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I morti non necessitano cure

di Francesco Matera

Oggi il lavoro è la porta attraverso la quale è possibile accedere al mondo dei diritti e alle prestazioni dello stato sociale. Le macrotendenze storiche dei sistemi economici avanzati dimostrano però che mentre la quantità di ricchezza prodotta cresce, l’occupazione precipita drammaticamente, in modo strutturale ed incontrovertibile. Ciò significa che la quantità dei salari pagati, cioè la remunerazione che la produzione assegna al fattore lavoro, è progressivamente sempre minore. La società fondata sulla centralità del lavoro sta pertanto morendo, gli ultimi sparuti granelli si stanno sgretolando definitivamente. Ormai è una questione aritmetica: i posti oggi “creati” non sono sufficienti a colmare quanti ieri sono stati persi, e domani, saranno inesorabilmente distrutti. La grande partita da giocare allora non è la creazione di nuovi posti di lavoro, ma la messa a sistema di una nuova centralità su cui edificare gli elementi dell’appartenenza sociale. Continuare invece secondo questa miope visione equivale a somministrare farmaci ad un paziente ormai morto da tempo. 

 

 

Voci inascoltate

Dietro la loro apparente cinica freddezza, si odono voci. Alcune volte in modo forte e chiaro, altre volte in modo flebile, in altre ancora occorre mettere insieme tutti gli indizi che con il tempo ci inviano. I numeri. I numeri hanno una voce, parlano. Parlano in continuazione, facendosi prestare di volta in volta le labbra da qualcuno.

Qualche giorno fa, per bocca dell’Istat, il messaggio giunto è stato sostanzialmente il seguente: la disoccupazione, rispetto al solo mese precedente, è aumenta di ben 20 mila unità, cioè dello 0,9%, raggiungendo l’incredibile livello di 2.243 mila unità. Il tasso di disoccupazione, attestatosi all’8,9%, fa registrare anch’esso un incremento dello 0,8% rispetto all’anno precedente e dello 0,1% sul mese precedente. Se invece il perimetro dell’osservazione viene circoscritto all’ambiente giovanile, cioè limitandosi alla popolazione tra i 15 e i 24 anni, il valore percentuale tocca la drammatica quota del 31%, ovvero una persona su tre.

Quale è, in questo caso, il messaggio? Occorre mettersi in ascolto per captarlo, aggregarlo con gli altri segnali passati, osservare bene il contesto che lo ha generato; consapevoli purtroppo che, come ben riferisce un noto detto, non c’è peggior sordo di colui che non vuole sentire.

I progressi dell’esperienza umana come beni comuni

Credo che per decifrare questo ennesimo segnale si debba necessariamente cominciare con due dati incontrovertibili che descrivono in modo sufficientemente chiaro le macro-tendenze storiche dei nostri sistemi economici avanzati: la quantità di ricchezza prodotta, oggi imprigionata nel concetto di Pil, segue un trend di costante crescita e, altrettanto velocemente, si registra l’inesorabile crescita dei tassi di disoccupazione. Tradotto: la quantità dei salari pagati, cioè la remunerazione assegnata dalla produzione al fattore lavoro, diminuisce; mentre la fetta distribuita al capitale, che per l’aumento della produttività è impiegato in misura minore nella produzione e pertanto più libero di dedicarsi alle scorribande finanziarie e valutarie o alle razzie di Paesi con bassi tassi di salario e quasi inesistenti diritti dei lavoratori; è sempre più grande.

Ciò, a parere mio, certifica tragicamente che i benefici dei progressi scientifici e tecnologici; che, occorre ribadirlo con forza, soprattutto a sinistra, sono un patrimonio comune dell’intera esperienza umana e quindi rappresentano patrimonio collettivo, cioè beni comuni; i quali hanno permesso la progressiva crescita della produttività, non sono stati equamente redistribuiti tra i diversi fattori della produzione.

