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L’Europa e l’Italia di fronte alla sfida del reddito di base

di Luca Santini

Di fronte alla crisi della società salariale la proposta del reddito del base (basic income) appare sempre più come l’unica alternativa possibile per le democrazie occidentali.

L’Europa e l’Italia di fronte alla sfida del basic income

-1- Introduzione. Con sempre più insistenza circola negli ambienti politico-culturali e nei segmenti sociali più dinamici e disponibili alla sperimentazione la parola d’ordine del reddito di base. Il basic income nella sua forma pura, per essere compiutamente tale, e dunque per distinguersi dalle varie forme di sussidi e dalle misure di tipo assistenzialistico oggi esistenti, dovrebbe essere universale e incondizionato. L’universalità si traduce nel fatto che l’erogazione viene destinata a tutti i soggetti che compongono la comunità politica, senza distinzioni di sesso, di status giudico, di condizioni personali; il requisito dell’incondizionatezza impone invece che non siano previste cause di decadenza dal beneficio. Nessun obbligo può quindi essere posto in capo al beneficiario, sotto la condizione della revoca del basic income. . Una simile modalità di distribuzione della ricchezza, decisamente alternativa rispetto agli schemi conosciuti della produzione e della riproduzione sociale, ha trovato già, almeno in un’area del globo, una forma di compiuta traduzione in pratica (l’Alaska, infatti, versa incondizionatamente ai suoi cittadini circa 2.000 dollari l’anno, prelevandoli da un fondo costituito dall’utilizzazione delle ingenti risorse naturali quali il petrolio presenti nel suo sottosuolo), mentre in un altro grande Paese protagonista sulla scena mondiale (il Brasile di Lula) l’introduzione di un forma di basic income è stata fissata come obiettivo di lungo periodo (la legge 10.835/2004 ha programmato il passaggio graduale dalla bolsa familia oggi esistente di sostegno ai più poveri al renda básica de cidadania universale e incondizionato).

Si distingue dall’ipotesi di un basic income compiutamente realizzato la proposta del cosiddetto «reddito minimo garantito», cioè di una forma di assicurazione dei mezzi di sussistenza riservata ai soli disoccupati e a coloro che si attestano al di sotto di un determinata soglia di ricchezza; secondo tale seconda ipotesi l’intervento di garanzia del reddito interverrebbe non già in via automatica e per tutti, ma solo in favore di chi può comprovare una situazione specifica di bisogno (occorre insomma superare il cosiddetto means test, la «prova dei mezzi»).

Naturalmente le due ipotesi non necessariamnete si contraddicono, ed anzi possono essere perseguite parallelamente, specie in paesi come l’Italia, i cui sistemi di protezione sociale sono notoriamente poco generosi e del tutto inefficienti nel soddisfare i bisogni di base dei cittadini.

Molti dei maggiori studiosi contemporanei della società e del lavoro, da Alain Supiot a Ulrich Beck, da André Gorz a Zygmunt Bauman, si sono confrontati in anni recenti con il tema della garanzia dei mezzi di sussistenza e hanno auspicato a vario titolo l’introduzione di una qualche forma universalistica di sostegno dell’individuo. Già all’inizio degli anni Novanta un teorico liberale come Ralf Dahrendorf ha sostenuto l’ipotesi del «reddito minimo» come componente fondamentale dei diritti civili, dato che «il suo senso sta nel fatto che segna una postazione di uscita, oltre la quale nessuno deve poter cadere»1. Mentre nella sua recente, formidabile sintesi di teoria del diritto Luigi Ferrajoli ha fornito le argomentazione fondamentali a sostegno dell’opzione del reddito di base nella sua forma pura, in contrapposizione alle misure esistenti di assistenza sociale. Infatti, ricorda l’autore, la proposta del basic income «è quella che in primo luogo si accorda con l’universalismo dei diritti fondamentali e ne consente una più piena e automatica formalizzazione. In secondo luogo ne risulterebbe esclusa qualsiasi connotazione caritatevole ed eliminato il pericolo che essa possa configurarsi come uno stigma sociale del non-lavoro e della povertà. In terzo luogo è la sola misura [che sottrarrebbe] i lavoratori precari al ricatto del massimo sfruttamento … in quarto luogo essa avvantaggerebbe soprattutto i soggetti più deboli, a cominciare dai giovani e dalla donne, se non altro perché ne favorirebbe la sottrazione da vicoli domestici. In quinto luogo, infine, essa varrebbe a ridurre la mediazione burocratica»2 consentendo risparmi grazie alla gestione semplificata delle procedure ed evitando intrusioni da parte dei poteri pubblici nella sfera di riservatezza individuale.

