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Circuiti monetari alternativi e riproduzione sociale al tempo del capitalismo bio-cognitivo. Intervista ad Andrea Fumagalli

di Alberto Deambrogio intervista Andrea Fumagalli

Intervista ad Andrea Fumagalli * che ha da poco pubblicato: Valore, Moneta, Tecnologia. Capitalismo e scienza economia. Edizioni Derive Approdi.

Alberto Deambrogio: Nel suo recente libro Valore, moneta, tecnologia. Capitalismo e scienza economica (Derive Approdi, settembre 2021) mette a confronto critico due approcci economici alternativi: l’equilibrio economico generale (E.E.G.) e l’economia monetaria di produzione. Il primo, oggi ortodosso e dominante, viene da lei descritto come una sorta di ideale a cui la società e l’economia dovrebbero tendere più che una teoria critico interpretativa del reale. Gli stessi recenti premi Nobel per l’economia hanno dimostrato alcuni limiti della cosiddetta teoria economica mainstream. Nonostante tutto questo il pensiero dell’ E.E.G., quello che dovrebbe delineare una teoria del comportamento umano e/o sociale, pare rimanere inscalfibile da argomentazioni razionali ed empiriche. Quali sono secondo lei i possibili sentieri da intraprendere per mettere finalmente in discussione questa “nuova ragione del mondo”? Lei è docente universitario: a quale punto è arrivata la colonizzazione dell’ambiente accademico (non solo nelle facoltà di economia) da parte della cultura liberista?

Andrea Fumagalli: La scienza economica è stata da sempre, sin dagli albori, una scienza del potere. Il predominio di una teoria su un’altra, al di là della rigorosità analitica dell’esposizione (sia essa argomentativa o formale) dipende in larga misura dal pensiero politico dominante. Ciò non stupisce. La scienza (qualunque essa sia) non è mai neutrale ma figlia dei rapporti gerarchici che determinano la struttura sociale. L’economia politica rappresenta un esempio particolarmente paradigmatico, perché le conclusioni a cui può giungere hanno un’immediata valenza politica e ideologica. E quindi possono essere anche pericolose, se non sovversive. Vi è un caso che spiega meglio di qualunque altro l’esistenza di una sorta di dittatura del pensiero dominante (non trovo un nome migliore di questo). È quello che rimanda alla controversia delle due Cambridge. Piero Sraffa, celebre economista italiano, oramai dimenticato, che lavorava all’università di Cambridge (UK) sviluppa una critica ineccepibile (interna) alla teoria della distribuzione del reddito di matrice neoclassica (nell’ambito delle teorie dell’EEG), sostenendo che non esiste nessun criterio oggettivo per determinare una distribuzione armoniosa del reddito tra capitale e lavoro. Paul Samuelson, il primo americano a vincere il premio Nobel dell’economia (1970), che lavorava alla Harward University (Cambridge, USA), ha cercato di rispondere a tale critiche sostenendo che invece vi erano dei criteri oggettivi che consentivano una distribuzione del reddito “armoniosa” tra capitale e lavoro. Come è evidente, tale questione ha immediati risvolti politici. Se effettivamente esiste un’armoniosa distribuzione del reddito tra capitale lavoro, la lotta di classe e qualunque conflitto distributivo non hanno ragione di esistere. Per farla breve, dopo la pubblicazione del libro di Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci e il dibattito che ne è conseguito, Samuelson, molto correttamente (ce ne fossero di economisti come lui, ai giorni nostri…), è costretto ad ammettere che Sraffa aveva ragione e che non esiste nessun criterio che possa definire una “corretta” e “oggettiva” distribuzione del reddito, se non il conflitto e i rapporti di forza. Di conseguenza, la teoria neoclassica della produzione non ha validità scientifica e men che meno la conseguente teoria della distribuzione del reddito. È come se si fosse dimostrato che è la terra a girare intorno al sole e non viceversa, come prima si credeva. Eppure a più di mezzo secolo di distanza, ancora oggi tutti i manuali di microeconomia che vengono insegnati nelle aule delle università continuano a ribadire che è il sole a girare intorno alla terra. Si tratta solo dell’esempio più eclatante, a cui se ne potrebbero aggiungere altri.