Non occorre essere raffinati economisti per capire che, se i saggi di profitti sono aumentati e la quantità dei salari pagati è diminuita, la gran parte di quel beneficio è stata assegnata al capitale a danno del lavoro. Considerando inoltre che il tempo di lavoro di un singolo lavoratore che ha conservato l’occupazione non è diminuito e quello di un altro lavoratore, disoccupato, si è azzerato, bisogna ulteriormente concludere che i pochi benefici ricevuti dal fattore lavoro non sono stati equamente redistribuiti nemmeno al suo interno, creando delle profonde discriminazioni che non fanno altro che fomentare la cosiddetta “guerra tra poveri”. Da un lato si è sostanzialmente pianificata una deleteria “disoccupazione verticale”, trasformando il posto di lavoro in un privilegio o in una concessione padronale; dall’altro si è eliminata alla radice la possibilità di una “disoccupazione orizzontale” che può essere, io credo, a determinate condizioni, molto positiva. In secondo luogo, occupandosi esclusivamente di una dimensione dell’attività lavorativa – la qualità in senso stretto – si è completamente abbandonata quella legata alla dinamica temporale. Il tempo del lavoro, cioè la dotazione temporale oggetto di scambio e compravendita, anche a causa delle recenti manovre sulle pensioni, è diventato sempre più il protagonista del tempo totale della vita, quello socialmente dominante, comprimendo inevitabilmente il tempo non asservito e non mercificato da utilizzare in modo libero.

Pertanto, giunti a questo stato, io credo che non si può più  prescindere dalla totale condivisione, e quindi da una massiccia redistribuzione, delle conquiste umane che devono altresì concretizzarsi in una redistribuzione e condivisione dei tempi di lavoro in grado di innescare una generalizzata liberazione di tempo che, ove utilizzata per incrementare ed invogliare alla partecipazione politica e sociale, per lo svolgimento di attività non alienate che siano gratificanti in sé e che contribuiscono all’autodeterminazione dell’individuo, si traduce inevitabilmente in una crescente qualità della vita.

La creazione di posti di lavoro: un precario tranello “scaduto”

La lettura qui proposta, vista da una diversa angolazione, consente di giungere ad un’altra osservazione: se nelle economie progredite l’analisi degli indici di disoccupazione dimostra che essa è in continua ascesa, una elementare comparazione mi porta a dedurre che, aggregando tutti i periodi di osservazione, le perdite di posti di lavoro sono maggiori rispetto all’occupazione di nuovi e quindi, quelli persi nelle fasi di congiuntura economica negativa – ad esempio quella che stiamo vivendo ora – mai verranno rimpiazzati, se non in modo parziale, dalle successive fasi di espansione economica – cioè il probabile futuro che ci attende. Per proprietà transitiva, a questa considerazione ne consegue necessariamente un’altra: i sistemi economici a capitalismo avanzato divorano posti di lavoro. E questa tendenza, certificata quotidianamente dai dati, è oggettiva e inesorabile, non lasciando spazio ad alcun rimedio. Il mito della piena occupazione è così definitivamente sepolto e con esso, occorre dirlo con forza, vi è l’urgente necessità di celebrare oggi stesso anche il funerale della società fondata sulla centralità del lavoro. Oggi, nei nostri sistemi sociali, il lavoro è il punto cardine, per la quasi totalità degli esseri umani è l’unica fonte di sostentamento, l’unico varco in grado di far accedere la persona alla fruizione dei diritti, l’unico modo per poter rimanere al mondo con sufficiente dignità, l’unico modo per scongiurare una vita di esclusione, emarginazione, povertà; ma quando esso non c’è tutte queste piaghe cominciano ad operare e a dilaniare i corpi e la psiche delle vittime.

La conclusione di tutto ciò è lapalissiana: la gigantesca devastazione sociale, il nemico contro cui battersi, non è l’enorme perdita di posti di lavoro, bensì l’architettura che pone come fondamento insostituibile dei diritti e della dignità quello stesso lavoro che tale sistema ogni giorno abolisce massicciamente; e la grande partita da giocare non è la creazione di nuovi posti di lavoro, ma la messa a sistema di una nuova centralità su cui impiantare gli elementi dell’appartenenza sociale. Vorrei sottolinearlo, con forza, ancora una volta, la società del lavoro è definitivamente morta. Occorre avere il coraggio di uscirne ed allontanarsi, dirigendosi verso altri lidi che sappiamo mettere al centro una dimensione permanente, indisponibile all’arbitrio umano; e a trarne giovamento sarà il concetto stesso di lavoro, che vedrà gli individui protagonisti di una straordinaria stagione di riappropriazione ed emancipazione.

Io credo che il primo passo verso questo esodo sia quello di uscire dalla falsa retorica e dalla gigantesca truffa – tanto cara a questo governo, al credo neoliberista, ma anche ad una certa sinistra italiana ed europea – della “creazione dei posti di lavoro”. Perché ormai è una questione di pura aritmetica: ciò che oggi viene creato non è sufficiente a colmare quanto ieri è stato perso, e domani, quanto fatto, sarà inesorabilmente distrutto, portando con sé, negli abissi della disperazione, vite, esperienze, speranze e sogni di felicità.

