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Bisogni Comuni. I precari tra autovalorizzazione e comando

di Andrea Tiddi e Rafael Di Maio

Nelle metropoli solcate dai canali della valorizzazione capitalistica  vive una forza lavoro pronta alla cooperazione, allo scambio, alla reciproca valorizzazione. L’esigenza di socializzazione dei processi, di ricomposizione del soggetto, che nasce nelle reti della cooperazione metropolitana diffusa, si oppone alla tendenza all’individualizzazione del rapporto di lavoro, alla separazione formale del lavoro vivo. La metropoli, allora, è anche il luogo dell’esplicitazione dei bisogni di vita e delle qualità dei soggetti. Le rivendicazioni dei precari riguardano bisogni generali, bisogni la cui mancata soluzione lede alla costituzione del soggetto e della sua vita insieme agli altri.

Metropoli globali

La metropoli è un luogo di promesse. Nella grande città si intravede la possibilità di indipendenza dai vincoli tradizionali, dalle relazioni della vita familiare, dai rapporti personali. Si legge in essa la possibilità di sperimentare una socialità diversa. Si va alla città “perché lì c’è vita”, ci sono opportunità, come hanno sempre saputo i migranti. Il loro viaggio è sempre stato un’apertura, un appuntamento con la vita. Quando si è in fuga, quando si è sradicati e senza patria, la città in generale, e soprattutto la metropoli, rappresenta per l’esule una possibilità, luogo delle opportunità e delle aspettative, oltre che dell’anonimato. Le opportunità, e le aspettative che su esse riposano, sembrano estendersi in maniera direttamente proporzionale al crescere dell’estensione e dell’intensità dell’interazione tra i soggetti. I migranti questo nesso lo hanno sempre inteso e lo intendono ancora, nel suo significato più immediato, quel significato profondo che matura di fronte all’esperienza del rischio per la propria sopravvivenza e si cerca rifugio e nuove possibilità ancora.

La metropoli è spazio di libertà, ma anche lo spazio dell’essere insieme dei molti soggetti che la abitano. Un etre-avec, dice Jean-Luc Nancy, forse un’anticipazione un po’ maldestra di un comune a venire, che è ancora folla, ma che nella sua estensione prospettica crea i presupposti di una differente precipitazione dell’essere e dell’abitare, intuizione di un co-abitare – per dire un abitare insieme. La metropoli conserva, nel legame collettivo permanente nella condizione di prossimità, di vicinanza e di comunanza potenziale delle esperienze soggettive che la connota, una sorta di promessa originaria. Che questo nesso di socialità diffusa si trasformi poi in vincolo, suscitando chiusure e compressioni, ghetti e militarizzazione dello spazio abitato, è conseguenza del rovesciamento di questi presupposti di prossimità e di vita associata della grande città, un “tradimento” del suo essere spazio pubblico enormemente allargato e potenziato. La metropoli si mostra, allora, in questa inversione di senso, come spazio totale di consumo e di lavoro, lo spazio nel quale anche la socialità è sottoposta ai vincoli del mercato, dove chi consuma paga e chi lavora è sottopagato. Lo spazio comune di esistenza muta nel suo contrario, in spazio dell’assenza, spazio individualizzato da difendere più che da condividere, da sottrarre agli altri, piuttosto che da socializzare. Ciò che era potenziale espressione di uno spazio comunemente libero diventa il luogo della coazione. La civitas nova metropolitana si trasforma in spazio della separazione, dell’espropriazione, dello sfruttamento. Un presupposto di vita in comune si ribalta in strumento di repressione. I suoi spazi diventano costrizioni, percorsi obbligati della routine e dell’indifferenza. La ricchezza potenziale dei suoi tempi si tramuta in povertà d’esperienza.

