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Verso una proposta di legge regionale per l’’istituzione di un reddito minimo garantito

di Sandro Gobetti

Il percorso avviato dalla Regione Lazio ad oggi non ha ancora avuto un esito finale relativamente alla definizione di una legge in merito al reddito minimo. Però un percorso si è avviato ed ha prodotto delle proposte di legge, relativamente a questo percorso farò una serie di considerazioni che si legano anche alle osservazioni dell’assessore (Cosolini). Anche se debbo dire che in questo convengo ho cambiato idea un paio di volte sulle definizioni di alcuni termini. Lo dico nel senso che il termine “soggetti deboli” nel percorso avviato nel Lazio non l’abbiamo mai utilizzato. Questo perché, come diceva prima anche l’assessore, abbiamo ragionato su un piano di “capitale umano”, del fatto che sostanzialmente ci troviamo in una situazione in cui con il termine “soggetto debole” non riusciamo a cogliere le complessità di cui andiamo discutendo.

Quando una persona è soggetto debole? Quando esce da una processo di inserimento nel mercato del lavoro? Oppure un soggetto che cambia molti lavori può essere definito “forte” viste le competenze che acquisisce di volta in volta e la capacità di adattamento? Quindi l’uso del termine “soggetti deboli” rischia di rendere fuorviante il discorso. Non è un caso che il tema del reddito garantito nel Lazio sia stato posto dall’Assessorato al lavoro e non da quello alle politiche sociali, perché si è voluto affrontare questo tema, non tanto nel momento in cui si determina un’ esito finale – cioè quando un lavoratore diventa debole perché è fuoriuscito dal mercato del lavoro – ma è stato posto come elemento di rafforzamento verso il lavoratore, cioè quando il soggetto vive la flessibilità lavorativa e che in assenza delle appropriate garanzie rischia di entrare in una dinamica che lo rende debole. Cioè ricattabile per esempio sul piano salariale, dei diritti e ancor di più della scelta. Avere un reddito garantito permette il rifiuto del lavoro sottopagato e aumenta la possibilità di scelta di una collocazione lavorativa. Quindi non come strumento che interviene come ultima istanza, ma trovare delle forme affinché non sia necessaria intervenire nella fase di estrema povertà. Il riconoscimento di una garanzia, di un sostegno al reddito parte proprio dalle riflessioni che faceva prima l’assessore, nel senso che nel momento in cui viene riconosciuto al capitale umano un elemento di produttività, la garanzia di reddito va considerata dentro al riconoscimento del lavoro che viene prodotto, questo anche quando si è oltre il riconoscimento del lavoro cosidetto formale. Non è necessario aver sottoscritto un contratto di lavoro per definire attività produttive. Relativamente a ciò è evidente che dovremmo fare una riflessione su come è cambiato il mondo del lavoro e dove e come oggi si produce anche oltre il lavoro formale. Và individuata una forma di riconoscimento di questo capitale umano in attività e quindi in produzione anche oltre il tempo di lavoro. Quando lo cerca, per esempio, quando studia per aggiornarsi, quando fa formazione per essere pronto alle richieste del mercato del lavoro, nelle capacità e nelle competenze che sviluppa oltre il tempo di lavoro ma che mette a valore quando è nel tempo di lavoro, quando fa lavori domestici, di cura, di relazione che sono oltre il tempo di lavoro, quando impara un nuovo programma software che serve a mantenerlo attivo e quindi pronto alle fluttuazioni del mercato del lavoro, in tutte quelle attività o hobbyes che spesso sono richiesti nei lavori in cui è forte la necessità di relazionarsi agli altri, di avere capacità di problem solving che spesso sono date dall’esperienza personale, insomma un riconoscimento delle attività oltre il lavoro formale che sono già esse stesse, in particolare oggi, necessarie per entrare in un mondo del lavoro che cambia con estrema velocità richiedendo ai soggetti una capacità di adattamento particolare.

