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Essere un paradosso. Crisi economica, reddito garantito e noi

di Rachele Serino

La vita trascorsa in questi decenni di precarietà porta a ritrovare nella rivendicazione di un reddito garantito la base di eventuali e possibili modi diversi di abitare il mondo; sarà per questo che la crisi del sistema economico e la crisi del lavoro nella globalizzazione non si sono ancora volute confrontare concretamente con questa opzione universalistica.

Sarà per questo che essere un paradosso (soggetti fluidi e concreti in sistemi statici e agonizzanti) vuol dire anche non perdere la capacità di distinguere – tra globalizzazione e universalismo ad esempio, e scegliere.

 

Il paradosso del mercato del lavoro degli ultimi venti anni, si colloca in un tempo che crea le condizioni per un conflitto tra carattere ed esperienza, in cui la frammentazione dei legami solidi della modernità, la ridondanza di informazioni e inconsistenza dei beni acquisiti, hanno messo in crisi la riconoscibilità dell’ essere nel lavoro. Il rapporto che legava il lavoro al sistema sociale e il carattere di scambio (reddito, crescita economica, collocazione sociale, identità) che l’individuo riconosceva a quella relazione sono venuti meno a tal punto che anche il sistema di valori che alimentava questo rapporto assume un carattere temporaneo e ridefinibile di volta in volta.

Pierre Bordieu alla fine degli anni ‘90 coniava il termine flexploitation per indicare l’insieme delle strategie politiche che hanno costruito la capacità di governare al di fuori della razionalità e dentro proiezioni a brevissimo termine in cui l’idea di futuro viene praticamente sgretolata,  indicando in effetti anche i passaggi che hanno portato alla costruzione di un mercato del lavoro – e di una società – endemicamente precari.

Continuità e discontinuità diventano così proprietà di un medesimo movimento, parte dello stesso processo verso il cambiamento che diviene anche lo spazio entro cui acquistano nuovo senso, rappresentando però un equilibrio difficile da sostenere, impegnativo e che logora le scorte di risorse ed energie delle persone e dell’ambiente in cui viviamo. Questa tendenza alla generale affermazione di forme e di condizioni di vita individualizzate ci costringe, pur di sopravvivere, a fare di ciascuno di noi stessi l’elemento portante della progettazione e della conduzione della nostra vita (Beck, 2000), mettendo in evidenza che nella società post-tradizionale non solo dobbiamo prendere più decisioni, ma che siamo di fronte alla condizione di dovere costruire attivamente tutto il corso di vita, da una parte aprendoci a una possibilità sempre più ampia di opzioni dall’altra aumentando il rischio di fallire.

Se pure dal punto di vista antropologico si potrebbe cominciare a riflettere sull’enormità del cambiamento che l’epoca post moderna ha rovesciato sui comportamenti e la cultura delle collettività, non si può guardare a questa trasformazione come a una improvvisa e imprevista rivoluzione di paradigma. Osservandone la forma assume in maniera permanente il cambiamento e la flessibilità, tanto da non lasciare spazio alla sedimentazione di ciò che porta ogni cambiamento, elemento essenziale quest’ultimo per comprendere e poi modificare ancora.

Post moderna sembra essere una società sostanzialmente anti moderna se in effetti l’economia, la politica, la cultura hanno anzitutto rimproverato alla modernità d’essere stata una stagione di assoluti. L’assoluto che rimandava alla certezza del rapporto lavorativo come base per il futuro, l’assoluto dell’esistenza del futuro come divenire consequenziale. Si era capaci, competenti, in un contesto così strutturato, di analizzare, progettare, pianificare e realizzare il proprio essere nel mondo. Lo si era a partire dalla possibilità di intravedere i legami, le connessioni, i percorsi. Lo si era in conseguenza della corrispondenza tra sé ed i percorsi – di vita, di lavoro, di formazione –  che i sistemi sembravano garantire come patto tra individui e collettività. L’epoca post ha sostanzialmente interrotto questo patto, frammentandolo in una sorta di rischio individuale.

Di fronte a una trasformazione di tale natura si apre il paradosso. Nel rapporto produzione diffusa – lavoratore sta la difficoltà di porre confini, di dare e darsi obiettivi, di recuperare entro un senso tangibile la sorte della propria vita materiale. Vivere in un contesto con un numero di opportunità apparentemente infinito rimanda alla possibilità di diventare chiunque, in cui però il diventare o divenire implica che ancora niente è stato raggiunto. E affinché le possibilità restino infinite a nessuno è consentito fermarsi.

Da qui quella sorta di movimento senza causa che amplifica il clima di incertezza e disorientamento. «Se i tuoi sforzi non producono nulla di duraturo, allora sono futili, e perché mai dovremmo sforzarci di conquistare qualcosa di futile?», quando Emile Durkheim scriveva queste parole era nel pieno sforzo di quel processo di razionalizzazione che lo avrebbe condotto a riconoscere alla società – più duratura degli individui, la capacità di raccogliere e dare senso agli sforzi individuali. Il nostro tempo però ha fatto cenere della concezione razionale di società e la difficoltà di sentirsene parte è il prodotto naturale della eccessiva individualizzazione, così che la natura degli sforzi deve trovare soddisfazione nel tempo presente e nello spazio della propria immediata esistenza.