E’ probabilmente per questo motivo che, oggi, la metropoli è divenuta luogo di scontro e di lotta, anzi è un luogo in cui la lotta e lo scontro sono permanenti, dove le grandi fiammate sono solo l’esplicitarsi di qualcosa che ha già maturato nel profondo. La metropoli, con la sua concentrazione di capitali e lavoro vivo, esplicita tutte le contraddizioni del sistema postfordista al livello più alto, le riproduce su di sé, sulla vita che la abita, sull’intero sistema di relazioni che l’attraversa. A Los Angeles, dove è la forma ghetto a esplodere nella crisi della “tolleranza zero” neoliberista, o a Buenos Aires, dove è l’intera città, con i suoi abitanti, che esplode nella combustione dell’economia di mercato, la centralità della metropoli nella definizione dei percorsi delle soggettività è evidente. Lo sciopero generalizzato dei piqueteros, con i blocchi delle arterie che portano le merci e i corpi nella città e fuori della città, è forse, in questo senso, una grande anticipazione delle soggettività a venire. Il picchettaggio delle arterie cittadine, lo sciopero generalizzato all’intero tessuto urbano, ha scoperto che, bloccando la metropoli, si blocca la produzione e la circolazione delle merci, e così esso profila un’astensione della vita dal lavoro e dal mercato sul livello stesso sul quale il lavoro ed il mercato si sono riassestati, riorganizzati, ristrutturati.

Non intendiamo, qui, una metropoli chiusa, definita da striature concentriche, immobile, ma la metropoli come spazio liscio, disteso, transitato, globale. Una metropoli che concentra, ma i cui confini e periferie vediamo sfumare all’infinito. In questa metropoli globale fermentano gli scambi sociali, le relazioni di senso, le capacità singolari, la libertà e la potenza di cooperazione dei soggetti, tutti quei momenti della vita che il lavoro postfordista mette poi in produzione. La metropoli globale è il luogo dove questa potenza immateriale converge, con le sue relazioni, la sua comunicazione, la sua socialità, ma dove converge anche la ristrutturazione del lavoro e del mercato al più alto livello, laboratorio di sperimentazione privilegiato anche dal profitto.

Anche il conflitto metropolitano, con le sue modalità e forme, espressione forte della soggettività, ha una ricaduta di valore, è esso stesso produttivo di valore per il mercato, anzi si profila come luogo prediletto della creazione di valore-innovazione. Le merci sono catalizzatori di soggettività e l’antagonismo sociale esprime questa soggettività ad un livello alto, quindi può essere paradossalmente incorporato esso stesso nella merce diventando suo valore aggiunto. Per esempio, le culture giovanili, che sempre, con le loro forme di comunicazione spontanea, nella metropoli hanno espresso differenza e latente antagonismo, sono un crogiolo di senso dal quale il mercato trae spunto per articoli innovativi. Il conflitto urbano, gli stili e le forme di vita non integrati, persino quelli “devianti”, tramutano, da valore sociale – espressione autonoma delle soggettività – in valore per il mercato, e così trovano cittadinanza nella società della compravendita. Una sensibilità musicale, un’estetica del corpo, una modalità di comportamento spontaneamente affermatesi ed espressioni del dirompente desiderio di libertà dei soggetti possono essere incorporate nella forma-merce e risocializzate dal consumo, strappate dal microcosmo culturale che le ha prodotte e presentate come merci all’intero pubblico degli acquirenti. In questi passaggi dello scambio asimmetrico tra soggettività e mercato, la vita culturale della metropoli è messa a valore, è messa genericamente al lavoro, un lavoro oltre il lavoro. Gli spazi della metropoli vengono di continuo attraversati e riempiti dai tempi molteplici dei soggetti, dalla loro interazione. L’interazione tra soggetti è “produttiva” di  profitto perché produce un bene prezioso, competitivo sul mercato: l’innovazione.