Nella futura legge che stiamo incominciando a scrivere nel Lazio, frutto di diverse proposte di legge, l’elemento della formazione e in particolare della long-life learning, della formazione a ciclo continuo nella vita cosi da poter essere sempre all’interno di un mercato del lavoro che si è fatto flessibile, dà adito e sostiene la tesi sopra espressa. Se è necessario che ci si sottoponga ad una formazione continua per tutto il corso della vita, significa riconoscere le capacità del soggetto, significa implementarle, significa avere un tempo a disposizione, formandosi, per poter essere spendibili nel mercato del lavoro. Ma questo tempo come viene riconosciuto? Come possiamo non dire che sia tempo produttivo?. Un tentativo di non rendere separato, sotto un profilo formale delle garanzie, il tempo tra formazione e lavoro, perché è la finalità stessa, cioè la necessità di essere formato per tutta la vita cosi da essere spendibile sul mercato del lavoro, che unisce questi due tempi che sembrano separati. Ora però su questo piano che è di carattere complessivo, e che ribalta l’idea di “soggetto debole” perché espulso dal mercato del lavoro, in “soggetto forte” laddove vi siano diritti, in primis il reddito garantito, e successivamente il riconoscimento delle competenze acquisiti nel corso del tempo (formali ed informali), la nuda realtà ci consegna invece dei “soggetti deboli” ed una condizione sociale di disagio che ci si presenta con forza devastante.

Da una ricerca realizzata da una rivista che si chiama “Dimensioni Nuove” ed è edita dall’editrice LCD dei Salesiani, dai dati che loro hanno raccolto nei centri Caritas in tutta Italia, si parla di 600 mila giovani tra i 18 e i 24 anni che vivono in condizioni di povertà, e quelli sotto i 18 anni sono un milione e mezzo. Quindi, la condizione sociale complessiva, a prescindere dai dati, ci dimostra che la direzione ormai avviata, di estrema “proletarizzazione” di fasce sociali, ci impone l’urgenza e la necessità di intervenire in maniera massiccia per contrastare una povertà reale ormai diffusa. Tornando indietro con il ragionamento credo che i “soggetti deboli” purtroppo rischiano di diventare tanti. Sono usciti proprio oggi su tutti i giornali i dati dell’ISTAT da cui risulta che in Italia ci sono 7 milioni e mezzo di poveri – è uno dei paesi più poveri d’Europa -, cito anche l’EUROSTAT – che è l’organismo che raccoglie tutti i dati statistici di carattere europeo -, che dice chiaramente che se l’Italia “non interviene con massicci investimenti di carattere pubblico sul piano della protezione sociale” nel giro di 10-15 anni il rischio di un 27-35 % di popolazione è a rischio povertà. Non parla Eurostatr di popolazione attiva, cioè di quelli che lavorano formalmente, ma di popolazione complessivamente intesa, di cittadini. Cioè sostanzialmente questo è un paese in cui se non si interviene sul piano della ricostruzione di un nuovo welfare – su un piano nazionale oltre che nei tentativi di qualche regione di avviare politiche sperimentali – anziché di soggetti deboli avremo generazioni future che vivranno nell’estrema povertà, senza calcolare che viste le trasformazioni produttive e del mercato di lavoro, avremo anziani senza alcuna pensione e che rischiano un estremo disagio.

Credo dunque che un’ intervento finalizzato all’introduzione di un reddito garantito è improrogabile. Il dibattito in merito è diventato uno dei temi centrali anche a carattere nazionale ed internazionale, visto che la questione povertà ormai travalica paesi e continenti, in particolare paesi occidentali.

La questione del welfare, di come trovare forme di sostegno per uscire da una situazione di ricattabilità e di precarietà, è centrale proprio per non agire solo sull’esito, cioè sulla condizione di povertà, poiché gli stessi analisti ci dicono che i lavoratori precari sono quelli dove è maggiore la concentrazione di persone a rischio di povertà.

Ecco perché nel Lazio ci siamo orientati verso un percorso che costruisca una legge che non fosse definita intorno agli effetti che produce la precarietà, ma che si orientasse verso un provvedimento sulla costruzione di nuove garanzie sociali.

Aggiungo una riflessione su un altro dato uscito sempre oggi che ci dice che in Italia lo scorso anno sono stati evasi 18 miliardi di euro di cui ne è stato recuperato dallo Stato solo lo 0,5 %. Credo che questo sia l’elemento più innovativo, come dice anche il Presidente del Consiglio Prodi, e cioè riuscire a fare in modo che non ci siano 18 miliardi di evasione fiscale e aggiungo io, utilizzare parte di questi per rendere praticabile un provvedimento come il reddito garantito.