Sulla base di questi presupposti, si fonda il reclutamento del personale accademico nelle università di mezzo mondo. Qui il discorso si fa più complesso. L’economia politica mainstream basa la sua forza sull’illusione di riuscire a misurare ciò che non è misurabile, come le scelte derivanti dai comportamenti soggettivi umani. L’utilizzo della matematica incide pesantemente sulla capacità argomentativa del discorso economico e sui principi di rilevanza cui dovrebbe sottendere, al fine di fornire indicazioni di politica economica. Il discorso economico viene così stereotipato sulla base di assunti assai discutibili, come la razionalità perfetta dell’”Homo Oeconomicus” e la sempiterna validità della legge della domanda e dell’offerta e quindi il primato del mercato come unica organizzazione sociale efficiente. Tutto ciò avviene in un contesto metastorico e meta-spaziale: si tratta di un credo che non ha verifica né storica né empirica. Ma sull’accettazione di questi assiomi (non dimostrati) si fonda il meccanismo di selezione dell’ingresso in accademia, tramite l’uso strumentale delle citazioni e dei vari indici bibliometrici che tendono a favorire l’autoreferenzialità delle riviste del pensiero dominante e penalizzano quelle alternative.

Non può stupire che in economia politica, scienza del principe più di altre discipline umanistiche, il cappio del pensiero neoliberista sia particolarmente stringente.

A.D.: Siamo oggi clamorosamente di fronte a una accumulazione intangibile e bio-cognitiva, dove cioè è la vita stessa a essere messa al lavoro. Questo, secondo alcune valutazioni del suo libro, pone il grande tema di aggiornare la classica teoria del valore-lavoro verso una del valore-vita, con tutti i problemi connessi a una misurabilità di quest’ultimo. Come pensa che ci si possa approssimare a una soluzione e quale ruolo possono avere, anche da un punto di vista qualitativo, le stesse donne e gli stessi uomini che stanno subendo queste mutazioni quasi antropologiche sulla loro pelle?

A.F.: Diversamente da quanto pensato da alcuni critici del marxismo più tradizionale, la crisi della teoria del valore-lavoro non significa affermare che il lavoro (astratto) non sia più la fonte del valore. Come scrive Michael Hardt:

“Ma lasciatemi dire una cosa ovvia. La nostra tesi sulla crisi della legge del valore non è naturalmente un modo per mettere in discussione che il lavoro non sia oggi la fonte del valore. La proposizione all’inizio del primo libro de Il Capitale di Marx è che il valore di scambio di ogni merce è determinato in qualche misura dalla quantità di lavoro astratto che le produce. Così, la quantità del tempo di lavoro che viene utilizzato nel produrre una merce determina il suo valore di scambio. Ciò che viene posto in discussione non è se è il lavoro a produrre il valore ma è piuttosto la capacità del capitale di quantificare e misurare il contributo del lavoro. Questo è ciò che ho capito dalla corrente eterodossa a partire dagli anni Settanta, includendo Negri, che la tesi sulla crisi [del valore, ndr.] che hanno posto era la tesi sulla crisi della misura” (Michael Hardt, “The post-operaist approach: answers to Jan Sowa, “Three questions on autonomy and labour theory of value”, in Praktyka Teoretyczna, n. 2, Vol. 16, 2015, p. 168-69).

Il lavoro (nella sua forma “astratta”, ovvero prescindendo dalle modalità “concrete” e differenziate, ora più manuali ora più cognitive, che può assumere) rimane così l’unica fonte del valore. La crisi della misura del valore-lavoro deriva dal cambiamento della composizione tecnica non solo del lavoro ma anche del capitale al tempo del capitalismo bio-cognitivo. Riguardo la prima, essa subisce una mutazione, con il passaggio da tecnologie ripetitive statiche a tecnologie flessibili e dinamiche, che, deturpando l’organizzazione del lavoro, implica la diffusione generalizzata, esistenziale e strutturale della condizione precaria, riassumibile nella triade: il divenir donna, il divenir migrante, il divenir gratuito del lavoro come elementi costituenti la cooperazione sociale. Ciò rappresenta la metamorfosi attuale dell’autonomia del lavoro, del sapere vivo e della ri/produzione sociale.

Credo che, attualmente, non esista ancora una teoria della misura del valore-lavoro che si trasformi in valore-vita. Se ciò può essere problematico da un punto di vista teorico, non credo che lo sia dal punto di vista politico. La teoria del valore-lavoro di marxiana e ricardiana memoria ha sempre avuto dei problemi teorici (a partire dal problema della trasformazione dei valori in prezzi) ma ciò non ha impedito che nell’epoca fordista il conflitto e la coscienza di classe si sviluppassero. Oggi, il problema politico è quello della rappresentazione e organizzazione della condizione precaria individualizzata e soggettivamente frammentata. MI sembra evidente che la vecchia cassetta degli attrezzi non funzioni più di tanto e che sia necessaria una sua ridefinizione, in grado di coniugare le lotte su e contro il lavoro con le lotte sul welfare per un miglioramento delle condizioni di vita e una maggiore autodeterminazione. Come sempre sarà la praxis a darci le indicazioni migliori … e sono infatti i nuovi movimenti a indicarci questa strada. Le lotte delle donne e le lotte dei giovani di Friday for Future (anche se spesso non lo sanno) sono lotte contro il lavoro e per la vita.