In questo fermento della vita metropolitana la produttività del lavoro vivo sociale è già oltre il lavoro, oltre i ritmi e i tempi definiti dal lavoro. Ciò ci mostra una produzione che coinvolge tutti coloro che abitano lo spazio metropolitano, nella loro interezza, con loro dinamiche e qualità sociali e singolari. Una produttività  non  riducibile ai tempi e agli spazi della prestazione formale di lavoro, che piuttosto evidenzia una produttività reale generica dei tempi molteplici dei soggetti interagenti. Uno spazio produttivo che già coincide con la metropoli globale, che diviene punto estremo di concentrazione del tempo generico delle relazioni tra soggetti.

 

Campo di forze

La metropoli è lo spazio articolato e disegnato dai processi di valorizzazione del capitale, ma è anche l’habitat in cui vive un soggetto che è l’epicentro delle contraddizioni del postfordismo. Tra metropoli e soggetti si è prodotta una corrispondenza che continuamente rimanda l’una sugli altri. La metropoli è una concentrazione di soggetti comunicanti che intessono reciprocamente relazioni e, quindi, operano e si destreggiano nella comunicazione, per i quali la comunicazione diviene il piano immanente del loro essere insieme. Parlare di metropoli è impossibile senza parlare del soggetto della produzione, quel soggetto che attraversa i suoi spazi e, senza sosta, ne ridefinisce i percorsi di senso, e con ciò le traiettorie della produzione. Significa parlare del soggetto che riconosce la metropoli come proprio spazio di vita, ma soprattutto come possibilità di una nuova relazionalità, senza vincoli e chiusure, una socialità aperta e costruttiva. Nelle metropoli solcate dai canali della valorizzazione capitalistica  vive una forza lavoro pronta alla cooperazione, allo scambio, alla reciproca valorizzazione. Una forza lavoro generica che si è iniziato a dire ‘precaria’ in quanto collocata in una posizione di perenne instabilità di vita. Instabilità che ha origine nella contraddizione tra il continuo essere dentro ed essere fuori dal processo, o meglio tra l’essere realmente dentro ma formalmente fuori da esso, tra cooperazione ed esclusione. Il precario è un operatore generico che con un salario sottopagato produce relazioni e mette a valore le facoltà cognitive, linguistiche e immateriali, del suo essere. Un lavoro immateriale, diffuso, modulare, che valorizza la soggettività, con le sue pulsioni, passioni, invenzioni. E’ precario perché sottoposto al ricatto del reddito, frammentato nei suoi tempi e spazi di esistenza e di attività. Una discontinuità dell’esperienza scandita dal mercato, dalla ristrutturazione incessante del processo, dal just in time e dalla flessibilità coatta. Egli è posto al centro della contraddizione di un’esistenza sempre più coinvolta in una generale produttività delle relazioni e, allo stesso tempo, esposta al costante rischio di esclusione, soprattutto di esclusione dalla redistribuzione delle ricchezze e dalle certezze per il futuro. Una polarità in tensione, quella che si delinea tra cooperazione ed esclusione, che attraversa l’esperienza di questa forza lavoro in ogni latitudine del globo.

Lo spazio del precario è la frontiera, il suo spazio di vita è uno spazio di transito, senza stabilità duratura, mai fuori e mai dentro, sempre esterno e sempre interno. La metropoli, per i precari, si identifica spesso in con questo spazio liminare di vita. Il precario in essa è un uomo-frontiera, la metropoli stessa è ormai solo un confine estremamente dilatato, concentrazione delle tensioni tra ciò che formalmente è dentro e ciò che realmente resta fuori, il luogo dove la possibilità si ribalta nel suo contrario, in mancanza, privazione, bisogno inappagato, desiderio frustrato. Un soggetto del transito permanente su quel bordo metropolitano.  Questa è l’esperienza della precarietà, ed è anche lo spirito della metropoli globale, spazio essa stessa di un antagonismo permanente. La dimensione liminare è il modo di vivere proprio del precario catturato nella tensione tra la socialità informale delle reti comunicative spontanee e la formalità dei processi di capitale e del tempo di lavoro, tra non lavoro e lavoro, tra vita e profitto, tra esigenze del vivere in comune e addestramento alla competitività, tra gratuità e strumentalità. Si crea una dinamica di soggettivazione  costantemente tesa tra le esigenze della propria autorealizzazione e la necessità di riproduzione del capitale, tra autonomia e comando.