Venendo sul piano dell’intervento regionale, siccome non abbiamo voluto sganciarci da un piano sociale complessivo né tantomeno da un piano esperienziale già esistente e non volendo fare una legge partendo da zero, abbiamo iniziato a ricercare in quali paesi alcune misure erano già state sperimentate. Siamo partiti dal continente europeo ed abbiamo scoperto che solo Italia e Grecia risultano essere i paesi che non hanno mai sperimentato o attuato forme di sostegno al reddito. In Italia, va detto, che solo per un paio di anni sotto il governo D’Alema, c’è stata una sperimentazione con la legge sul Reddito Minimo di Inserimento (RMI) in alcuni comuni italiani. Sperimentazione che non ha avuto poi alcun seguito. Per fare questa ricerca sui modelli europei di reddito minimo, ci siamo rivolti al MISSOC che è un organismo europeo che ogni due anni fa una fotografia di quelle che sono le forme di sostegno al reddito in tutta Europa, paese per paese, e ne abbiamo fatto una pubblicazione.

Per esempio in Belgio la denominazione è “Reddito di integrazione”. E’ garantito il diritto all’integrazione sociale, diritto soggettivo e non discrezionale. I beneficiari sono soggetti individuali, quindi persone singole. La durata è illimitata, in alcuni casi viene definita “illimitata fino al miglioramento della propria condizione o fino al reperimento di un lavoro adeguato”. Questo criterio riteniamo che sia interessante perché il termine “lavoro adeguato”, significa riconoscimento professionale di una persona, cioè se fino a ieri ho fatto il ricercatore, oppure sono stato un bravissimo informatico, è evidente che io avrò un sostegno al reddito fino a un lavoro adeguato, congruo, significa che quantomeno mi attesto su quel piano, cioè da ricercatore non finisco in un qualsiasi call-center solo perché debbo mantenere il beneficio del reddito minimo, cioè non sono condizionato da una condizione di ricattabilità. Questo elemento è interessante, anche nella costruzione che noi stiamo facendo dell’articolato di legge, cioè mantenere e fare attenzione a non determinare piani di ricattabilità ulteriore a chi già sostanzialmente è ricattato perché fa o un lavoro precario, e quindi trova quello che trova, o perché per mantenere il beneficio viene costretto a dover accettare forme di lavoro che spesso sono di bassa qualità e di salari da fame.

Sempre in Belgio i beneficiari sono i cittadini belgi, ma anche gli stranieri che hanno da tre a sei mesi di permesso di soggiorno. L’età parte dai 18 anni. I casi tipo sono: le persone sole ricevono 613 euro, coppie senza figli 817, famiglie monoparentali 817 e via discorrendo a seconda se c’è un figlio 900 euro, due figli 1100 e cosi via.

Questo un esempio che ho preso a caso dalla nostra pubblicazione sui modelli europei di reddito minimo, ma potremmo vederne molti altri. Abbiamo voluto fare questa ricerca sul resto d’Europa per dimostrare che parlare di sostegno al reddito, di garanzie minime, non significa parlare di qualcosa di utopico ma che anzi eravamo l’unico paese a non avere nessuna misura di sostegno al reddito. Schematicamente abbiamo suddiviso le politiche degli altri paesi in quattro modelli.

Il modello scandinavo (Svezia, Norvegia, Danimarca,Finlandia) che è un modello molto alto sul piano delle garanzie e sul piano dei criteri per i beneficiari che non siano, diciamo estremamente condizionanti. Il modello centro-europeo che vede in particolare la Francia con l’RMI, ma soprattutto Belgio e Paesi Bassi che utilizzano forme diverse da quelle del modello scandinavo. Il modello anglo-sassone che invece è molto più legato alla war on poverty, la guerra alla povertà che si avvale di criteri più condizionanti che spesso rischiano di divenire forme di controllo sociale. E poi c’è un modello mediterraneo in cui Spagna e Portogallo in questi ultimi anni hanno prodotto un dibattito interessante di carattere regionale, in particolare nei Paesi Baschi e nella comunità valenciana.

