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Il reddito minimo garantito tra fughe radicali e sussidi di povertà?

di Giuseppe Bronzini

Articolo di Giuseppe Bronzini pubblicato su Alternative per il socialismo giugno 2015

” L’approccio più semplice si dimostrerà il più efficace. La soluzione al problema povertà è abolirla direttamente con una misura oggi ampiamente discussa: il reddito garantito..”

M. L. King 1967

Introduzione

Gi ultimissimi dati Istat hanno gelato tutti coloro che, in testa il Governo Renzi, pensavano ad una robusta ripresa occupazionale indotta dai bonus per l’assunzione (che alcune Regioni vorrebbero incrementare) e dall’appetibilità del contratto a tutele crescenti che elimina (salvo il masochistico caso di un recesso esplicitato come disciplinare)  i rischi di una reintegrazione nel posto di lavoro, dopo il loro forte ridimensionamento con la legge Fornero nel 2012.  Sembra difficile comprendere le ragioni per cui in questi mesi addirittura la disoccupazione sia aumentata ed abbia raggiunto l’allarmante record del 44,01% per la popolazione giovanile senza chiedersi inevitabilmente se la cosidetta ripresa italiana non sia una mera costruzione mediatica sullo sfondo della pioggia di denaro che la BCE ha iniettato nell’ambiente economico continentale. I due vantaggi offerti dalla riforme governative sono in realtà importanti per imprese che volessero aggirare le normative garantiste sul lavoro ed approfittare di sgravi piuttosto consistenti con eventualmente la riserva mentale di dismettere i dipendenti assunti appena possibile, magari proprio grazie alle acquisite risorse statali. La crisi italiana sembra, a ben guardare, così grave da risultare sostanzialmente impermeabile persino ad interventi di piccolo cabotaggio che in genere producono qualche effetto nell’immediato. Ma non è neppure questo il dato più allarmante che rimane quello della crescita esponenziale del numero dei poveri e dei soggetti a rischio di esclusione sociale tanto da aver fatto guadagnare al ” bel paese” l’angosciante primato “assoluto” di avere il tasso di incremento di tali gruppi sociali più alto tra tutti i 28 paesi aderenti all’Unione. Non diminuisce l’occupazione ma sale impetuosamente la povertà oltrepassando i sei milioni con percentuali da paura nelle Regioni del Sud. Mentre sul fronte del lavoro per lo meno di discute e si tenta qualche cura palliativa ( persino i famosi 80 euro mensili avrebbero dovuto far ripartire le assunzioni favorendo i consumi), per l’altro più devastante e più dilacerante fenomeno invece il Governo mostra una radicale intransigenza. Nei 5 decreti delegati- alcuni ancora in cantiere- di riordino del mercato del lavoro e del welfare– nulla è previsto a favore di chi versa in situazione di estrema difficoltà ( se non di vera e propria indigenza) se non una serie di social card  talmente difficoltose da richiedere da essere sostanzialmente senza fruitori, allontanati anche dalla stigma sociale che marchia i beneficiari della misura (). L’Italia quindi rischia di essere a breve l’unico paese ( in Grecia il Governo Tsipras è intento in una braccio di ferro con la Troika per strappare misure umanitarie per i più bisognosi) nell’Unione a non essere dotato di quella  misura istituzionalmente preposta a contrastare l’esclusione sociale, cioè nel linguaggio dell’Unione, il reddito minimo garantito (d’ora in poi RMG)  spettante a tutti coloro ( disoccupati o meri incapienti o lavoratori  poverissimi) che si trovano al di sotto di quella soglia di reddito che consente alle persone di vivere una vita dignitosa ( ius existentiae).