A.D.: Nell’epoca in cui, con ogni evidenza, la moneta ha vissuto e vive un processo di deistituzionalizzazione, con la perdita di ruolo dei soggetti pubblici sovrani ed il trionfo della moneta-finanza, lei intravede una possibilità di sviluppo di un circuito finanziario alternativo in grado di combinare elementi di teoria marxista con il sapere degli hacker. Si potrebbe costruire, dunque, una moneta alternativa, del comune o commoncoin. Quali sono le principali difficoltà che al presente vede per impostare un serio discorso di questo tipo, a fronte del fatto che il mondo delle criptovalute si presenta con una serie notevole di turbolenze, ambiguità e pericoli?

A.F.: La moneta (insieme al progresso tecnologico) è la variabile economica per eccellenza che ci conferma quanto i rapporti sociali (e di potere) influiscano nel determinare il funzionamento del processo economico e le sue “ideologie”. La moneta, al pari della remunerazione del lavoro, è una variabile economica indipendente dalla logica di mercato, ovvero si determina al di fuori dello scambio di mercato. È una variabile istituzionale così come il salario è variabile contrattuale. Nel passaggio da un’economia creditizia (dove il sistema di credito garantiva la liquidità necessaria per finanziare il processo di accumulazione capitalistica) a un’economia finanziaria, assistiamo, come condizione propedeutica, ad un cambiamento della forma della moneta: da moneta merce a moneta segno. In questo passaggio il governo istituzionale della moneta si modifica in modo radicale: da una governance dettata dalle autorità monetarie e dal predominio della politica monetaria si passa ad una governance imposta dalle oligarchie finanziarie e dagli esiti dell’attività speculativa. È paradossale che proprio nel momento in cui il pensiero dominante sancisce l’autonomia “politica” delle Banche Centrali, la politica monetaria perda l’autonomia “economica”, diventando sempre più ancillare alle dinamiche delle convenzioni speculative che animano l’oligarchia finanziaria internazionale. I mercati finanziari diventano così il motore dell’accumulazione capitalistica e il luogo dove si “misura” (tramite gli indici di borsa) il grado di sfruttamento del lavoro vivo contemporaneo, sempre più precario e frammentato.

In questo contesto, dove non esiste più una centralizzazione egemone nell’emissione di moneta, si apre lo spazio per lo sviluppo di varie tipologie di monete complementari e digitali. Sono oramai più di 5000 le monete complementari che si possono stimare operanti a livello globale. Nella quasi totalità, si tratta di monete funzionali alla circolazione delle merci (come il Sardex, il caso più noto in Italia) o all’attività speculativa (come molte monete digitali, in primo luogo il BitCoin). In tal modo, riducono il rischio di crisi di liquidità e aprono nuovi spazi per la speculazione, grazie ad una tecnologia che è in grado di creare moneta ex-nihilo, decentrata e dal basso (anche ad alta intensità energetica, come è il caso della block-chain). Non sono quindi monete alternative, cioè in grado di liberare spazi di contropotere monetario e sociale.

È invece possibile creare dei circuiti monetari alternativi grazie a monete digitali locali, create senza necessariamente far uso delle block-chain e quindi eco-compatibili, se l’emissione di tale moneta è finalizzata a remunerare la cooperazione sociale e un sistema di welfare adeguato a quelle che sono le sfide del capitalismo contemporaneo: in primo luogo, il ricatto dal bisogno e il conseguente indebitamento come vincoli che impediscono la piena autodeterminazione degli individui, consentendo loro di riappropriarsi di quella ricchezza sociale che oggi viene espropriata principalmente dal capitalismo bio-cognitivo delle piattaforme. Per un approfondimento su questi temi, mi permetto di rimandare allo sconosciuto Grateful Dead Economy: la psichedelia finanziaria e a Economia politica del comune: sfruttamento e sussunzione nel capitalismo bio-cognitivo.

A.D.: Nel suo libro, utilizzando la teoria delle onde lunghe tecnologiche di Kondratiev, arriva a sostenere che ci dovremmo ormai trovare al confine di un nuovo paradigma tecnologico, peraltro già ampiamente annunciato dagli sviluppi delle capacità di calcolo algoritmiche, da quelli delle bio e nanotecnologie ecc. Da tempo sono apparsi nuovi profeti che, a questo proposito, hanno teorizzato un post-capitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito. Sarà proprio così? Quali sono i principali punti critici, le principali aporie che lei intravede su questo terreno?