Questa tensione percorre dinamicamente la soggettivazione precaria come fosse dentro un campo di forze, in una dinamica di tensioni contrapposte, forze di una polarità antagonista, contrapposizione tra due momenti, 1) quello dei dispositivi di enunciazione costituenti, che si producono nelle reti di relazioni sociali oltre il mercato, e 2) quello dei dispositivi normativi esterni e sistemici, con cui si impone ai soggetti la gouvernance, il comando sul lavoro vivo. Il precario si ritrova davanti al contrasto tra le possibilità di libera espressione e l’adattamento ai vincoli normativi, tra espressività vincolata e libertà creativa, tra comportamenti integrati e momenti di rottura soggettiva. Tutto nel momento stesso in cui abita, opera e produce. In un certo senso, in questo modo, i dispositivi di costrizione esteriori nei percorsi e nei processi di formazione della soggettività, tendono a riprodurre un tipo determinato di soggettività, una soggettività “controllata” e “autocontrollata”.

Questa contrapposizione esprime due differenti rapporti di scambio ai quali il precario partecipa, quelli di mercato, dove la sua soggettività sociale è soppesata sulla bilancia dell’utile d’impresa, e quelli cooperativi spontanei, autonomi, autocostituenti, che sono la sostanza, l’essenza, delle sue capacità soggettive. L’esigenza di socializzazione dei processi, di ricomposizione del soggetto, che nasce nelle reti della cooperazione metropolitana diffusa, si oppone alla tendenza all’individualizzazione del rapporto di lavoro, alla separazione formale del lavoro vivo. La contrapposizione ricade in ogni processo nel quale egli è coinvolto, nelle sue relazioni con se stesso, con gli altri e con l’ambiente che lo circonda. Di qui, essa finisce col produrre due tipi di soggettivazione, due antropologie antagonistiche, una cooperativa, in sé orizzontale e strategicamente redistributiva, e una competitiva, gerarchica e direttamente sottrattiva.

Lo scontro ontologico tra verticalità della forma gerarchica e orizzontalità dei processi della vita è portato nelle dinamiche del precariato, ossia per il precario come soggetto di frontiera tra la libera espressione della vita relazionale e le forme della sua coazione, come il mercato, come il lavoro. Per dirla con Georg Simmel, è “la vita che in ogni possibile sfera si ribella contro questo suo dover scorrere in forme fisse di qualsiasi specie”. La risoluzione della vita in una forma determinata, in questo caso, non solo sembra improbabile, ma addirittura impossibile, data la sua eterogeneità e generalità. Il precario è il soggetto che porta all’estremo questo scontro tra vita e forma. Una contraddizione che gli si presenta senza soluzione, senza mediazione possibile tra i due momenti. A questo livello di antagonismo non c’è più mediazione: o c’è liberazione o sussunzione. Ancora con Simmel potremmo ripetere che “presentemente noi siamo in mezzo a questa nuova fase dell’antica lotta, che non è più lotta della forma oggi riempita dalla vita contro la vecchia divenuta priva di vita, ma lotta della vita contro la forma in generale, contro il principio della forma”. Il precario assapora la libertà della cooperazione realmente diffusa e generale, ma è costretto a sottomettersi alla coazione di un comando sistemico ad essa esteriore. Siamo di fronte allo scontro tra la vita contro la forma in quanto tali.

