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Dateci i soldi che poi ne riparliamo

di Andrea Fumagalli

Articolo scritto in occasione della pubblicazione di un inserto speciale del quotidiano “Liberazione” sul reddito di cittadinanza.

Le trasformazioni del mercato del lavoro negli ultimi due decenni hanno reso sempre più impellente una ridefinizione complessiva e una riarticolazione delle politiche di welfare. Non sempre, tale argomento ha suscitato un interesse adeguato nel pensiero economico di sinistra e alternativo e, quando si è verificato, esso ha interessato argomenti specifici, quali la critica alla privatizzazione dei servizi pubblici o la necessità di introdurre un reddito minimo. La causa principale di tale carenza credo sia ravvisabile in una lettura analitica delle attuali trasformazioni strutturali non ancora sufficientemente adeguata ai nuovi bisogni e alle nuove esigenze che sono sorti dopo la crisi del paradigma fordista.

In secondo luogo, è ancora in auge in Italia, ben esemplificata dal misero dibattito elettorale in corso, l’idea che le politiche del lavoro siano sganciate dalle politiche di welfare. Il protocollo sul welfare dello scorso 23 giugno ne è un ulteriore conferma e segna l’introduzione in Italia del concetto di “workfare”, ovvero dell’idea che i servizi sociali sono garantiti solo a chi se li può pagare con il sudore della sua fronte. Il lavoro comanda il welfare.

E’ dunque sempre più necessario e impellente introdurre un’idea nuova di welfare, un’idea che sia in grado di affrontare i due elementi principali che caratterizzano l’attuale fase capitalistica nei paesi cd. “occidentali”:

  • la precarietà;
  • la generazione di ricchezza che ha origine dalla cooperazione sociale e dalla produzione in rete fondata sulla comunicazione e la diffusione di conoscenza.

Riguardo al primo punto, il mondo del lavoro appare sempre più frammentato non solo da un punto di vista giuridico ma soprattutto da quello qualitativo-soggettivo. La figura del lavoratore salariato industriale è emergente in molte parti del globo ma sta declinando in modi quasi irreversibile nei paesi occidentali a vantaggio di una moltitudine variegata di figure atipiche e precarie, dipendenti, parasubordinate e autonome, la cui capacità organizzativa e di rappresentanza è sempre più vincolata dal prevalere della contrattazione individuale e dall’incapacità di adeguamento delle strutture sindacale fordiste. La contrattazione individuale tende a diffondersi per la nuova natura della prestazione lavorativa che sempre meno ha a che fare con una “macchina” da cui dipendere, ma che sempre più fa perno sulle proprie capacità cognitive, relazionali e linguistiche (e non c’è niente di più individuale di un linguaggio, seppur standardizzato). La preminenza della contrattazione individuale su quella collettiva svuota la capacità di rappresentanza delle tradizionali forze sindacali. Il tentativo di recuperare tale capacità tramite strategie di concertazione ha mostrato tutti i suoi limiti, sino a snaturare il ruolo del sindacato da forza in grado di rappresentare gli interessi del lavoro in istituzione di controllo e succube agli interessi imprenditoriali sotto l’ombrello delle compatibilità economiche dettate dalla nuova gerarchia economica internazionale.

Riguardo al secondo punto, la produzione di ricchezza non è più fondata solo ed esclusivamente sulla produzione materiale. L’esistenza di economie di apprendimento (che generano conoscenza) e di economie di rete (che ne consentono la diffusione, a diverso livello) rappresentano oggi le variabili che stanno all’origine degli incrementi della produttività: una produttività che sempre più deriva dallo sfruttamento di beni comuni che discendono dalla natura sociale del genere umano (quali istruzione, sanità, conoscenza, spazio, relazionalità, ecc.) e che quindi si configura come esito di una “cooperazione” sociale, più o meno indotta o consenziente.

Ne deriva che, in tale contesto, un intervento di welfare deve saper rispondere al trade-off  che regola in modo instabile il processo di accumulazione insito nel capitalismo contemporaneo: il rapporto contradditorio tra precarietà e cooperazione sociale. Più in particolare, si tratta di remunerare la cooperazione sociale, da un lato, e favorire forme di produzione sociale, dall’altro.

La remunerazione della cooperazione sociale significa garanzia di continuità di reddito individuale, incondizionato, per tutti coloro che operano nel territorio a prescindere dallo loro status professionale e civile. Poiché la cooperazione sociale va ben oltre la prestazione lavorativa eventualmente riconosciuta e certificata ma tende a coincidere con l’esistenza stessa, la remunerazione della cooperazione sociale è data dal salario eventualmente percepito più un basic income: tale basic income deve essere inteso come una sorta di risarcimento monetario (appunto remunerazione) della produttività sociale individuale e non come mero intervento assistenzialistico. Tale misura deve essere accompagnata dall’introduzione di un salario minimo orario, al fine di evitare che si possa generare un effetto di sostituzione tra basic income e lo stesso salario a vantaggio dell’impresa e a discapito del lavoratore. Inoltre, tale basic income, introdotto in modo graduale, prescindendo dallo stato professionale degli individui e non sottoposto ad alcuna misura di controllo e di condizionamento, non è solo una misura di welfare, ma in quanto elemento di remunerazione, è anche una misura di intervento nella regolazione del mercato del lavoro. Viene così meno la distinzione tra politiche di welfare e politiche del lavoro di derivazione fordista e tanto cara anche al passato governo di centro-sinistra. La garanzia di un reddito in presenza di un salario minimo consente, infatti, di ampliare le possibilità di scelta nel definire la propria offerta di lavoro e quindi intervenire direttamente sulle condizioni di lavoro. La possibilità del rifiuto del lavoro capitalistico apre prospettive di liberazione che vanno ben al di là della semplice misura redistributiva con la quale si intende solitamente (e si critica) il basic income.

In altre parole, chi pensa che la proposta di basic income sia da annoverare negli interventi assistenziali (magari ammantata da buonismo veltroniano interclassista), ha compreso ben poco delle attuali dinamiche della valorizzazione capitalistica. Ma anche chi pensa che il basic income non abbia nulla a che fare con il rapporto capitale-lavoro e sia solo una mera misura riformista di tipo redistributivo, è rimasto ancorato ad un nostalgico ricordo della centralità di un lavoro materiale ancora appendice della macchina.

Quindi: dateci i soldi, che poi ne riparliamo!

Tratto da Liberazione 8 aprile 2008

 

 

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