-2- Una questione di dignità. La tensione alla copertura dei bisogni fondamentali e di base dei cittadini risulta già inscritta nelle costituzioni sociali del secondo dopoguerra e prima ancora, forse, seppure in modo ancora implicito, nella scoperta dalla Rivoluzione francese in avanti del meta-principio della dignità umana, valore fondante di tutto il costituzionalismo europeo. Il progressivo riconoscimento delle libertà fondamentali, sin da quando Thomas Hobbes codificò con il suo Leviatano il necessario rispetto del diritto alla vita da parte dei poteri pubblici, ha potuto imporsi proprio a partire dall’idea forza secondo cui tutti gli uomini (e, più tardi, le donne) sono dotati di una pari bagaglio di dignità, intangibile e bisognoso di essere rispettato. Il paradigma dei diritti fondamentali (connesso con il valore della dignità personale) ha conosciuto una dinamica espansiva, grazie alla quale sono stati attribuiti alla sfera pubblica sempre maggiori doveri di tutela nei confronti dei cittadini. Si è avuta così, in epoca liberale e illuministica, la definizione dei diritti civili e di libertà, poi progressivamente si è avuta l’affermazione dei diritti politici grazie all’estendersi del suffragio universale, quindi con le costituzioni del Novecento si è giunti al riconoscimento dei diritti sociali. Anche le battaglie contemporanee per la pace, per il rispetto dell’ambiente, per la correttezza e la trasparenza dell’informazione, per il reddito garantito, configurano una costellazione di «nuovi diritti fondamentali» ancora in attesa di un pieno riconoscimento e di una codificazione a livello costituzionale3.

Oggi è generalmente avvertito l’intimo intreccio che sussiste tra le generazioni successive dei diritti. Infatti i diritti classici di libertà, cosiddetti di prima generazione, rischiano di rimanere sul piano di un’enunciazione astratta se non vengono coniugati con le garanzie (di seconda generazione) di partecipazione alla vita pubblica. Infine i diritti sociali alla sussistenza, all’istruzione, alla sanità, alla previdenza rappresentano la garanzia ultima di effettività di tutti gli altri diritti, sono i presupposti materiali per l’operatività delle stesse prerogative individuali di libertà. Si tratta dunque oggi di proseguire lungo questa strada virtuosa di progressivo arricchimento dei diritti.

Dalla sintesi esigente di tutte le aspettative di tutela di rango costituzionale deriva una nozione ampia e rigorosa di «dignità della persona», da intendere non già come richiamo retorico privo di effettività, bensì come valore di fondo sotteso all’intera parabola del costituzionalismo occidentale. Sarà sufficiente rammentare a tale proposito il riferimento della costituzione tedesca alla «dignità intangibile dell’uomo» (art. 1), oppure quello della costituzione italiana alla «pari dignità sociale» (art. 3), così come in ambito internazionale quello della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata in sede Onu nel 1948 alla «dignità intrinseca» della persona.

L’esplorazione del meta-principio della dignità umana ci può condurre verso una dimensione ancora poco indagata dei diritti fondamentali, quella che rinvia alla possibile codificazione di un «diritto a esistere», ovvero, detto in altri termini, di un diritto a vedersi garantita la base minima per la propria sussistenza. Ciò dovrebbe portarci a prefigurare l’introduzione di una nuova misura di sostegno del reddito e, dunque, della persona umana, svincolata dalle condizioni concrete di esistenza del singolo: una misura, quindi, che non faccia riferimento alla qualità di volta in volta di lavoratore, o di disabile o di svantaggiato del soggetto beneficiario, ma che sia compiutamente universalistica nell’ispirazione di fondo. Si potrebbe in tal modo tratteggiare una sorta di catalogo dei «beni comuni» da garantire a tutti i residenti, tra i quali vanno ricordati beni di base quali la salute, l’abitazione, l’acqua o l’alimentazione, ma anche servizi più sofisticati quali la comunicazione, l’accesso alla vita sociale o l’istruzione. Sotto questo punto di vista anche il lavoro, in una accezione rinnovata delle dimensione sociale dell’individuo, potrebbe essere inserito nel catalogo dei «beni comuni» suscettibili di riconoscimento, anche per rimarcare l’insostenibilità di facili contrapposizioni tra il «lavoro» e il «reddito minimo», che inducono talvolta a sostenere che un’eventuale misura di sostegno di base dei cittadini avrebbe un effetto disincentivante sull’attitudine a trovare un impiego. Vero è semmai che la garanzia dei mezzi vitali limiterebbe l’appetibilità degli impieghi servili, al nero o mal pagati, e non del «lavoro» in quanto tale. Un sostegno compiuto dei cittadini per la soddisfazione dei bisogni di base potrebbe invece contribuire a tessere su nuove basi la partecipazione alla vita collettiva, togliendo vigore all’accezione coercitiva del lavoro, e donando invece nuove possibilità di espressione all’originaria dimensione partecipativa, comunicativa e non-obbligata dell’attività umana, intimamente rivolta alla comunità e al perseguimento del bene collettivo.