La risposta sul piano del soggetto appare decisamente più adeguata, per un meccanismo che tende alla determinazione almeno come reazione all’indeterminatezza. Rimanda infatti a un bisogno di conoscenza che cerca soddisfazione in percorsi che si determinano e scelgono a prescindere dall’immediatezza. I soggetti cercano comunque una coerenza a partire dalle proprie esigenze e in questi lunghi anni di precarietà diffusa si è prodotta una capacità di agire e muoversi nonostante l’impoverimento materiale, nonostante l’abbrutimento del contesto sociale, che porta i precari di seconda generazione ad essere soggetti attivi proprio sul versante della qualità della vita e del rapporto con l’ambiente che li circonda e li ospita. Mettere al centro l’azione personale, nel senso in cui la definisce H. Arendt (1994), comporta la necessità di ridiscutere lo stesso principio di causalità nel tentativo di dare risposta alla domanda circa il rapporto tra agente e agito, soggetto e oggetto, libertà e vincolo di dipendenza. L’agire proposto in una dimensione non necessitata, né utilitarista: con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano e «questo inserimento non ci viene imposto dalla necessità come il lavoro, e non ci è suggerito dall’utilità, come l’operare è la libertà del prendere l’iniziativa, dell’iniziare, del mettere in movimento qualcosa; e tale incominciamento è premessa per la comparsa di qualcosa che non c’era, del sorprendente cambiamento e quindi dell’abbandono di altri repertori comportamentali precedenti, già conosciuti e sperimentati».

E poi c’è l’altra immagine, quella del desiderio che si fa progetto, quella dell’ipotesi che si rende concreta, quella che ci fa vedere la strada che dobbiamo percorrere per arrivare dove vorremo, paesaggio e lavori in corso inclusi. La volontà di determinare il proprio percorso esplode nella voglia di scegliere cosa portare con sé, nel disvelamento di elementi di flessibilità che si vuole riuscire a torcere a proprio favore, come ad esempio la flessibilità degli orari o quella delle mansioni contro la routine, ma anche nella scelta di stili di vita a basso consumo, nella scelta della qualità a discapito della quantità. E’ la qualità la carta più giocata dal lavoratore precario, qualità che spesso si fa donna per la maggiore incidenza dei processi di precarizzazione sul genere femminile; quella qualità che sostiene su di sé lo sforzo di dare significato a prestazioni anche estremamente limitate nel tempo.

Qualità delle scelte, qualità come competenza, di nuovo un margine variabile ma questa volta paradigmatico di uno scostamento che ricolloca attraverso un processo non ancora esplicitato del tutto, ma non per questo meno visibile e reale, il lavoro salariato in una posizione diversa e paradossalmente più chiara: strumento per recuperare reddito. Nell’esercizio di questa ricerca le generazioni di uomini e donne che si muovono nel mercato del lavoro precario hanno attivato una capacità progettuale parallela che sa raggiungere obiettivi nel breve tempo e che allo stesso momento sa intravedere strade che portano più lontano di quello che sembra.

Se il mercato del lavoro tende alla depauperizzazione di competenze e capacità, in funzione di una frammentazione disfunzionale, nella prospettiva del reddito garantito invece queste trovano il luogo e il tempo per farsi palesi, riconoscersi e respirare. M. Nussbaum (2002), mette in luce i limiti del pensiero liberale, proprio indicando come nella pratica politica la libertà di scelta dell’individuo non sia garantita da sistemi che non forniscono alle istituzioni legislative alcuno strumento teorico per far sì che gli individui sviluppino la loro capacità di scelta. I sistemi di welfare intervengono a posteriori, laddove viene già ravvisato il bisogno e la necessità agendo per lo più solo sulla condizione occupazionale, mentre la potenza anche teorica del reddito garantito apre la strada sul terreno delle possibilità di agire. Pure se non in stretto riferimento con la proposta del reddito garantito, incondizionato ed universale, questa frase di A. Sen esemplifica bene uno dei principali snodi su cui agirebbe «…al centro della lotta contro la privazione c’è, in ultima analisi, l’azione individuale; ma quella libertà di agire che possediamo in quanto individui è, nello stesso tempo, irrimediabilmente delimitata e vincolata dai percorsi sociali, politici ed economici che ci sono consentiti… Lo sviluppo consiste nell’eliminare vari tipi di illibertà che lasciano agli uomini poche scelte e poche occasioni di agire secondo ragione; eliminare tali illibertà sostanziali è un aspetto costitutivo dello sviluppo» (Sen 2000).

La pratica di questi decenni di precarietà, guardata dall’angolazione di chi se pure in bilico, ha continuato a vivere e desiderare, crescere ed imparare, porta in risalto la forza dei soggetti, la inevitabilità della ricerca di un essere libero e autodeterminato, che pure in condizioni di disagio non smette di sperimentare sulla propria pelle l’agire concreto nel mondo. L’esperienza di questi decenni di precarietà porta a una ridefinizione complessiva del rapporto con la società e i suoi sistemi di governo, unici oggetti immobili in una fluidità tale da farsi esistenziale.

Infine, la vita trascorsa in questi decenni di precarietà porta a ritrovare nella rivendicazione di un reddito garantito la base di eventuali e possibili modi diversi di abitare il mondo; sarà per questo che la crisi del sistema economico e la crisi del lavoro nella globalizzazione non si sono ancora volute confrontare concretamente con questa opzione universalistica.

Sarà per questo che essere un paradosso (soggetti fluidi e concreti in sistemi statici e agonizzanti) vuol dire anche non perdere la capacità di distinguere – tra globalizzazione e universalismo ad esempio, e scegliere.

Quaderni per il reddito 2

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