Quindi dentro questo quadro ci siamo detti che viste le trasformazioni avvenute bisognava spostare in avanti anche l’aspetto culturale, cioè che la questione del reddito sociale non si iscrivesse dentro una dinamica puramente assistenzialista, ma che fosse un riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Anche perché – e come assessorato al lavoro forse abbiamo un punto di osservazione particolare riguardo a ciò -, vediamo che chi si rivolge a noi per trattative, vertenze, fabbriche che chiudono non è solo ed esclusivamente colui o colei che viene da cicli produttivi obsoleti, perché a noi capitano anche plurilaureati, informatici di importanti software house, lavoratori over40, giovani ricercatori con ottime esperienze e via dicendo, molte persone che provengono anche dal lavoro autonomo, non, solo dal classico call-center. Quindi non si tratta di intervenire solo su quel soggetto definito debole – chiude la fabbrica, l’operaio resta disoccupato etc. -, ma intervenire come sistema nei nodi delle criticità del mercato del lavoro che evidentemente colpisce oggi sun unpiano verticale, anche indiscriminatamente ruoli e ceti sociali diversi. E’ evidente che il disagio maggiore lo vivono coloro che non hanno competenze e professionalità in grado di potersi spendere nuovamente sul mercato del lavoro, ma il riconoscimento di un diritto di cittadinanza, quindi trasversale, aiuterebbe anche le fasce più alte ad avere garanzie, perché eliminerebbe un esercito di diseredati pronti ad assumere su di se qualsiasi rischio.

Quindi abbiamo ragionato su come trovare una forma che entrasse nel merito della garanzia contrapposta alla ricattabilità. Nella costruzione della legge non abbiamo fatto tutto da soli, abbiamo messo in piedi alcuni tavoli di lavoro aperti alla cittadinanza – e rivendicati anche a forza dopo che oltre un migliaio di precari avevano richiesto attraverso una manifestazione sotto i palazzi regionali, la realizzazione di un tavolo di confronto su tema del reddito. Quindi diciamo che c’è stata una sollecitazione sia da parte dei soggetti che vivono forme di precarietà, ma anche da parte dei sindacati confederali che hanno chiesto alla giunta Marrazzo di agire per una legge sul reddito. Noi abbiamo voluto discutere con tutti, movimenti e sindacati, per capire quali indicazioni venivano date. Abbiamo aperto il percorso su un piano partecipato affinché cittadini e realtà sociali partecipassero nella costruzione di una proposta di legge. Questo ovviamente ha portato a una maggiore difficoltà perché ha significato riuscire a comprendere diverse esigenze e analisi, approcci culturali, soluzioni proposte su un tema, quello del welfare, del ruolo delle regioni, dei diritti, che è totalmente frammentato. Però in qualche modo siamo riusciti a farlo aiutandoci anche con la pubblicazione che abbiamo prodotto, che oltre che riguardare i modelli europei di sostegno al reddito è riuscita a porre cinque-sei punti che sostanzialmente dividono questa idea del Reddito di Cittadinanza in due dimensioni: una di carattere diretto, cioè una legge che prevede una erogazione di reddito diretto – monetario – che si basa su una soglia minima -, nel senso che si individua una soglia minima sotto la quale nessuno deve stare – e dall’altra parte un intervento di carattere indiretto che definisce una sorta di griglia dei bisogni che serve a costruire quello che noi abbiamo chiamato nuovo welfare. Abbiamo posto la questione della formazione, della mobilità, dell’alloggio, della socialità, della cultura e dell’informazione. Cioè una griglia di interventi possibili su un piano indiretto che evidentemente possono costruire una sorta di “carta dei diritti”. Questo perché sulla questione della cittadinanza, ci si deve porre il tema dell’inclusione di carattere sociale piuttosto che l’inclusione di carattere prettamente lavorativo. Determinare un piano di un nuovi diritti significa uscire da un aspetto culturale in cui chi è precario è uno sfigato che non riesce nella vita per colpa sua. Questo concetto volevamo sovvertirlo facendo emergere che chi è precario lo è perché è cambiato un sistema produttivo e di organizzazione della forza lavoro e oggi questa forma di organizzazione del lavoro ha bisogno di un processo di ricostruzione di un welfare adatto alla contemporaneità.