A.F.: Credo che sia ancora prematuro affermare se è in atto in questi anni il passaggio ad un nuovo paradigma tecnologico in grado di rompere con quello ICT (Information Communication Technology). È pur vero che negli ultimi anni abbiamo assistito ad una accelerazione del progresso tecnologico, con particolare riguardo alle tecnologie che hanno a che fare con la vita biologica (ζωη) e la vita relazionale (βιος), da un lato, e con i processi di automazione e velocizzazione del calcolo, grazie alle tecnologie algoritmiche. La possibilità di decrittare il genoma nei primi anni nel nuovo millennio e nel 2012 la scoperta di come poterlo modificare con il sistema Crips/Cas9, ovvero l’alfabeto della vita, hanno di fatto aperto la strada alla creazione di materia vivente sintetica, un po’ come la tavola degli elementi del chimico russo Mendeleev aveva consentito la creazione di materia artificiale. La radicalità di queste scoperte sta creando a cascata una serie di ulteriori innovazioni nel campo medico-farmaceutico. Allo stesso tempo, gli algoritmi di I generazione e lo sviluppo delle nanotecnologie consentono in pochi istanti e in micro-spazi di immagazzinare quantità enormi di dati, di organizzarli e manipolarli con capacità di calcolo sino ad ora sconosciute. Le possibili ricadute di queste tecnologie computazionali riguardano i processi di automazione e robotizzazione in molti settori del terziario e del trasporto nonché lo sviluppo di forme ibride tra essere umano e macchina. È facile immaginare come il combinato disposto di queste innovazioni radicali possa incidere (e già lo sta facendo) sulle nostre abitudini, sui processi di organizzazione del lavoro e sulle modalità di relazione sociale.

Su questo tema, inizia a fiorire una folta letteratura, tra chi guarda a questi cambiamenti in modo messianico e chi con paura e diffidenza. Alcuni rapporti (McKinsey, Oxford University, Ocse) paventano un drastico calo dell’occupazione terziaria (che aveva compensato il calo dell’occupazione manifatturiera, in seguito alla digitalizzazione della produzione industriale), senza che si possa intravvedere un nuovo meccanismo di compensazione. Ciò che possiamo dire è che il sistema capitalistico non è per il momento ancora destinato a essere superato. I profitti e le rendite (finanziarie e non solo) stanno vivendo un periodo di forte crescita, nonostante le varie crisi degli ultimi anni e la sindemia di Coronavirus (o proprio per questo), mentre è il fattore lavoro ad essere entrato in sofferenza oramai da più di trent’anni. Certo, il grado di instabilità è fortemente aumentato ma è una caratteristica del sistema capitalistico essere instabile, perché da questa instabilità, e dalla dialettica sociale che si genera, trae la linfa per una continua metamorfosi che gli consente di sopravvivere. Come uno squalo che per vivere è costretto a muoversi continuamente (almeno, così si dice).

I punti di criticità per il capitalismo stanno – a mio avviso – proprio nel fatto che in questi anni i movimenti anticapitalistici sono in forte difficoltà. Solo recentemente, ha cominciato ad emergere una coscienza ambientalista, che tuttavia non ha ancora messo in moto una crisi economica tale da costringere i potentati economici a prendere atto della crisi ecologica e andare oltre il bla, bla, bla di prammatica. Sul piano delle politiche di welfare e della riproduzione sociale, che ritengo essere oggi il vero ambito del conflitto sociale, visto che i processi di sfruttamento non riguardano solo una sfera lavorativa sempre più difficilmente definibile ma l’intera vita degli individui, qualcosa si è mosso grazie ai movimenti femministi. Ma se tali movimenti non sono in grado di dare uno “scossone”, il capitalismo può andare incontro a delle difficoltà di riproduzione visto che se viene lasciato operare in modo indisturbato tende all’autodistruzione (e con lui, tutte/i noi).

 

A.D.: Nel dibattito politico ed economico nazionale molto spazio hanno avuto le decisioni europee legate ai fondi per superare il periodo della pandemia. La cifra complessiva di quella discussione è stata quella dell’ottimismo, lasciando inevasa la valutazione delle condizionalità e del sempiterno ritorno delle regole austeritarie. Meno risalto ha avuto la proposta di un reddito di base garantito scaturita dalla recente Conferenza per il Futuro dell’Europa. Lei, che è da sempre un serio osservatore e studioso di questo tema, può fornirci una valutazione sulla sua attuale maturazione sia in sede nazionale, sia in quella continentale? Ci sono oggi più motivazioni per lavorare con fiducia a un suo ottenimento?

