal reddito ma che anzi, partendo dalle rivendicazioni di carattere sociale, si può determinare un piano di lotta di carattere economico e quindi rimettere in movimento una critica radicali ai modelli di sfruttamento e anche di spesa pubblica. Dobbiamo poter mettere il dito nella piaga, non accontentarci di misure di ripiego. La lotta per un reddito garantito può e deve aprire, da parte dei movimenti, una ripresa di un dibattito politico per una critica intorno al modello di sviluppo e all’organizzazione capitalista della produzione.

Pubblicato su: Contest 1 Milano, 2006

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