Un nuovo welfare riconnesso all’esistenza

A questa lettura non si può però non affiancare qualche osservazione che concerne i sistemi di welfare. E’ quantomeno logico che nell’intrapresa di questo cammino il welfare state deve occupare un posto di rilievo, costituendo in maniera decisiva lo strumento che permetterà di preparare il terreno per affrontare in sicurezza il passo successivo.

Oggi infatti il lavoro è la condicio sine qua non non è possibile ricevere prestazioni, pertanto sganciare le strutture sociali dalla sua centralità senza rompere anche l’indissolubile legame che esso ha con gli strumenti di stato sociale significa sostanzialmente innescare una devastante bomba ad orologeria.

Nell’opera di riallacciamento del welfare con i suoi nuovi presupposti credo non ci si possa allontanare da quello che è stato il suo spirito natale: l’universalità, la vocazione cioè a considerare l’inclusione sociale come una questione di giustizia da affrontare trasversalmente ed in maniera totalizzante. Occorre allora legare tutta la dinamica della dignità e dei diritti ad una dimensione che non abbia come principale perno di rotazione un parametro parziale, magari addirittura un privilegio, quale è oggi il lavoro. Bensì deve essere ancorata ad un’entità “ubiqua”, che risieda nella profonda essenza dell’essere umano.

In questa partita ruolo di primaria importanza è affidato al basic income o reddito minimo garantito. Considerata la straordinaria attualità dell’argomento – finalmente entrato nella dialettica politica – ma considerato soprattutto il lancio casuale di dichiarazioni di cui è fatto oggetto, emerge la grande necessità di fare chiarezza e sgomberare immediatamente il campo da qualsiasi fumosità e accomodante interpretazione, che serpeggia in troppe traduzioni odierne. Il reddito minimo garantito – che deve essere necessariamente accompagnato da una radicale riforma del sistema fiscale – non è una toppa da cucire momentaneamente sui buchi lasciati dalla perdita di un posto di lavoro o una spintarella che permette di vivacchiare ancora un po’. Il reddito minimo garantito, costituito necessariamente da quell’erogazione universale ed incondizionata di denaro che dalle casse della fiscalità generale transita direttamente nelle tasche dei cittadini, è un nuovo modo di intendere la società, la dignità, la singola soggettività, perché mette al centro la vita stessa dell’essere umano. Il presupposto della dignità e della titolarità dei diritti diventa l’esistenza stessa dell’individuo, è l’esistenza in quanto tale ad essere il perno della valorizzazione sociale e non la sua capacità di essere venduta al banco del mercato come risorsa produttiva.

E’ così che questo rinnovato senso della trama aggregativa umana contribuisce finalmente ad annientare un altro devastante dogma dei nostri dannati giorni, di cui il tatcherismo e la reganomics rappresentano solo la più fanatica espressione: il dominio totale dell’unica dimensione della quale si riconosce l’esistenza, quella economica, che asservisce e strumentalizza ogni densità politica e sociale.

Perché mi piacerebbe non sentire mai più che si è agito in una determinata direzione perché lo hanno richiesto i mercati, perché non vorrei più che accadesse che l’avidità di qualche individualista decidesse quando, quanto e come deve essere curato un bambino, un anziano o un qualsiasi malato; perché non vorrei mai più che la bulimica ingordigia del sistema bancario decidesse quanto deve valere una coppa di riso, una tazza d’acqua o un pugno di grano.

Una nuova coscienza per invertire la rotta e salvarci

Occorre uscire una volta per tutte dalla sbornia narcotizzante della quantità del consumo e del possesso. Occorre prendere definitiva coscienza che il Paese, l’Europa, il mondo intero non stanno attraversando queste devastanti turbolenze per cause sconosciute al genere umano, catastrofi naturali o anatemi divini, ma sono semmai il frutto delle architetture consapevoli di modelli politici, economici e sociali.

La folle corsa di questo treno impazzito, che impatta e distrugge con violenza tutto ciò che incontra sul suo percorso, sta causando pericolose devastazioni e va urgentemente fermata. La rotta va immediatamente invertita. La strada che lascia dietro di sé è ormai disseminata di rovine. Ma non tutto ancora è perduto. Bisogna guardarsi intorno e riflettere, governando la situazione; per rendersi finalmente conto che stiamo continuando a somministrare farmaci ad un paziente ormai dilaniato e morto da tempo, senza accorgerci, che così facendo, stiamo uccidendo anche tutti coloro che invece possono essere salvati.

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