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Il Decreto legge lavoro alla prova  delle indicazioni europee. Esclusioni irragionevoli e offerte di lavoro “indecenti”

di Giuseppe Bronzini

 

1. Il 5 maggio, dopo molte indiscrezioni della stampa e bozze provvisorie, è stato pubblicato il decreto “lavoro”, un testo che prevede, nel consueto coacervo di norme tra loro enormemente distanti e di competenza di  diversi Ministeri (ma il Presidente e della Repubblica non aveva invitato solennemente ad attenersi allo spirito ed alla lettera della Costituzione?) “misure urgenti per l’inclusione sociale e per l’accesso al mondo del lavoro”, cioè la controriforma dell’istituto del reddito di cittadinanza (RDC) già abrogato con la legge di bilancio. Si tratta di una necessità ed urgenza auto-provocata dal Governo che avrebbe potuto avanzare le sue proposte nel momento in cui aveva ritenuto di cancellare il RDC (la legge di bilancio peraltro appare la sede più appropriata per una revisione di misure di welfare così importanti) e che certamente non offre copertura alle diposizioni che rimettono in discussione la governance della Rai o di altri enti pubblici, il trattamento degli ex lettori di lingua universitari o l’istituzione di un Fondo per le attività socio-educative per i minori etc.

Concentreremo la nostra attenzione sulla creazione di due nuove misure (la terza che riguarda i percettori del RDC che rimarrebbero-potendo lavorare- senza tutela da luglio in poi appare meno rilevante) che decolleranno dal 1.1.2024 denominate rispettivamente assegno di inclusione e supporto per la formazione e il lavoro perché ci sembra che l’opera di contrasto alla povertà ed al rischio di esclusione sociale messa in campo con queste due misure non sia coerente né con le varie Raccomandazioni emanate nel tempo dal Consiglio in questa materia, né con l’art. 34 terzo comma della Carta dei diritti (e gli artt. 30 e 31 della Carta sociale europea), né infine con gli obiettivi strategici per il 2030 dell’UE che prevedono una riduzione del numero di poveri di almeno 15 milioni. Non a caso, nelle scarne premesse del decreto, non si rinviene alcun richiamo alle indicazioni sovranazionali ed al Bill of rights UE che invece erano ben individuate nelle premesse del RDC.

Cominciamo dalla prima misura che è quella “ base”: l’assegno  di inserimento dell’importo di 500 euro mensili (più eventualmente un contributo per l’affitto di 280 euro) incrementato secondo una scala di equivalenza parametrata al numero ed alle qualità degli appartenenti al nucleo familiare ripercorre lo schema del RDC anche se, in generale, riduce piuttosto energicamente l’effetto della scala di equivalenza con qualche vantaggio per i disabili. I requisiti (non oltre 9.360 ISEE, un reddito familiare di non oltre 6.000 complessivi annui, un patrimonio mobiliare non superiore ai 6.000 euro aumentato in relazione al numero dei componenti, un patrimonio immobiliare di valore non superiore ai 30.000 euro per le seconde case cui viene aggiunto il valore della casa di residenza ove superi i 150.000 euro) sono, salvo l’aggressione al principio, prima seguito per il RDC, della irrilevanza della casa di proprietà ove si abita, simili a quelli del RDC. Simile al RDC è la duplice strada indicata ai beneficiari della messa a disposizione dei servizi sociali per patti per l’inclusione oppure – se possono lavorare – dell’avviamento ai centri per l’impiego (per i quali non è previsto alcun rafforzamento) per la sottoscrizione di un progetto personalizzato di attivazione lavorativa o formativa([1]).

La novità devastante concerne, però, che questo schema di protezione non riguarda tutte le famiglie che sono in stato di povertà e che soddisfano gli arcigni criteri selettivi  prima ricordati  ma solo quelle che hanno nel loro nucleo  un minore o un anziano o un disabile: è questa drastica selettività che porterà ad un allarmante ridimensionamento della garanzia dei mezzi elementari di vita escludendo, da quel che dicono le prime simulazioni giornalistiche, centinaia di migliaia di beneficiari del RDC.