A.F.: L’abbandono temporaneo delle politiche di austerity e il congelamento provvisorio dei vincoli del patto di stabilità in materia di spesa pubblica possono rappresentare una grande opportunità. Tuttavia, non mi sembra che ci siano segnali che vadano in una direzione dell’uso di questi fondi per interventi a favore di un welfare più equo, un fisco più giusto ed un’economia più sostenibile.

La logica neoliberale ancora oggi dominante è quella del New Public Management, un finanziamento garantito dallo Stato (ora possibile grazie al Next Generation Europe) per sovvenzionare investimenti privati nei campi considerati strategici. Ci muoviamo ancora in un ambito di esternalizzazione, liberalizzazione e privatizzazione dei servizi di pubblica utilità e nella gestione dei beni comuni.

Sul tema oggi fondamentale del welfare, le scelte politiche vanno nella direzione di un mix di workfare e sussidiarietà a favore di processi selettivi e fortemente condizionati nell’offerta dei servizi sociali (sanità, istruzione, previdenza, mobilità, alloggio, ecc.). Ciò non deve stupire: i settori del welfare sono quelli a maggior valore aggiunto, i più appetibili per il profitto e la rendita privata, anche perché i servizi di welfare sono oramai diventati un regime di produzione, ovvero sono direttamente produttivi di plusvalore.

In questo contesto, le varie forme di erogazione diretta di reddito rientrano più nella logica del workfare, come è il caso di quasi tutte le leggi che nei vari paesi europei hanno introdotto forme di reddito di base. E questo anche il caso dell’Italia, che vede la proroga del reddito di cittadinanza per il 2022 con una formula ancor più condizionata e workfarista.

È comunque positivo che oggi la proposta di un reddito di base non sia più un tabù come 20 anni fa, quando eravamo veramente in pochi a proporlo come strumenti di conflitto e di equità. È però necessario fare un passo ulteriore e cominciare a riconoscere che misure di reddito di base sono misure di remunerazione di un’attività produttiva di (plus)valore che oggi, poiché è connessa con gli atti della vita quotidiana, non è certificata come tale e quindi non è remunerata. Per definizione, in quanto strumento di remunerazione, il reddito minimo di base è per sua natura incondizionato e non è perciò una misura assistenziale, che richiede una contropartita di partecipazione al mercato del lavoro. Tra reddito di base e politiche attive del lavoro la differenza è “strutturale” e le due politiche non devono essere confuse, come si fa oggi in modo strumentale. È importante, inoltre, che venga introdotto un salario minimo orario per impedire politiche di dumping salariale e la guerra tra poveri. Le due misure non sono alternative, come qualche sindacato ancora pensa, ma sinergiche e complementari: il reddito remunera ciò che oggi gratuitamente genera valore per il capitale in modo non riconosciuto, il salario remunera invece il lavoro certificato e riconosciuto.

Tali proposte dovrebbero essere inserite in una proposta complessiva di welfare, che contempli anche l’accesso libero e gratuito ai servizi sociali primari e la gestione comunitaria dei beni comuni. E, last but not least, sarebbe necessario un movimento sociale a livello come minimo europeo per arrivare a definire una politica sociale e fiscale comune. Esiste una forza di sinistra e movimenti autorganizzati che se ne possano far carico? Al riguardo, c’è ancora molta strada da fare e il dibattito che si è svolto in Italia nei mesi del lockdown riguardo l’erogazione di reddito lo conferma. Invece di convergere verso una proposta comune per chiedere l’estensione del reddito di cittadinanza con finanziamenti decisamente più cospicui e l’eliminazione delle condizionalità (verso un reddito minimo incondizionato), le diverse anime del movimento hanno perorato la causa di una molteplicità di redditi (reddito di emergenza, di cura, di quarantena, per gli artisti, ecc.).

 

* Andrea Fumagalli è docente di economia all’Università di Pavia. È stato fondatore della rivista «Altreragioni». Con Sergio Bologna ha curato Il lavoro autonomo di seconda generazione (Feltrinelli, 1997). Altri suoi lavori sono: Bioeconomia e capitalismo cognitivo (Carocci, 2007), La moneta nell’impero (insieme a Christian Marazzi e Adelino Zanini, ombre corte, 2002) ed Economia politica del comune (2017). E’ socio fondatore e vicepresidente dell’Associazione Basic Income Network (BIN) Italia.

Tratto da Transform

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