Bisogni comuni

Abbiamo ora di fronte, non soltanto la metropoli del capitale, la metropoli delle concentrazioni finanziarie, ma innanzitutto la metropoli dei soggetti, con le loro tensioni. La metropoli è il luogo che si attraversa, che si abita, il luogo dove si comunica, dove si socializza, dove ci si forma e ci si informa. La metropoli, allora, è anche il luogo dell’esplicitazione dei bisogni di vita e delle qualità dei soggetti. Le qualità soggettive di formarsi, di comunicare, di informarsi, di muoversi, di socializzare costituiscono il modo d’essere proprio della forza lavoro postfordista. Qualità a ben vedere non riducibili al contesto di lavoro, e che attraversano, invece, tutti i territori del tempo generico e comune dei soggetti.

Il lavoro sociale, sempre più esplicitamente orientato all’attività di servizio, fondato cioè sulla relazione di reciprocità formale tra operatore ed utente, diventa un lavoro relazionale in senso ampio, un lavoro che comunica, che necessita di formazione permanente, che si muove nello spazio, che lo abita e vi produce esperienze e significati. Questi contenuti dell’attività di servizio sono i contenuti dell’interazione e della comunicazione. I servizi non a caso sono beni che soddisfano bisogni diffusi, beni comuni, beni che sono fondamento materiale del vivere insieme, la cui equidistribuzione costituisce la garanzia indispensabile affinché si producano relazioni simmetriche, non gerarchiche, non strumentali, altre rispetto alle asimmetrie dei rapporti di mercato. Beni che, d’altro canto, si producono da relazioni, saperi, comunicazione, informazioni, socialità, affetti, sentimenti, passioni, attività dell’intelligenza collettiva.

E’ soprattutto per questo che la composizione del precariato si presenta doppia: da un lato, mostrando il precario come colui che lavora svolgendo spesso attività di servizio (come operatore della comunicazione o come “badante”, come operatore sociale o come informatico); e, però, dall’altro, il precario è anche colui che utilizza i servizi, il destinatario dell’economia che egli stesso mette in movimento con la sua prestazione (come fruitore di comunicazione e come “bisognoso di cura”, come border line e come utente delle nuove tecnologie). In questo senso, in riferimento alla composizione del precariato, potremmo dire che questi bisogni ad esso “comuni” lo sono sulla base dell’altissimo livello di genericità (e di astrazione) che presentano nel processo di produzione. Generalità e genericità determinate dall’abitare uno ‘spazio comune’, spazio nel quale il precario vive e coopera, nel quale l’insieme è produttivo in sé, in quanto insieme.

Le rivendicazioni dei precari riguardano bisogni generali, bisogni la cui mancata soluzione lede alla costituzione del soggetto e della sua vita insieme agli altri. Per esempio, le tecnologie dell’informazione, centrali nella attuale fase di sviluppo capitalistico, sono strumenti che tendono a potenziare l’articolazione comunicativo-relazionale e flessibile nella quale si realizza questa cooperazione tra i soggetti. Esse sono mezzi indispensabili per un lavoro socialmente dispiegato. Se esse rappresentano un valore per il capitale, lo sono solo in maniera contraddittoria, perché la potenza che esse riconnettono è innanzitutto la potenza dell’autocostituzione dei soggetti che cooperano, soggetti che nelle capacità comunicative-relazionali trovano un punto di forza. Non è un caso che il restringimento dell’accesso a questi beni e servizi sia diventato uno strumento di controllo – e che, contemporaneamente, stai facendosi avanti tra i precari la questione speculare e contrapposta della lotta all’istituto del copyright e della proprietà intellettuale. La distribuzione iniqua e selettiva degli accessi si rivela un potente strumento di comando e di divisione, esattamente ciò che si contrappone alle istanze di autocostituzione delle soggettività.

La redistribuzione di questi beni che aprono possibilità ai soggetti nelle loro relazioni è forse l’inizio di una ricostruzione del legame collettivo lacerato dalle strategie dell’economia di mercato. Il ricatto del bisogno è un potente mezzo di comando, di coazione e di sottomissione, sotto il cui gioco si può in linea di massima accettare tutto, anche il ribasso del salario, anche la guerra di concorrenza con gli altri precari. Redistribuire accessi e ricchezze vuol dire, al contrario, rafforzare soggettivamente i precari, vuol dire aumentare la loro libertà di scelta, dispiegando possibilità reali. Vuol dire, allo stesso tempo, rimuovere i vincoli imposti alla cooperazione sociale, e favorire i processi della sua libera espressione.

