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Dichiarazione del reddito

di Giovanni Zanotti

Relazione introduttiva al workshop “I soldi che fanno la felicità” – TILT, Pisa, 26/11/2011 di Giovanni Zanotti (TILT).

Di reddito, ultimamente, si parla parecchio. Reddito di cittadinanza, reddito di esistenza, reddito minimo garantito, sostegno al reddito. A Roseto noi abbiamo fatto una scelta originale, radicale e meditata, riconoscendo questo tema come l’asse portante e non negoziabile della nostra rivendicazione, e riconoscendo al tempo stesso, per le stesse ragioni, l’urgenza di rendere questa rivendicazione concreta, di articolarla in una campagna efficace, intelligente, in una proposta concreta, immediatamente traducibile in realtà, perché la realtà ne ha bisogno. Ci ritroviamo qui tre mesi dopo per dare corpo a questa campagna. Lo scopo dell’assemblea di oggi è armarci per partire. Affilare le armi della critica, fortificare i nostri argomenti e la nostra consapevolezza. Dobbiamo farlo con uno spirito di massima unità, di massima apertura, senza aver paura di parlare con nessuno, e senza rinunciare all’originalità della nostra riflessione.

Di reddito si parla parecchio, e ci si può chiedere il perché. La risposta è abbastanza semplice. Solitamente si parla di più delle cose che non ci sono, e il nostro caso non fa eccezione. La crisi ha fatto scoppiare, insieme alla bolla speculativa, anche la bolla di sapone del reddito come variabile dipendente dell’economia finanziaria: caduta l’economia finanziaria, è caduto il reddito. E noi con lui. Dunque si parla di reddito perché il reddito non c’è. Quando c’è, è precario. E noi con lui. Il che fa tanto più orrore perché invece, come ricordava ieri sera Gabriele Santoni citando don Armando Zappolini, “i soldi ci sono”. Ci sono per fare la guerra, per costruire la TAV, il Ponte sullo Stretto e i CPT, per riempire tasche già considerevolmente gonfie, o per confluire direttamente in quell’oceano di evasione, mafie, riciclaggio, economia sommersa e corruzione che, come osservava sempre ieri Francesco Forgione, con il capitalismo ha molto in comune, a cominciare da una tendenza piuttosto marcata all’ingiustizia sociale. I soldi ci sono, ma spettano a chi la crisi l’ha creata, e non a chi la subisce. Come se fosse normale.

Va tanto di moda invocare l’Europa, e allora non sottraiamoci. Il 20 ottobre dello scorso anno il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione, invitando la Commissione europea e gli stati membri a fissare per legge un reddito minimo garantito pari al 60% del salario nazionale medio. Poiché abbiamo fin troppa esperienza di leggi meravigliose che rimangono pie intenzioni, il prossimo 30 novembre la nostra portavoce interverrà a Bruxelles a un’assemblea dei movimenti organizzata da European Alternatives (che fa parte di TILT) e lancerà una campagna europea per il reddito minimo garantito. Le parole d’ordine di questa campagna saranno quelle, straordinariamente non ambigue, che hanno usato i parlamentari europei: nella risoluzione si legge che un reddito minimo adeguato rappresenta “un elemento imprescindibile per una vita dignitosa”, e parla di povertà ed esclusione sociale come “violazioni della dignità umana e dei diritti umani fondamentali”. Povertà ed esclusione sociale. I dati sulla disoccupazione, in particolare giovanile e femminile, dimostrano che in Italia oggi il rischio povertà non è fantascienza. Per usare le parole che il BIN ha indirizzato di recente al presidente Monti, c’è un rischio concreto, accanto al default finanziario, di un “default dei diritti di cittadinanza e della dignità della persona”. Ma l’esclusione sociale non riguarda soltanto i disoccupati. Chi, come tutte e tutti noi, ha un orizzonte di vita precario, è escluso dalla società, dalla possibilità di inserirsi, di progettarsi, di riconoscersi nel proprio mondo. Con il paradosso che, siccome tutta la società tende a precarizzarsi, la società stessa comincia a soffrire di esclusione sociale. La precarietà è la nostra povertà, la lotta contro la precarietà è la nostra liberazione dallo stato di bisogno.