Ha recentemente scritto sulla rivista online lavoceinfo Cristiano Gori, ascoltato studioso delle misure contro la povertà, ispiratore del REI, che pur sembra  condividere dell’istituto europeo del reddito minimo garantito una versione molto austera ([2]): “la riforma del reddito di cittadinanza abolisce il diritto di ogni cittadino – quale che siano la sua età, la condizione lavorativa o altro – a una vita minimamente decente. Questo diritto viene assicurato da tutti i paesi europei e l’Italia diventa l’unico a non prevederlo più. Difficile sottovalutare la portata storica di una simile scelta”. Sono affermazioni  che condividiamo in pieno: l’Italia non solo è stato l’ultimo paese a dotarsi, seguendo le indicazioni dell’Unione europea (e della sua Carta dei diritti all’art. 34.3.), di un sistema nazionale di contrasto al rischio di esclusione sociale onde garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa. Ma è anche lo stato membro che per primo è uscito dalla legalità sovranazionale contravvenendo non solo allo spirito ed alla lettera del suo Bill of rights dell’Unione (ribaditi all’art. 14 dell’European social Pillar) ma persino ad una recente Raccomandazione del Consiglio del 30.1.2023 a favore della quale l’attuale Governo ha votato. Famiglie che potrebbero avere un reddito familiare addirittura al di sotto dei 6000 euro annui o un ISEE ben inferiore ai 9.360 sono escluse per la mancanza di persone nel loro ambito che il legislatore ha ritenuto “meritevoli” di soccorso, anche se nessuno in famiglia è in grado di lavorare: lo stesso Gori parla di un “passaggio storico”, una regressione morale, culturale e sociale del nostro paese in presenza di persistenti dati allarmanti sul dilagante fenomeno del rischio di esclusione sociale che arriverebbe a coinvolgere circa il 19% per cento della popolazione residente che viene affrontato con mezzi che, per definizione, non riescono a coprire interamente  neppure la quota di povertà estrema in base ad una classificazione dei “meritevoli” irragionevole ed eccentrica rispetto agli impegni “europei” di ridurre in modo consistente e progressivo la mala pianta dell’esclusione sociale dai territori dell’Unione. Viene peraltro ribadito l’odioso, duplice, trattamento discriminatorio riservato ai migranti extracomunitari attribuendo il decreto governativo l’accesso alle prestazioni di sostegno al reddito ai soli titolari di un permesso di lungo soggiorno ma non a quelli di un regolare permesso di lavoro cui si aggiunge l’ulteriore elemento di discriminazione indiretta (che colpisce anche gli stessi cittadini dell’Unione) nel richiedere una residenza abnorme di cinque anni nel nostro paese (di cui gli ultimi due continuativi) che, pur più bassa dei precedenti dieci anni, non appare in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia che ritiene ammissibili solo termini molto più brevi. Tali forme di discriminazione sono peraltro in contraddizione con la recente disciplina degli assegni familiari al quale sono stati ammessi sia i titolari di permesso di soggiorno per lavoro con un  requisito di residenza più in linea con quanto ritenuto ammissibile dalla Corte dell’Unione. Questa scelta discriminatoria (che certamente connotava anche il RDC) appare oggi incredibile perché la Commissione europea ha già  messo in mora l’Italia, in sostanza compiendo il prima atto necessario ad avviare una procedura di infrazione, proprio per il trattamento riservato ai migranti (comunitari ed extracomunitari) dalle precedenti forme di contrasto della povertà (Rei e RDC); si tratta quindi una aperta ribellione contro le indicazioni sovranazionali, persino dopo che la Commissione sul punto si è chiaramente espressa.

2. A questa prima prestazione se ne aggiunge un’altra denominata supporto per la formazione ed il lavoro che spetta ai soggetti(tra i 18 ed i 59 anni) che possono lavorare ma appartenenti a nuclei familiari che hanno un ISEE al di sotto dei 6000 euro annui (nelle bozze del DL si leggeva anche “in povertà assoluta) che godono di 350 euro, non integrabili in ragione del numero di persone che appartengono al nucleo né con contributi per l’affitto e, soprattutto, per soli 12 mesi non rinnovabili, contravvenendo così alle varie  Raccomandazioni sul reddito minimo dell’UE che stabiliscono che tutte le prestazioni di contrasto della povertà durino sino a che permane la situazione di bisogno. I percettori sono obbligati a seguire corsi di formazione, ad accettare le offerte di lavoro proposte ma anche a partecipare a progetti utili alla collettività (torna così lo spettro dei lavori socialmente utili che la Corte di giustizia ed anche quella di cassazione sulla scia della prima  ha ritenuto in linea generale forme truffaldine di mascheramento di un lavoro routinario sottopagato). L’ISEE cosi straordinariamente basso,non integrabile a certe condizioni verso una soglia più alta, l’entità del supporto e la durata della prestazione escludono in pratica che questo sussidio possa aiutare anche i cosiddetti working- poor, come faceva il RDC che consentiva di incrementare il salario percepito con un lavoro sino alla soglia minima di sussistenza.