Povertà ed esclusione sociale come problemi strutturali

Il recente, bel, volume di Chiara Saraceno () ci ricorda il ritorno “dell’emergenza povertà nel cuore dei paesi ricchi”; secondo Eurostat 124 milioni di persone a rischio povertà ed esclusione sociale in Ue nel 2102 pari al 24,8%.. Per combattere il fenomeno non bastano le politiche di crescita e sviluppo, pur importanti e necessarie,  che non sempre riescono ad aggredire le specifiche ragioni che conducono un soggetto all’emarginazione, tanto da generare milioni di casi nella sola Italia di inattività assoluta tra i giovani ( Neet generation). Per combattere la povertà occorre, ci ricorda la Saraceno, un approccio più ampio, nel quale le competenze sociologiche sono certamente ineludibili: “pensare che l’aumento dell’occupazione generi automaticamente una riduzione della povertà può, infatti, essere una illusione, se non si considera attentamente di che tipo di occupazione si tratta e chi è più probabile che benefici dell’aumento della domanda di lavoro”. Molta attenzione va quindi riservata ad esempio in Italia alla separazione coniugale come causa dello scivolamento, soprattutto delle donne, in situazione di grave necessità o anche alla nascita del terzo figlio che fa rovinare il gruppo familiare precipitosamente verso il basso in mancanza di un welfare dei servizi degno di questo nome; alla mancanza di fiducia o all’isolamento di chi pur vorrebbe svolgere una qualche attività , vista con la totale assenza di centri per l’impiego all’altezza della situazione capaci di eccedere dalla mera produzione di attestati e certificati  () e via dicendo. A partire da questo stato di cose la Saraceno denuncia il paradosso per cui, mentre l’offerta lavorativa è vistosamente carente e va in effetti decrescendo, invece di soccorrere le persone che senza loro colpa sono privi di un reddito adeguato si moltiplichino i dibattiti ed i confronti ( non solo in Italia, purtroppo, ma anche in alcuni paesi europei) su come irreggimentare tali soggetti per costringerli ad accettare occasioni di lavoro che comunque o non ci sono affatto o sono “indecenti” secondo i parametri internazionali dell’ILO. Certamente è mera demagogia la tesi alla Ichino secondo la quale basterebbero  nel nostro paese, con uno dei tassi di partecipazione più bassa al lavoro in Ue,  banche dati nazionali sui posti di lavoro disponibili  (pur necessarie) o un sistema di tutoraggio efficace ed obbligatorio dei disoccupati per cambiare davvero scenario; l’esistenza anche nell’Europa avanzata di un esercito di esclusi è fenomeno- come ci dice la Saraceno- strutturale che può diventare una catastrofe umanitaria  per effetto della crisi economica internazionale, generando una rottura del legame e della coesione sociale che, alla fine, sono presupposti  inaggirabili anche di qualsiasi strategia di rilancio e crescita economica. La Saraceno ci invita quindi ad assumere questa come una vera emergenza da trattare con quegli strumenti che soprattutto in Europa ( in alcuni paesi) si sono elaborati ormai da decenni per cercare di evitare una “fracture social” con il formarsi di una sottoclasse di esclusi per la quale ogni progetto lavorativo finisce per essere fuori orizzonte.

Peraltro coloro che insistono solo sui problemi di crescita e sviluppo rischiano di tralasciare la questione che gli “analisti del futuro” cominciano a porre con sempre maggiore forza. Laddove l’economia dei paesi occidentali ha ricominciato a marciare modeste sono state le ricadute occupazionali; comunque con una occupazione molto più precaria ed instabile come in USA e GB, certo non i more but  better jobs di cui parlava la Strategia di Lisbona nel 2000. In ogni caso resta da vedere che cosa accadrà delle nostre società del lavoro salariato quando si avrà davvero l’ondata, spesso ritardata anche per ragioni politiche-istituzionali, della nuova robotica o delle “app” nel processo produttivo con il generalizzarsi di forme di reclutamento della forza lavoro su base planetaria direttamente su Internet. Qualcuno come Martin Wolf ha già parlato di rischi di una “grande stagnazione” (); Guy Standing valuta che siano già alcune decine di milioni le persone impegnate nel cosidetto crowd-work ( “lavoro on-line i cui i richiedenti designati postano i lavori disponibili per quella che è in pratica una forza lavoro globale a chiamata, a tutte le ore di tutti i giorni”) ed altre decine di milioni i “contratti a zero ore” (disponibilità assoluta, a semplice chiamata attraverso una app) () o il “lavoro a rubinetto” al quale l’Economist ha dedicato una recente survey (la produzione di servizi in forma completamente decentrata da parte di mini-imprese capaci di sfruttareapp, cellulari e tecnologia) (). Ci si chiede ancora, con una certa angoscia, quando la vettura Google senza guidatore si diffonderà o quando sarà effettiva la distribuzione di libri Amazon a mezzo di droni. Quanto ancora i sindacati tedeschi riusciranno ad impedire alla Wolksvagen di introdurre i  robot di nuova generazione attraverso accordi sindacali che ormai sono noti a tutti e che sembrano sempre di più una forma di “luddismo istituzionalizzato? () Si potrebbe continuare, ma la mia impressione è che il celeberrimo marxiano Frammento sulle macchine, dopo 150 anni, stia diventando un pezzo di realtà, mentre le forze culturali e politiche che pur dovevano elaborarlo siano ancora troppo indietro per suggerire strategie credibili.  In ogni caso qualsiasi politica emancipatrice o anche solo ispirata all’equità sociale o alla rawlsiana eguaglianza di opportunità  non può dismettere  la questione della tutela della dignità di coloro che non riescono ad entrare nel mercato del lavoro scommettendo tutto su di un rilancio occupazionale che, obiettivamente, si presenta come altamente problematica.