-3- La crisi della società salariale. L’accenno alla questione del «lavoro» ci introduce al cuore della questione del basic income e alla particolare urgenza che la carettizza nella  congiuntura contemporanea. Se infatti nel secolo passato la via maestra per il reperimento di risorse sufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa era rappresentato dal salario e in generale dall’accesso al lavoro dipendente, e se lo strumento politico principale per la tutela della dignità sociale della persona era incarnato dalla tensione al pieno impiego (cioè a un lavoro di qualità per tutti), oggi il passaggio verso quella che si suole chiamare economia post-fordista sta disgregando entrambi tali presupposti della giustizia sociale. I fattori di stress del paradigma del pieno impiego sono tali e tanti, da non poter più essere considerati come momenti di ripiego passeggeri, pronti ad essere superati e riassorbiti dalla prossima ondata di crescita o di innovazione tecnologica.

Primo fra tutti, fra i menzionati fattori di stress, va richiamato il fenomeno, di recente tornato alla ribalta dopo un paio di decenni di oblio, della disoccupazione di massa. Il tasso dei senza lavoro viaggia negli USA ormai stabilmente su percentuali a doppia cifra, in modo analogo a quanto sta accadendo in Europa, dove il tasso di disoccupazione ha raggiunto quota 10,1 per cento. In Italia, complice anche un più basso livello di attività complessiva, la disoccupazione si attesta (secondo l’ultimo rapporto dell’Istat, diffuso per la stampa lo scorso 26 maggio) a quota 8,9 per cento (il dato peggiore dal 2001), mentre la quota  dei giovani in cerca di occupazione è addirittura pari al 29,5 per cento del campione (livelli superiori di oltre la metà rispetto a quelli europei). Nell’ultimo anno circa un lavoratore atipico su quattro non ha potuto rinnovare il contratto, mentre anche tra i lavoratori autonomi diminuiscono gli attivi, visto che oltre 100 mila unità sono uscite dal mercato. Dalla morìa di posti di lavoro non ci si può salvare, secondo i dati dell’Istat, neppure incrementando il proprio bagaglio formativo, posto che anche tra i diplomati e i laureati tende a ridursi in modo rilevante la popolazione attiva (diminuita rispettivamente nelle due categorie del 6,9 e del 5,2 per cento). La presenza di un tasso di disoccupazione alto e stabile rappresenta non soltanto un problema per la tenuta sociale degli organismi economici e un drammatico sperpero di risorse sociali: lascia soprattutto emergere, per un modello produttivo come il nostro ancora basato sull’utopia della crescita illimitata, un orizzonte di crisi strutturale, la tendenziale perdita di senso di un complesso sistema di valori. La crisi dapprima finanziaria e poi economica scoppiata nell’estate 2008 sta mettendo in evidenza la totale assenza di idee di un ceto capitalistico internazionale, alle prese con il problema di far ripartire un ciclo virtuoso di accumulazione, senza avere ancora bene individuato una merce o una filiera produttiva quale possibile traino di una rinnovata produzione. Neppure i buoni propositi della green economy obamiana, il cui accoglimento sarebbe beninteso auspicabile per la difesa degli equilibri ecologici del pianeta, paiono in grado di introdurre quella generalizzata innovazione di prodotto e di processo che sarebbe indispensabile per un riassorbimento efficace della manodopera in esubero.