3. Comunque è sulle persone che possono lavorare che si scatena la volontà punitiva del legislatore (certamente non molto compassionevole) che aggredisce con determinazione il principio di “congruità” nell’offerta di lavoro (nelle sue varie  componenti) che strutturava il sistema del RDC. Se effettivamente il RDC rispondeva a criteri di universalismo selettivo (rivolto solo a chi si trovava in grave difficoltà) ed era  condizionato all’accettazione di proposte di lavoro va rimarcato che doveva trattarsi di un lavoro “decente” secondo criteri di equità (anche riguardo alla sua praticabilità) e di riguardo alle competenze ed all’esperienza delle persone. Nel RDC il soggetto era costretto ad accettare solo la terza proposta di lavoro, l’occupazione doveva trovarsi ad una distanza ragionevole dal luogo di residenza, il trattamento economico era quello contrattuale ma aveva necessariamente una durata minima (almeno sei mesi a tempo determinato o a tempo indeterminato) e, soprattutto l’offerta doveva rispettare l’insieme di competenze formali ed informali del soggetto in modo da non dequalificarlo e di offrire alla persone una vera  chance di valorizzazione individuale minimamente coerente con i percorsi già intrapresi.   Scopriamo invece nel DL (art. 9)  che l’offerta  può anche essere a termine, anche in somministrazione e part-time (di almeno il 60% dell’orario pieno), ma la norma non fissa alcun limite minimo e quindi il rapporto può essere anche di un giorno con una distanza sino a 80 km dalla residenza (se è tempo indeterminato in tutto il territorio nazionale). Per dare un’idea dell’inaudita violenza, anche morale,che si eserciterà sul soggetto che riceverà  una delle due prestazioni previste possiamo fare una simulazione: questi potrebbe essere costretto a recarsi per un giorno sino ad 80 KM da casa per un contratto part-time che, considerato che in alcuni settori il salario minimo è di circa 4 euro, comporterebbe un compenso di  meno di 20 euro giornaliere, a pena  di perdere il sussidio (che decade al primo rifiuto). Una violenza mortificante estrema nei confronti dei più deboli e degli esclusi per colpa di una società che non ha trovato sufficienti occasioni di lavoro “decente” e che oggi si vendica nei confronti  delle vittime giudicate colpevoli dei  tragici insuccessi di un sistema produttivo. E’ difficile oggi comprendere a pieno ed in concreto i meccanismi di irreggimentazione e di costrizione ai “lavoretti” che verranno dispiegati per accompagnare le persone sussidiate perché mancano ancora decine di decreti ministeriali che dovrebbero essere adottati in pochi mesi, a cominciare da una schedatura di massa di poveri che ricorda quella britannica dell’Universal credit, che hanno attirato l’attenzione della Corte di Strasburgo per violazione della privacy. Il principio di “ congruità sostanziale” dell’offerta di lavoro che vale in linea generale anche per i cassa integrati o i percettori di Naspi  è attenuato (art. 5) da una previsione che riguarda beneficiari dell’assegno di inclusione relativa all’istituzione di una piattaforma digitale che “agevola la ricerca di lavoro, l’individuazione di attività di formazione e rafforzamento delle competenze tenendo conto da una parte delle esperienze educative e formative e delle competenze pregresse del beneficiario, dall’altra della disponibilità di offerte di lavoro, di corsi di formazione  di progetti utili alla collettività”. Manca una tassativa indicazione che le offerte dovrebbero rispettare in modo vincolante le competenze acquisite in quanto le dequalificazioni sono una forma di attentato alla dignità essenziale delle persone; la norma sembrerebbe solo un vago  orientamento per i progettatori di questa piattaforma, non una chiara prescrizione per chi poi decide quale lavoro affidare. Questa ambigua direttiva non opera per i percettori del “supporto” che invece rimangano in balia dei decisori amministratori che gestiscono quello che devono fare. Ma, anche a voler ipotizzare che il principio di congruità sostanziale sia in qualche modo penetrato nel DL, per lavori che presuppongono  un minimo di qualificazione e di addestramento l’assunzione per un giorno o pochi mesi difficilmente può avere un valore di capacitazione reale e con effetti duraturi del soggetto, mancando il tempo materiale per l’inserimento nel processo produttivo (non sembra un caso che il Ministero dell’Agricoltura ha parlato di raccolte di ortaggi nelle campagne). I soggetti in carico ben difficilmente potranno rifiutare offerte di lavoro di durata così esigua perché potrebbero perdere il sussidio dovendo dimostrare (davanti a chi: il giudice del lavoro?) che non sono coerenti con il loro bagaglio professionale e le loro competenze. La proclamata attivazione delle persone si converte così in un drammatico spreco di risorse umane, di dequalificazione forzata, che impoverisce la società e mortifica le persone. Infine la perdita totale del sussidio in caso di rifiuto anche di una sola proposta ci sembra sia in rotta di collisione con la finalità anche “alimentari“ e di emergenza umanitaria di un reddito minimo([3]): il Tribunale costituzionale tedesco, ad esempio, ha recentemente affermato che se il soggetto assistito contravviene agli obblighi previsti non può essere annullata la quota del RMG che  consente l’accesso ai beni primari e cosi operano le best practises dei paesi europei più progrediti socialmente.