Fughe in avanti

L’Europa (nel suo complesso) ha elaborato da tempo ( a prima Raccomandazione è del 1992) sofisticati sistemi per classificare le “situazioni a rischio” e strumenti di intervento per dotare ciascuno di una rete di protezione “minima” che la Carta sociale europea e la Carta di Nizza hanno poi costituzionalizzato. Si dovrebbe partire da qui, crediamo, e cercare di rendere il diritto ad un reddito minimo davvero un fundamental right esigibile in tutti gli Stati, con caratteristiche unitarie ( coerenti con la Carta e con le due Risoluzioni del Parlamento europeo del 2009 e del 2010) e finanziato- il più possibile- con risorse dell’Unione.

Proprio in ambito europeo, però, nell’ultimo periodo sono state avanzate proposte più radicali, che hanno trovato una certa attenzione ( se non altro nelle Università) nel Nord Europa ( Belgio, Olanda i paesi scandinavi, Austria etc. ) che forme di reddito minimo piuttosto generose e promozionali le capabilities dei destinatari le conoscono da tempo, anche grazie alla lungimiranza dei sindacati di quei paesi che hanno saputo fare della protezione “minima” di tutti i cittadini una loro primaria  rivendicazione.

Ci riferiamo in particolare alla proposta di un “eurodividend” di Philippe Van Parjis, allievo di John Rawls, e principale promotore della rete mondiale del Basic income earth network. La proposta (), già avanzata da alcuni studiosi all’inizio del nuovo millennio allorché sembrava che l’Europa si stesse incamminando verso una Unione politica dotata anche di una politica sociale comune, oltre che di un Governo dell’economia, mira a far diventare la questione del “reddito di base” un problema ed una responsabilità sovranazionale, imputandola così agli organi di Bruxelles e non agli Stati membri. L’idea è che, a partire dalla grande crisi di questi anni, l’Unione debba rilanciarsi come progetto politico incentrato sulla solidarietà civica, sulla cittadinanza sovranazionale, superando le tristi politiche dell’austerity e del contenimento dei bilanci attraverso la riduzione delle spese di welfare. Come simbolo di una nuova coesione paneuropea Van Parjis ripropone l’idea, già diffusa tra i federalisti francesi degli anni 30 e ripresa anche in un noto passaggio del Manifesto di Ventotene del 1941() di una garanzia di un minimo vitale che questa volta l’Unione prenderebbe in carico direttamente. Si potrebbe raggiungere questo risultato o attraverso una IVA europea o anche una tobin tax con una tassa su tutte le transazioni elettroniche e assorbendo i fondi della politica agricola comune: in tal modo si garantirebbe un reddito di base di circa 200 euro a tutti i cittadini europei incondizionato ed universale; quanto attualmente fanno gli Stati a tutolo di RMG si manterrebbe in favore dei soli bisognosi aggiungendosi allo zoccolo monetario dell’Unione (). L’effetto ridistributivo per i cittadini dei paesi più ricchi sarebbe modesto, ma sensibile per quelli più poveri, ad es. per la Romania raddoppierebbe il  livello del salario minimo. ().  Questa proposta, che certamente non è  nuova, ha anche avuto un tentativo di implementazione politica in quanto alcuni gruppi nazionali appartenente alla rete BIEN hanno lanciato una ICE ( iniziativa del cittadino europeo), cioè una raccolta di firme (almeno un milione in 7 Stati) per investire la Commissione europea di un problema, un nuovo meccanismo di partecipazione democratica introdotto dal Trattato di Lisbona. Una prima proposta che tendeva a far approvare una vera e propria direttiva per un reddito di base europeo spettante a tutti i cittadini ( e non- come per il RMG -a coloro che sono a rischio di esclusione sociale), è stata dichiarata inammissibile; su una seconda più sfumata che tendeva solo a approfondire la questione ed a promuovere qualche forma di sperimentazione si sono raccolte le firme