D’altra parte anche i segnali finora riscontrati della ripresa non sono sufficienti a garantire il ritorno del lavoro. Lo spettro della cosiddetta jobless recovery, della ripresa senza occupazione, circola con sempre più insistenza nelle analisi degli economisti. Da ultimo il presidente della Fed Ben Bernanke, pur convinto che non esiste il rischio di una nuova recessione, ha dichiarato che visto il ritmo moderato della crescita la disoccupazione resterà a livelli di massa «ancora per un po’» (Ansa, 8 giugno 2010).

Di questi tempi non se la passa molto meglio chi un lavoro riesce a mantenerlo, se è vero quanto ci dice l’Eurostat (l’ente di statistica della UE) sul fatto che un occupato su otto nel continente europeo vive al di sotto della soglia di povertà. Ecco, quindi, che neppure il lavoro funge più da valido scudo contro i rischi dell’esclusione sociale.

Il ristagno delle retribuzioni, testimoniato in modo plastico dall’esistenza dei working poor, non è che uno degli aspetti di regressione del mercato del lavoro e di scadimento in generale della qualità della prestazione lavorativa nelle nostre società. Dai fatti di Rosarno, con lo sfruttamento quasi schiavistico della manodopera immigrata, fino allo stillicidio quotidiano dei morti sul lavoro, passando per le immagini di operai cassintegrati e privati della forza d’urto conflittuale che un tempo che li caratterizzava, tutto ci parla di un triste congedo progressivo dalla società salariale e del pieno impiego. La scarsa capacità di assorbimento da parte dell’economia formale delle competenze e delle abilità riposte nel seno della cooperazione sociale, è poi confermata da un ulteriore elemento analitico fornito dall’Istat, quello relativo al fenomeno della sottoccupazione. Da un punto di vista soggettivo risulta che un terzo dei laureati è scontento del proprio impiego, mentre complessivamente l’assunzione per mansioni incoerenti e inferiori rispetto alla qualifica posseduta riguarda ormai ben 3,8 milioni di occupati italiani (il 18 per cento del totale).

I tanti casi di fallimento individuale e collettivo all’interno del paradigma del pieno impiego dovrebbero indurci a tematizare una dissociazione del nesso tradizionale tra lavoro e garanzia dei mezzi di sussistenza. Dal momento che il contatto con il mondo del lavoro si fa critico per tutti, e siccome pure l’inserimento nella produzione formale non vale ad allontanare gli spettri della povertà e della esclusione sociale, allora è necessario congegnare su base universalistica una misura di autentica garanzia dei bisogni di base, non subordinata in via di principio alla necessaria partecipazione al mercato del lavoro.

-4- I precari in cerca di risposte. La risultante soggettiva dell’avvento del post-fordismo è l’emergere di una nuova figura sociale, quella del precario, del soggetto cioè per definizione esposto in prima persona allo sgretolamento delle garanzie tradizionali del lavoro, limitato nelle proprie capacità di scelta e nella mobilità sociale. Il precario vive una profonda dissociazione tra inserimento produttivo ed esclusione dalla sfera della soddisfazione dei bisogni e, più ancora, tra attivazione continua della prestazione lavorativa e percezione discontinua della retribuzione. Il precario, complice anche l’emergere di settori produttivi nell’ambito dell’economia terziaria e immateriale, distingue in se stesso un momento di attivazione formale della prestazione lavorativa, in cui un committente chiede la realizzazione dietro pagamento di una determinata attività, e un momento invece di tempo sospeso, in attesa di una nuova «chiamata» da parte del datore di lavoro e di una nuova attivazione della prestazione lavorativa. Ma, quel che è più importante, anche questo secondo tempo di «attesa» è un tempo pieno, consegnato in tutto e per tutto alla «produzione», perché viene riempito dal precario con attività di studio, approfondimento, ricerca di contatti, impegno personale, senza però che tale impiego di risorse venga riconosciuto sul piano sociale mediante il versamento di un salario o di una misura di sostegno del reddito.

L’assenza di adeguato sostegno nei momenti cruciali di transizione lavorativa  determina la ricattabilità del precario, il suo vivere perennemente sulla soglia dell’esclusione, la sua rinuncia forzata al futuro; al contrario la strutturale debolezza del precario nel momento della contrattazione individuale andrebbe compensata proprio dotandolo di un sostegno sufficientemente affidabile e «di base» capace di sostenerlo non tanto, o non esclusivamente, nel contratto, quanto soprattutto nel mercato, cioè nel passaggio da un contratto di lavoro all’altro. Il ricoscimento di questa nuova prerogativa «fornirebbe quel presupposto necessario, in termini di sicurezza individuale … a partire dal quale è possibile pensare [a un mutamento di segno] della flessibilità», a una migliore opportunità per tutti di «dosare tempo di cura, di studio o di formazione con il tempo di lavoro»4 .