Si può individuare una rosa di bisogni che, in linea di tendenza, diventeranno centrali nelle rivendicazioni comuni dei precari in riferimento alla loro condizione di vita. Essi poggiano sul piano comune della vita in quanto tale. I primi momenti di rivendicazione che, non a caso, emergono riguardano il bisogno di:

formazione permanente, là dove sempre più incessante è la richiesta di saperi da parte dei soggetti che in essa vedono una possibilità, non solo per non rimanere (privati di competenze) estromessi dall’incessante innovarsi dei processi, ma innanzitutto perché essa offre la possibilità di sperimentarsi e inventarsi. Per i precari questo ha un senso profondo dal momento che essi, con queste capacità, si relazionano immediatamente, in ogni istante della loro esistenza, nel lavoro e nel non lavoro;

comunicazione, là dove il libero accesso ad essa è garanzia per usare mezzi primari con cui produrre e con cui organizzare le proprie attività. Il possesso ineguale di saperi e accessi alla comunicazione ha un valore discriminante, definisce un’internità selettiva ai processi sociali;

informazione, là dove il libero accesso ad essa permette al precario estremamente mobile sul mercato di intercettare le occasioni per la propria sopravvivenza. La privazione dell’informazioni definisce l’intero sistema delle reti di esclusione contro le quali s’infrangono le aspettative e i desideri dei precari;

spazi di socialità, là dove i luoghi di libera espressione, aggregazione, realizzazione, indispensabili ai soggetti sono divenuti progressivamente “esclusivi”. Là dove la privazione (attraverso la privatizzazione) dello spazio è divenuta modalità concreta di comando e repressione, e l’individuo monadico, delimitato, conchiuso, una specifica forma antropologica della separazione;

mobilità, per soddisfare le esigenze di spostamento in un contesto di relazioni sempre più diffuse. Un contesto metropolitano che frammenta, ma che anche unisce i corpi in una medesima rete allargata e, potenzialmente, costituente di rapporti autonomi;

alloggio, là dove i precari, in balia delle dinamiche speculative, si vedono continuamente privati, non solo, come nei casi estremi, di un alloggio vero e proprio, ma in generale della stabilità della condizione abitativa stretta dagli affitti sempre più cari da pagare, là dove anche il mutuo è sempre meno una possibilità per i soggetti del “tempo determinato” che vedono restringersi anche l’accesso al credito;

reddito garantito, là dove esso può essere un supporto reale contro l’esclusione e la marginalizzazione sociale, indispensabile per riacquisire capacità di rifiuto delle offerte al ribasso, per essere più forti di fronte ai ricatti del lavoro, per restituire possibilità alla propria vita, per poter costruire su di essa.

Questi elementi costituiscono i presupposti di un’ipotesi di reddito di cittadinanza generalizzato, universale quanto lo è la condizione della precarietà. Quindi universale in riferimento alla sua estensione sociale. E incondizionato, in quanto sganciato dalla prestazione lavorativa, e diretto, invece, alla valorizzazione della vita e della cooperazione sociale. Questo reddito non può essere inteso dentro una strategia di workfare, che aggancia – neoliberalisticamente – l’erogazione di reddito alla disponibilità al lavoro, come un sussidio temporaneo in attesa di un nuova collocazione produttiva. Questo reddito dovrebbe avere come misura di riferimento la vita associata, la sua autonoma progettualità.. Il reddito di cittadinanza consisterebbe, certo, nell’erogazione di una quota monetaria diretta – come salario generalizzato per la produttività sociale diffusa -, ma anche, integrativamente, di un reddito indiretto, consistente nella garanzia di accesso ai servizi primari.

 

 

 

 

 

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