che però si sono fermate a quota circa 250.000. Questo insuccesso (parziale, in quanto comunque è la seconda raccolta per numero di consensi da quando è stata introdotta l’ICE)  deve  comunque far riflettere. Nel saggio del 2012 l’Autore si mostra consapevole di quanto ardua sia l’impresa proposta, se non altro  dal punto di vista delle risorse visto che l’attuale bilancio dell’unione è ancora dell’1% e si mostra disponibile ad una gradualità di applicazione cominciando ad esempio per fasce d’età ( prima una garanzia vitale per  i bambini o per gli anziani, poi step by step per tutti). Tuttavia è facile osservare che la proposta è divisiva per uno schieramento della sinistra continentale e nell’ambito delle forze pro- labour molte delle quali non sono disposte ad accettare uno scollamento così radicale tra ragioni delle dignità delle persone e ragioni del lavoro ed indisponibili a tutelare anche chi è già ricco e probabilmente è diventato ancor più ricco negli anni di crisi come dimostrano i lavori di Thomas Picketty. Molte forze della sinistra europea vedono, a ragione, nel RMG anche uno strumento del “cittadino laborioso” (per dirla con Alain Supiot) che grazie a questa misura è protetto dalle oscillazioni economiche, può rifiutare lavori servili e sottopagati, può autodeterminarsi in qualche modo nel mercato del lavoro scegliendo il ” proprio” contributo alla società in cui vive. La fuga nel reddito universale in questo momento in cui la crisi ha accentuato le divisioni tra paesi ed i pericoli di social dumping tra Stati lascia inevasa proprio la questione che correttamente viene posta; e cioè la creazione di una protezione di base che eviti povertà ed esclusione sociale e che costituisca il presupposto reale di una cittadinanza europea. Van Parjis ha ragione nel denunciare la mancata “europeizzazione” del contrasto dell’esclusione sociale in una prospettiva di riequilibrio delle diseguaglianza ma questa fuga in avanti non è decisamente nell’agenda politica europea e nelle corde  di quelle forze che dovrebbero imporlo. Peraltro questa kehre presuppone una discussione su nuove forme di finanziamento pubblico diretto ( per somme davvero di notevole consistenza) delle istituzioni Ue ancora tutta da svolgere, posto che il bilancio dell’Unione è stato addirittura ridotto, anche se di poco. E’ invece più che mai necessario stabilizzare e rendere omogenee le varie esperienze continentali in modo ( questo è un altro aspetto su cui la visione di Van Parjis è condivisibile ) da renderle coerenti con la prospettiva della piena efficacia di un nuovo diritto sociale fondamentale, lo ius existentiae, che mira a realizzare le libertà delle persone, anche nel lavoro, e non ad impiegarle ad ogni costo anche in attività indecenti ( ed anche in genere del tutto inutili), pur di salvaguardare l’etica di un Lavoro fattosi sempre più raro. Servirebbe insomma una Direttiva che stabilizzi e renda obbligatorie per tutti gli Stati le best practises di quei paesi che in questi anni hanno fatto del RMG la leva di politiche di inclusione non mortificanti le aspettative delle persone, favorendo così i lavori più creativi, innovativi e gratificanti. In questa occasione si potrebbe anche studiare come l’Unione può anche contribuire con proprie risorse a finanziare in parte un reddito minimo veramente ” europeo” che dia piena applicazione alle Carte dei diritti europee (). Questo avverrebbe nell’interesse di tutti i member states e della cittadinanza continentale : eviterebbe forme di social dumping che rischiano di indebolire i sistemi più garantistici, impedirebbe- sotto l’incedere della crisi- che l’entità della prestazione sia continuamente rivista al ribasso ed infine che prevalgano le istanze di costrizione al lavoro ( workfare) su quelle di promozione della persona ( o se vogliamo del cosidetto capitale umano).