Gli anni e i decenni, dalla fine del regime fordista ad oggi, senza che si ponesse rimedio alla condizione dei precari non sono passati invano; la perdurante inerzia della politica nel trovare forme di regolamentazione e di tutela sociale adeguate all’avvento della «produzione flessibile», ha indotto la nascita di una nuova specie di precari, precari della crisi, o di «seconda generazione»5. Se in un primo momento, e segnatamente nel corso degli anni Settanta, la precarietà aveva una componente di attivazione, di scelta, di fuga consapevole da un regime di fabbrica vissuto come opprimente, oggi, al termine della parabola discendente della società salariale, ci troviamo di fronte a un soggetto ormai sensibilmente impoverito e incapace di spendersi con successo su un mercato del lavoro sempre più concorrenziale. Se agli albori del post-fordismo la figura del freelance poteva incarnare l’aspirazione di un soggetto in cerca di autonomia e in grado di manipolare con efficacia gli strumenti sofisticati e innovativi della comunicazione e dell’informatica, oggi all’affacciarsi della crisi di inizio millennio viene alla ribalta una figura di precario massificato, la cui prestazione appare ormai svalorizzata e standardizzata; il novero di competenze tecnologiche e informatiche che un tempo era esclusivo appannaggio del produttore freelance, si è adesso banalizzato, ridotto in moduli formativi omogenei, deprezzato secondo i criteri di mercato. Deriva da un tale svolgimento un soggetto in crisi non più circoscritto ad un settore produttivo, ma esteso all’intera società, paradigmatico dell’intera produzione. Questo nuovo soggetto, che agisce nel contesto di una precarizzazione di massa e generalizzata, non fa più del lavoro un fattore di riconoscimento e di soggettivazione, non si percepisce come soggetto attivo in una società basata sul lavoro, non progetta sulla base dell’impiego il proprio futuro, è invece consapevole proprio della incapacità del lavoro di garantire un futuro degno di questo nome. In questo senso egli appare decisamente contemporaneo alla parabola discendente della società salariale.

Per quanto riguarda l’orizzonte italiano i dati ci parlano di una forza lavoro sfiduciata, composta di oltre 2 milioni di under-30 in condizione di totale dipendenza dalla famiglie di origine, in una sorta di limbo esistenziale, tra un contratto precario e l’altro, al di fuori di qualsiasi percorso formativo o lavorativo. In questa che è stata definita neet generation (né occupata, né in formazione) vi è un misto di sfiducia per la mancata realizzazione delle aspettative, di rabbia per una condizione sociale inaccettabile,  di pragmatico «rifiuto» nei confronti di un mondo del lavoro respingente che non lascia quasi più speranze di successo e di affermazione personale.

-5- Segnali per il futuro. Non si può tacere della posizione di totale chiusura da parte dei governanti italiani sul tema delle nuove tutele, come testimoniato dalla rigida e «ideologica» contrarietà (non motivata come si potrebbe presumere su esigenze di bilancio) nei confronti di qualsiasi schema di reddito di base da parte del Ministro del Welfare, il quale ancora di recente tornava a dichiarare: «non regaleremo mai un reddito minimo garantito che porterebbe di fatto alla esclusione dal mondo del lavoro di una fascia di persone» (Adnkronos, 13 marzo 2010). Il nostro Paese, quindi, alla luce di questi intendimenti, continuerà ed essere privo di una safety net degna di questo nome (a differenza di tutti i nostri partner europei tranne Grecia e Ungheria), carente sul piano della tutela del reddito per i lavoratori (circa la metà dei nostri disoccupati non percepisce alcun sussidio), ancorato per fronteggiare la crisi a misure inique, antiquate e discrezionali come la cassa integrazione straordinaria e gli ammortizzatori in deroga6.