4. Si ricorda conclusivamente quanto stabilito il 30 gennaio nella Raccomandazione del Consiglio del 30.1.2023 che anche l’Italia ha votato (che si aggiunge a quanto già precisato in quella del 1992 e del 2008 il cui contenuto è rimasto in vigore):

“Si raccomanda agli Stati membri di fornire e, ove necessario, rafforzare solide reti di sicurezza sociale che garantiscano una vita dignitosa in tutte le fasi della vita, combinando un adeguato sostegno al reddito, mediante prestazioni di reddito minimo e altre prestazioni di accompagnamento monetarie e in natura, e fornendo un accesso effettivo ai servizi abilitanti ed essenziali. L’erogazione di prestazioni in natura può coadiuvare un solido sostegno al reddito. … Al fine di garantire un adeguato sostegno al reddito, si raccomanda agli Stati membri di fissare il livello del reddito minimo mediante una metodologia trasparente e solida definita conformemente al diritto nazionale e coinvolgendo i pertinenti portatori di interessi. Si raccomanda che tale metodologia tenga conto delle fonti di reddito complessive, delle esigenze specifiche e delle situazioni di svantaggio delle famiglie, del reddito di un lavoratore a basso salario o di un lavoratore che percepisce il salario minimo, del tenore di vita e del potere d’acquisto, dei livelli dei prezzi e del relativo andamento, nonché di altri elementi pertinenti. …Pur salvaguardando gli incentivi alla (re)integrazione e alla permanenza nel mercato del lavoro per chi può lavorare, si raccomanda che il sostegno al reddito delle persone che non dispongono di risorse sufficienti raggiunga un livello almeno equivalente a uno degli elementi seguenti: a) la soglia nazionale di rischio di povertà; oppure b) il valore monetario dei beni e dei servizi necessari, tra cui un’alimentazione adeguata, l’alloggio, l’assistenza sanitaria e i servizi essenziali, secondo le definizioni nazionali; oppure c) altri livelli comparabili ai livelli di cui alla lettera a) o b), stabiliti dalla legge o dalla prassi nazionale.

Si raccomanda agli Stati membri di garantire che tutte le persone che non dispongono di risorse sufficienti, compresi i giovani adulti, siano coperte da un reddito minimo stabilito per legge, definendo: a) criteri di ammissibilità trasparenti e non discriminatori che salvaguardino l’accesso effettivo al reddito minimo a prescindere dalla disponibilità di un indirizzo permanente, assicurando nel contempo che la durata del soggiorno legale sia proporzionata; b) soglie per l’accertamento delle fonti di reddito stabilite in base al tenore di vita di famiglie di diverso tipo e di diverse dimensioni in un determinato Stato membro e che tengano conto in modo proporzionato degli altri tipi di redditi (e patrimoni) del nucleo familiare; c) il tempo necessario per trattare la domanda, garantendo nel contempo che la decisione sia emessa senza inutili ritardi e nella pratica non oltre 30 giorni dalla presentazione della domanda stessa; d) la continuità dell’accesso al reddito minimo fintanto che le persone che non dispongono di risorse sufficienti soddisfano i criteri e le condizioni di ammissibilità stabiliti dalla legge, prevedendo nel contempo riesami periodici dell’ammissibilità e garantendo l’accesso a misure specifiche e proporzionate di inclusione attiva per le persone in grado di lavorare; e) procedure di reclamo e di ricorso semplici, rapide, imparziali e gratuite, garantendo nel contempo che le persone che non dispongono di risorse sufficienti ne siano a conoscenza e abbiano un accesso effettivo a tali procedure; f) misure volte a garantire che le reti di sicurezza sociale rispondano a vari tipi di crisi e siano in grado di attenuare efficacemente le conseguenze socioeconomiche negative di tali crisi.