La situazione italiana

Quando nel 2012 il Bin Italia ed altre decine di associazioni della società civile decisero che era necessaria una iniziativa  politica “istituzionale ” per cercare di sbloccare la incancrenita situazione italiana si partì da un diverso presupposto e cioè dalla necessità di convogliare su un progetto realistico, ma con parametri ” europei”  chiari e limpidi,  capace di coinvolgere non solo quei gruppi che sul tema del reddito ( basterà pensare all’esperienza dei disubbidienti italiani o alle giornate di Genova) sono attestati da tempo, ma anche forze sindacali e politiche più legate alla difesa degli interessi della classe operaia tradizionale. Nacque così l’idea di una proposta di legge di iniziativa popolare che, peraltro, si ispirava anche all’esperienza delle legge della Regione Lazio “sul reddito minimo garantito” operativa per solo un anno  in quanto immediatamente de finanziata dalla nuova Giunta di centrodestra ( ma non abrogata). In estrema sintesi questa ipotesi su cui si sono raccolte poi le firme recepisce  quelli che sono gli orientamenti  sovranazionali sin dal 1992 (Delors prima dell’approvazione del Trattato di Maastricht volva far passare una Direttiva, ma si dovette accontentare di una semplice Raccomandazione): il reddito minimo spetta  solo a chi (sotto-occupato, disoccupato, soggetto che cerca occupazione etc.) versa in effettive condizioni di bisogno ( è a rischio di esclusione sociale), cioè può contare solo su di un reddito che è al di sotto del 60% del reddito mediano da lavoro dipendente ( con riferimento a ciascun paese) . Tenuto conto dei dati Istat è, in pratica per il caso italiano, al di sotto degli 8.000 euro lordi annuali; a tale persona in difficoltà spettano anche forme di tariffazione agevolata e di aiuto negli affitti. La prestazione è individuale e quindi valgono solo i redditi della persona, anche se per ragioni di equità quelli familiari possono essere presi in  considerazione se particolarmente elevati. La prestazione dura finché permane lo stato di bisogno ed è condizionato dal solo obbligo di accettare offerte di lavoro che, però, siano coerenti con il bagaglio professionale e con il curriculum di studio del soggetto.

In pratica i tre principi  seguiti nella proposta di legge popolare sono i seguenti: la sufficienza della prestazione che deve consentire ( art. 34 della Carta di Nizza) a tutti di condurre una vita libera e dignitosa; la ragionevole condizionatezza all’offerta di un lavoro “congruo” cioè non punitivo ed umiliante l’esperienza lavorativa della persona tenuto anche conto che il diritto internazionale, la Convenzione ILO per i trattamenti di disoccupazione applicabile per analogia, proibisce di subordinare la prestazione all’obbligo di accettazione di lavori che non siano coerenti con il bagaglio professionale del soggetto. Questo è un punto discriminante della proposta in quanto, sebbene ci si muova in una prospettiva realistica e di concreta fattibilità in un paese notoriamente molto colpito dalla crisi recente e quasi andato in default, si tratta pur sempre di disciplinare un diritto sociale fondamentale di matrice europea che, come ha affermato il Parlamento europeo con due Risoluzioni del 2009 e del 2010, non può essere collegato a condizioni che umiliano i beneficiari o finiscono con stigmatizzarli come nuova classe “pericolosa”. Si tratta in realtà non di rimediare ad un insuccesso delle persone che sono in difficoltà, ma a quello  di un sistema sociale che non riesce a generare sufficienti occasioni di lavoro (decente). Questa stessa considerazione vale per il terzo principio dell’individualità della prestazione essendo inconcepibile che si faccia riferimento ad un reddito familiare che lascia la componente incapiente del nucleo alla “carità familiare” ( la Carta di Nizza parla di ” ogni individuo”) .

Su questa base, capace di recepire sia gli orientamenti dell’Unione ( che anche a maggio 2014 ci ha invitato ad introdurre un RMG), sia lo stato dei bilancio pubblico (l’entità della prestazione è parametrata strettamente alla soglia di povertà), sia i rilievi che in genere le forze pro-labour (italiane) muovono a questo istituto, si è raccolto un ampio consenso che ha portato- dopo il deposito delle firme- a ben tre proposte di legge che, anche se in modo diverso, dialogano con la proposta popolare, da parte di Sel ( che ha presentato quella di iniziativa popolare), del Movimento  5 stelle ed anche di un gruppo di senatori del PD. Dopo una lunga attesa le tre proposte presentate sono all’esame della Commissione lavoro del Senato ove sono in corso le audizioni; ma importanti adesioni a questa prospettiva sono poi venute da parte della Fiom (che l’ha inserita tra i punti della piattaforma della coalizione sociale ) e di Libera che ha lanciato una campagna di raccolta firme ” per un reddito di dignità” per spingere all’approvazione di una legge che recepisca le proposte già presentate; la sinistra del Pd ha poi avanzato un suo ulteriore disegno  legislativo ().