Un boccata d’ossigeno in questa congiuntura sfavorevole potrebbe venire però dall’Europa, dove la parola d’ordine del «reddito minimo garantito» ha compiuto dei significativi passi in avanti. A cominciare dall’importante riconoscimento contenuto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea firmata a Nizza, che ha legato strettamente (all’art. 34) il diritto al reddito e all’assistenza abitativa alla dignità della persona, passando per le linee guida diffuse dalla Commissione in tema di flexicurity, fino ad arrivare soprattutto alle aperture del Parlamento europeo in favore del basic income7, si può certo riconoscere come in ambito comunitario si stia facendo largo una concezione garantista dei diritti sociali, oltre l’immaginario fordista del pieno impiego.

Vi è dunque lo spazio per un intervento della società civile e dei cittadini europei, prioritariamente diretto verso il Parlamento europeo, allo scopo di favorire una sedimentazione normativa dei testi finora non vincolanti prodotti dalla istituzioni comunitarie. Il Bin-Italia guarda con particolare interesse ai nuovi strumenti che il Trattato di Lisbona (in vigore da dicembre 2009) ha messo a disposizioni della cittadinanza e in particolare alla possibilità di rivolgere petizioni popolari, affinché gli organi comunitari prendano iniziative di tipo legislativo nelle materie rientranti nelle loro competenze7. A partite dalla fine dell’anno, quando saranno a disposizione gli strumenti attuativi, sarà possibile procedere alla raccolta di un milione di firme, per indurre Parlamento e Commissione a prendere chiara e aperta posizione su alcuni temi sociali, primo fra tutti quello della tutela dei mezzi di sussistenza. Le organizzazioni della società civile potrebbero così offrire il loro tangibile contributo «dal basso» per rivitalizzare in senso sociale la costruzione comunitaria e per sollecitare una modalità di uscita dalla crisi che non riduca in macerie (come sta avvenendo sotto i nostro occhi) quel che resta dell’edificio istituzionale e politico del continente.

Roma, giugno 2010

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NOTE

* Presidente del Basic Income Network – Italia (Bin-Italia).

1 R. Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 147.

2 L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia. Vol. 2 – Teoria della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2007, pp.407-08.

3 Per un storia dei diritti fondamentali, dalla loro affermazione, modificazione, estensione si veda N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990.

4 M. Bascetta, G. Bronzini, “Il reddito universale nella crisi della società del lavoro”, in AA.VV., La democrazia del reddito universale, Manifestolibri, Roma 1997, p. 16.

5 Sulla nozione di precario di seconda generazione mi si permetta di rinviare a S.Gobetti, L. Santini, “La necessità dell’alternativa. Il precario della crisi e il reddito garantito”, pp. 46-57, nel volume del Basic Income Network – Italia, Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, Manifestolibri, Roma 2009. Sul medesimo concetto si veda pure, nello stesso volume, A. Tiddi, “La soglia critica del reddito di cittadinanza”, pp. 223-229.

6 Va segnalata e valorizzata, come indicazione in controtendenza, la legge laziale sul reddito minimo garantito (L.R. 4/2009), che il Bin – Italia ha salutato come possibile momento di svolta per le politiche sociali del nostro paese.

7 Si veda soprattutto la risoluzione 2008/2335 sul coinvolgimento attivo delle persone escluse dal mercato del lavoro (scaricabile sul sito www.bin-italia.org), in cui possono trovarsi affermazioni del tipo: «i gruppi vulnerabili impossibilitati a partecipare al mercato del lavoro hanno diritto a una vita dignitosa e a una piena partecipazione sociale e, pertanto, chiunque deve poter disporre di un reddito minimo e dell’accesso a servizi sociali … l’integrazione nel mercato del lavoro non deve rappresentare un requisito necessario per il diritto a un reddito minimo e l’accesso a servizi sociali di qualità …il concetto secondo cui il lavoro è il
modo più efficace per affrancarsi dall’esclusione può essere valido solo se tale lavoro è sostenibile, di qualità e adeguatamente retribuito … l’assistenza sociale dovrebbe fornire un reddito minimo consono a una vita dignitosa, quanto meno a un livello al di sopra della soglia a rischio di povertà e sufficiente a far uscire le persone dalla povertà e che occorre migliorare l’utilizzo dei sussidi …invita gli Stati membri a valutare l’introduzione di tariffe sociali predefinite per i gruppi vulnerabili, ad esempio nel settore dell’energia e dei trasporti pubblici».

7 Si veda per un approfondimento G. Allegri, La partecipazione democratica dopo Lisbona, sul sito www.bin-italia.org.

 

Pubblicato su: Formazione & Lavoro” n. 2/2010

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