Si raccomanda agli Stati membri di incoraggiare o agevolare il pieno utilizzo del reddito minimo: a) riducendo gli oneri amministrativi, anche mediante la semplificazione delle procedure di domanda e la fornitura di indicazioni passo per passo a coloro che ne hanno bisogno, prestando nel contempo attenzione alla disponibilità di strumenti digitali e non digitali; b) garantendo l’accesso a informazioni facilmente fruibili, gratuite e aggiornate sui diritti e sugli obblighi connessi al reddito minimo; c) rivolgendosi alle persone che non dispongono di risorse sufficienti per sensibilizzarle e agevolare l’utilizzo del reddito minimo, in particolare tra le famiglie monoparentali, anche attraverso il coinvolgimento dei pertinenti portatori di interessi a livello nazionale, regionale e locale; d) adottando misure per combattere la stigmatizzazione e i pregiudizi inconsci legati alla povertà e all’esclusione sociale; e) adottando misure per migliorare o sviluppare metodologie di valutazione e valutando periodicamente il mancato utilizzo del reddito minimo in base a tali metodologie e, se del caso, le relative misure di attivazione del mercato del lavoro, individuando gli ostacoli e mettendo in atto misure correttive “.

A mi sembra che le misure introdotte che ridurranno di centinaia di migliaia (secondo le prime valutazioni) di persone la platea dei beneficiari di un sostegno contro la povertà (impedendo in modo discriminatorio l’accesso ai migranti anche comunitari) e che introducono sistemi di avvio coercitivo al lavoro  precario  e dequalificato siano non rispettosi della Raccomandazione sotto molteplici aspetti prima indicati.

Nella sua originaria proposta di Raccomandazione la Commissione aveva ricordato che

The European Semester process of economic and employment policy coordination has highlighted structural challenges related to minimum income schemes and related elements such as social inclusion and labour market activation, with a number of Member States receiving related country specific recommendations. The revised social scoreboard20 tracks performance and trends in the Member States, enabling the Commission to monitor progress in addressing the country-specific recommendations. The 2022 guidelines for the employment policies of the Member States state that social protection systems should ensure adequate minimum income benefits for everyone lacking sufficient resources and promote social inclusion by encouraging people to actively participate in the labour market and society, including through targeted provision of social services. For strengthening analytical work, a benchmarking framework was agreed in the Social Protection Committee and its results have been reflected in the Joint Employment Report, country reports and country-specific recommendations”.

La Commissione ha in sostanza avvertito gli stati che gode già di efficaci poteri di sorveglianza macro-economica nell’ambito del semestre europeo come si è visto anche negli ultimi anni nei quali le Raccomandazioni specifiche all’Italia stigmatizzavano sino al 2019 l’insufficienza delle nostre politiche di contrasto alla povertà e l’eccessivo e preoccupante  numero di persone a rischio di esclusone sociale. Nella Raccomandazione del 2021 all’Italia (nel semestre europeo) la Commissione lodava l’estensione del RDC attraverso il reddito di emergenza ma si preoccupava per il fatto che fosse a tempo, chiedendo in sostanza che si migliorassero le politiche già introdotte. Sappiamo tutti che cosa significa resistere alla Commissione nel semestre europeo: studiosi ed esperti hanno già osservato che una grave inadempienza in questo settore, che l’Unione considera strategico perché cartina di tornasole della sostenibilità sociale del modello economico europeo, potrebbe anche comportare l’esclusione dai fondi sociali. Non vorremmo che per risparmiare tra i due ed i tre miliardi a spese degli ultimi l’Italia corresse il rischio di perderne decine.

Giuseppe Bronzini

Segretario generale Movimento europeo

 

[1] Molto opinabile è  però l’ esclusione dall’assegno dei soggetti che hanno ricevuto una condanna ad almeno un anno di reclusione, anche convertito in una multa (mentre per il RDC erano esclusi solo coloro che si erano macchiati di gravissimi reati contro la personalità dello stato o di natura associativa) che difetta di razionalità (in genere i paesi membri dell’Unione non hanno forme di sanzione indiretta degli illeciti  di reati non straordinariamente gravi e molto diffusi) portando questi soggetti in una situazione di disperazione che può indurli alla recidiva e di senso di equità perché ricomprende anche ipotesi di reati di minima entità.

[2] Cfr. anche E. Granaglia “ Lavoro e sostegno ai poveri: alcune tensioni trascurate”, in Etica e economia

[3] Il DL sembra anche in contraddizione con la Convenzione OIL sull’indennità di disoccupazione (ratificata dall’Italia) in ordine al legittimo rifiuto di offerte di lavoro da parte del beneficiario (ad esempio in territori ove è difficile trovare un alloggio etc.) che dovrebbero quanto indirizzare anche le prescrizioni sul dovere di accettare occasioni di occupazione per soggetti esclusi incolpevolmente dal mercato del lavoro o sottopagati al punto da non raggiungere la soglia vitale.

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