Nel frattempo, però, è fiorita, soprattutto nell’area più strettamente governativa, una scomposta ridda di ipotesi che tradiscono radicalmente, ci pare, la ratio essendi di un RMG che voglia in Italia introdurre quella misura di sostegno che i cittadini degli altri paesi europei, nel loro complesso, hanno già da anni.  Si tratta in sostanza dell’emergere di proposte () che guardano più che altro ad un sussidio di povertà ( di sussistenza, non di esistenza), quindi con prestazioni del tutto inidonee a garantire per tutti un’esistenza libera e dignitosa, carate sulle famiglie  (il capo famiglia prende il sussidio e lo distribuisce generosamente tra gli altri componenti), fortemente condizionate ad obblighi di ogni tipo, spesso con l’intermediazione di quegli enti caritativi che già erano stati individuati dal Governo Berlusconi come effettivi destinatari della social card  ( che dovrebbero graziosamente poi elargire a chi vogliono, in pratica dopo la Messa). Si tratta di visioni parrocchiali, vendicative e neoautoritarie che vedono nel sussidiato un “marginale” sradicato da controllare e da stigmatizzare secondo una concezione eticista della solidarietà di base del tutto incompatibile con la logica della costituzionalizzazione di un diritto fondamentale all’inclusione sociale realizzata con la Carta di Nizza e già esperienza istituzionale potente in quasi tutta Europa, a cominciare dia paesi leader come la Germania e la Francia (). A ciò si aggiungono le continue esternazioni del Ministro del lavoro su un reddito minimo “a chi ha perso il lavoro”, un reddito di sei mesi ai disoccupati, ma con patto di attività di un anno e mezzo e via dicendo e del Presidente dell’INPS sul reddito minimo ai cinquantenni, che proprio dimostrano l’incapacità di cogliere il senso di quella riforma “di civiltà” che si sta chiedendo di compiere, in grado di avvicinare l’Italia al resto dell’Europa civile. L’esperienza molto controversa degli 80 euro dimostra che risorse per operazioni di garanzia dei bisogni ” vitali ” c’erano, posto che con poche aggiunte ai 10 miliardi spesi si sarebbe ben  potuto finanziare un RMG come quello sin qui descritto, posto che una legge di riordino avrebbe anche razionalizzato le mille forme poco trasparenti con cui si spende per soccorrere i poveri ( tre forme di social card, una pletora di misure provinciali, regionali comunali ed anche statali mai esaurientemente censita)  portando  così anche a consistenti risparmi ed ad una moralizzazione del sistema assistenziale sin qui dominato da lobbies confessionali o da clientele politiche. Un RMG o è, anche dal punto di vista dei costi, decisamente  in agenda. Sarebbe vano anche per il Governo inseguire le forze clericali e parrocchiali in indecorose soluzioni: la richiesta di dignità “di base” per tutti  è ormai generalizzata e fortissima ed i tabù italiani  sul ” chi non lavora non mangerà”si sono, ormai infranti per sempre.

Giuseppe Bronzini

 


In 12 città soprattutto del Sud è iniziata con il Governo Letta una sperimentazione della Sia ( strumento di inclusione attiva) con fondi molto limitati e criteri di acceso estremamente selettivi e su base familiare ( non conta il reddito della persona, ma quello del suo nucleo familiare). La Sia comunque mira non a ripristinare un livello di reddito compatibile con una esistenza libera e dignitosa, ma solo ad attenuare le situazioni di povertà estrema. Nel decreto di riordino degli ammortizzatori sociali inoltre è stata prevista, in via sperimentale una misura ( a carattere non contributivo, l’Asdi) sino a sei mesi spettante a chi ha perso il posto di lavoro e, dopo aver percepito l’indennità di disoccupazione, non è ancora occupato. Siamo molto, molto lontani da un reddito minimo garantito.