Il nesso precarietà-reddito, quindi, è il fondamento della nostra analisi e della nostra rivendicazione, in due sensi: il reddito garantito è un farmaco contro gli effetti della precarietà, ma è anche lo strumento per combatterne le cause. Ci sono due rischi, opposti e complementari, che noi dobbiamo evitare quando parliamo di reddito. Il primo è il rischio di rimanere troppo lontani dalla realtà: di non essere fino in fondo consapevoli del carattere innovativo, coraggioso, adeguato ai tempi della nostra rivendicazione. Il rischio, quindi, di restare indifesi di fronte a tutte le obiezioni che ormai conosciamo a memoria. Il reddito garantito, ci dicono, sarebbe un peso per l’economia: come se la concentrazione della ricchezza non deprimesse la domanda, e la redistribuzione viceversa non desse all’economia quella boccata di ossigeno di cui ha bisogno. Il reddito indipendente dal salario, peggio, sarebbe una misura ingiusta verso chi lavora, come se di lavoro ce ne fosse a volontà e a essere ingiusto fosse il disoccupato, non la disoccupazione. Come se fosse normale. La loro sensibilissima etica del lavoro freme all’idea di una retribuzione in cambio di nulla (il rifinanziamento delle banche a suon di decine di miliardi pubblici evidentemente non li turba). Ma la possibilità di una vita dignitosa è un diritto umano incondizionato, e lo stato di necessità è lo scandalo di una società che muore di sovrapproduzione. E’ un problema vecchio come il capitalismo; ma anche il capitalismo è vecchio come il capitalismo, e saremmo i primi a gioire se il problema non fosse più attuale. E infine, l’obiezione più insidiosa: il reddito minimo garantito sarebbe una misura assistenziale e favorirebbe il parassitismo. Come se la società del ricatto universale non fosse la società dei parassiti, del servilismo, della negazione dell’autonomia individuale. Il reddito che noi vogliamo è un reddito per la dignità e per il lavoro: per formarci, per fare un uso razionale dei soldi spesi per la nostra formazione, per lavorare a condizione che il lavoro assomigli a noi e non viceversa.  Per diventare ciò che siamo nel mondo, con originalità e coraggio, perché la nostra libertà significhi autodeterminazione. Sono i valori tipici del pensiero liberale: tutto ciò che pretendiamo, e di cui i liberali non sembrano preoccuparsi, è la possibilità di realizzarli.

Dunque, il primo rischio è quello di rimanere troppo lontani dalla realtà, legati al modello di welfare assistenzialista e fondato su un lavoro che non c’è più, il rischo di non uscire dal Novecento. Ma c’è un secondo rischio, quello di rimanere troppo vicini alla realtà, di smarrire la possibilità del conflitto, di diventare compatibili per paura di essere irrealizzabili. Di proposte sul sostegno al reddito, dicevamo, si riempiono la bocca in tanti. Una delle più in voga in queste settimane, negli ambienti più o meno istituzionali, suona così: reddito in cambio di precarietà, o, per usare i garbati eufemismi del senatore Ichino, ammortizzatori sociali in cambio di ulteriore flessibilizzazione del lavoro. Flessibilità: cioè, come ha fatto notare limpidamente Luciano Gallino, nient’altro che licenziamenti più facili. Il giochino è chiaro: si sono accorti, bontà loro, che senza lavoro si muore di fame, e pur di tenere lontano il conflitto dal lavoro, pur di mantenere ed estendere il potere del profitto sui contenuti del lavoro, accettano generosamente di spostare fuori dal lavoro la soluzione e zittire tutti con un contentino. Come se fosse normale. Questo sarebbe un ottimo modo per uscire dal Novecento, tornando dritti nell’Ottocento: lavoro come variabile muta del profitto, assoggettamento completo delle nostre vite a esigenze a noi estranee, e in cambio, quando proprio si mette male, qualche caritatevole Legge dei Poveri, le Poor Laws, come appunto nell’Inghilterra di metà Ottocento. Non funziona. Noi pretendiamo reddito non per avere meno conflitto, ma per averne di più. La risposta ai due opposti rischi, di assistenzialismo e di compatibilismo, è la stessa. Il reddito che vogliamo non è un contentino, ma uno strumento di emancipazione dalla ricattabilità. Vogliamo reddito per rialzare la testa, per poter rifiutare un lavoro degradante, per lottare individualmente e collettivamente nel lavoro e per il lavoro, per imporre un innalzamento complessivo della qualità dell’offerta di lavoro, che includa salari, diritti, condizioni materiali, fino anche alla riduzione della precarietà, che non è solo un problema di continuità del reddito, ma di libertà dell’esistenza.

E’ qui che il tema del reddito si annoda a tutti gli altri. E’ stata una grande virtù di Tilt, qui e a Roseto, aver lavorato di fino per esplicitare i nessi, i passaggi, le continuità fra tutte le nostre rivendicazioni. Non abbiamo scelto per caso di mettere il reddito al centro. Ieri Marica parlava del legame fra la libertà del reddito e la libertà delle donne, oggi abbiamo visto che senza cittadinanza universale non c’è diritto universale al reddito di cittadinanza, e abbiamo parlato di conflitto intelligente perché la nostra intelligenza si trasformi in conflitto. Il reddito che vogliamo è la condizione di possibilità materiale del conflitto, di tutti i conflitti che abbiamo di fronte come generazione e come interpreti più autorevoli della crisi, per usare le parole di Francesco ieri. Per questo abbiamo scelto di lanciare oggi la campagna sul reddito ascoltando in primo luogo una serie di interventi, che ci illustreranno le diverse angolazioni da tenere presenti affinché questa campagna sia generale: reddito e saperi, cultura, informazione, generi, antimafia, antiproibizionismo, lavoro. Affinché la battaglia per il diritto universale e incondizionato al reddito sia la battaglia per il diritto a dare battaglia, per il nostro diritto universale e incondizionato a tutti i diritti, a un’universale e incondizionata felicità. Sarà questa, dovrà essere questa, la nostra dichiarazione del reddito.

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