C. Saraceno, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Feltrinelli, 2015. Cfr. la recensione sul manifesto del 4 Maggio di G. Allegri, Il diritto ad una esistenza liberà e dignitosa nella fine della società salariale.

Ricordiamo l’art. 29 della Carta di Nizza consacra come fundamental right di matrice sovranazionale quello   “di accedere ad un servizio di collocamento gratuito”  ritenuto nei Documenti della Commissione europea uno dei  pilastri della flexicurity.

M. Wolf,  È l’era della grande stagnazione? Ecco perché l’economia globale non brillerà più, in  Il Sole 24 Ore, 15

G. Standing, Diventare cittadini. Un manifesto per il precariato,  Feltrinelli, 2014

Maurizio Ferrera, Riscoprire la cultura del lavoro, Corriere della sera 16.2.2015

  Cfr. J. Lanchester, Il capitalismo dei robot, in Internazionale ( London review of Books) , 2.4.2015; Essere umani con i robot, Aspenia n.- 68/2015; A. Keen, Internet non è la risposta, Egea, 2015

Cfr. P. Van Parjis , Un’Europa sociale dal basso, in Italiani ed europei n. 2/2012. L’articolo è uscito anche nel sito della socialdemocrazia europea www.socialeurope.org. Per il dibattito dei inizio millennio: Scharpf, Fritz, Basic Income and Social Europe, in Basic Income on the Agenda, R.J. van der Veen & L. Groot eds., Amsterdam, 2000; Schmitter, Philippe & Bauer, Michael W. , A (modest) proposal for expanding social citizenship in the European Union,  in Journal of European Social Policy n. 11/2001 , Van Parijs, Philippe.,  Basic Income at the Heart of Social Europe? Reply to Fritz Scharpf , in Basic Income on the Agenda, R.J. van der Veen & L. Groot eds., cit.,  Van Parijs, Philippe & Vanderborght, Yannick, From Euro-stipendium to Euro-dividend , in Journal of European Social Policy n. 11/2001

Cfr. G. Allegri, G. Bronzini, Il Manifesto di Ventotene. Un’introduzione a settant’anni dall’edizione del 1944, in a cura di G. Allegri e G. Bronzini, Ventotene. Un Manifesto per il futuro, Manifestolibri 2014

Cfr. Philippe Van Parjis e il nuovo universalismo europeo, intervista a cura di R. Ciccarelli, in Il manifesto del 26.4.2014

Nel Febbraio di quest’anno Guy Standing, sempre sulle pagine di www.socialeurope.eu ha sottolineato come il QE della Bce aiuti in sostanza solo le banche e che, quindi, potrebbe risultare inadeguato a rilanciare i consumi ed a combattere le ineguaglianze; meglio sarebbe se una creazione ex nihilo di denaro fosse destinata a garantire un reddito di base, per lo meno nei paesi più poveri dell’Unione. Cfr. Guy Standing, Basic income pilots: a better option than Qe, in http://www.socialeurope.eu/2015/02/basic-income-pilots-better-option-qe/

Sui modelli europei di reddito minimo cfr. Bin Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile,  Edizioni gruppo Abele, 2012; per le proposte in Italia ed in Europa  rispettivamente  di una legge e di una direttiva rinvio a G. Bronzini, Il reddito minimo garantito nell’Unione europea: dalla Carta di Nizza alle politiche di attuazione, in DLRI, n.2/2011; G. Bronzini, Reddito di cittadinanza, una proposta per l’Italia e per l’Europa, edizione gruppo Abele, 2011; G. Bronzini, Il  reddito di cittadinanza tra aspetti definitori ed esperienze applicative, in RSSS, n. 1/2014; S. Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa, I modelli sociali europei nello spazio giuridico europeo, il Mulino, 2012

Cfr. il Documento del Bin Italia depositato in Senato durante l’audizione presso la Commissione al lavoro: https://www.bin-italia.org/pdf/3nota%20audizione.pdf

Ci riferiamo in primis alla proposta da parte dell’Alleanza contro la povertà patrocinata dalla Caritats e dalla Acli alla quale incredibilmente aderiscono anche CGIL, CISL e UIL di Reiss ( reddito di inclusione sociale).

Va segnalato che finalmente  alcuni costituzionalisti italiani come Gaetano Azzariti e Chiara Tripolina affermano che anche alla luce della  nostra Costituzione un RMG è non solo ammissibile, ma anche necessario. Cfr.

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