Il libro quindi ci è servito per due ragioni. La prima quella di dare un segnale di carattere culturale, partendo dal dibattito che nasce già da due continenti, Europa e Stati Uniti, per dimostrare che già negli anni ’50 negli USA esisteva questo dibattito anche se poi, negli USA, non ha portato ad uno strumento come il reddito minimo e che ha al contrario prodotto, in particolare nei ghetti dei cosiddetti “working poors”, a delle profonde forme di disagio economico e sociale. E poi l’Europa che invece, intorno agli anni ’60-’70, realizzò forme di reddito minimo, reddito di base, social security, che hanno disegnato, in particolare nel nord Europa, delle iniziative che producevano opportunità e garanzia.

Con la seconda ragione abbiamo voluto fare la fotografia dell’opportunità. In Italia accade – al di là poi dei dati sulla povertà che menzionavo prima – che ci troviamo davvero in uno dei paesi più precarizzanti d’Europa, ma non soltanto dal punto di vista dei numeri, ma su un dato proprio dell’idea di flessibilità del lavoro. Quando noi in Assessorato incontriamo lavoratori che stanno al call-center da sette anni con contratti di tre mesi in tre mesi, comprendiamo che quella non è flessibilità, ma una forma di sfruttamento nuda e cruda.

Quindi ci siamo detti che potevamo fare di più, con l’opportunità di costruire e immaginare una nuova legge che fosse in grado di dire che la flessibilità può diventare, se accompagnata da garanzie e diritti, un opportunità a partire dal garantire nei periodi di non lavoro, alla garanzia e alla continuità di reddito.

E’ evidente che il ruolo delle Regioni ha dei limiti, come diceva prima l’assessore Cosolino, è soprattutto una misura di carattere nazionale che và introdotta perché altrimenti rischieremmo di fare 20 leggi regionali sul reddito e avere venti modelli diversi. Il fatto che in molte regioni si stia ragionando su queste forme di reddito minimo è comunque propedeutico affinchè si realizzino sperimentazioni, significa anche porre e rimandare ad un piano politico nazionale l’individuazione di un problema e di eventuali soluzioni per chiedere una legge unica.

In questa ricerca sui modelli europei che abbiamo pubblicato, propedeutica alla scrittura della proposta di legge nel Lazio, ci siamo posti cinque domande: per chi, quando, quanto, come e da chi,. Una volta definiti i criteri: diretto e indiretto, una parte monetaria e una in servizi. Posta la questione della precarietà di vita oltre che lavorativa come punto centrale su cui intervenire, ci siamo detti: cominciamo a definire, visti i criteri generali, come può essere una legge che risponda alle nuove complessità. A partire dalle cinque domande si sono definite le competenze, quindi titolo V della Costituzione che da in qualche modo alle Regioni l’opportunità di intervenire in merito. Quando si accede a questo strumento e per quanto tempo, a chi viene erogato il beneficio, come e via discorrendo.

Ora l’articolato della proposta di legge nel Lazio è in discussione e in costruzione, sono stati predisposti già 30 milioni di euro, calcolando che la legge ancora non c’è. Quando la legge sarà fatta ovviamente ci sarà la possibilità di determinare un ulteriore finanziamento, almeno speriamo.

La cosa interessante è che questo dibattito in particolare nel Lazio, sta avvenendo nei luoghi più diversi. E’ un tema di così forte attualità che per esempio nelle ultime settimane la ricerca che abbiamo prodotto sul tema del reddito è stata presentata nei comuni più lontani che nella capitale. Siamo andati in un paese che si chiama Isola Liri, ad un incontro organizzato dal Club degli alcolisti in trattamento che hanno posto una questione nuova e molto grave, ovvero che moltissimi di questi sono ex lavoratori – non solo quelli quarantenni che sono usciti dal ciclo produttivo, ma anche i giovani – che stanno avendo esperienze con l’uso delle sostanze stupefacenti e l’alcool. Questa associazione ha denunciato un uso molto frequente di Tavor e altri tranquillanti, un abuso di alcolici che spesso pare essere una delle poche risposte ad un quadro di disagio sociale e psicologico sempre più grave. Si è denunciato un abuso dell’utilizzo di sostanze adrenaliniche come cocaina e amfetamina, perché per mantenere un livello di produttività continua, per non perdere il posto di lavoro si è anche disposti a lavorare diecidodici ore nella speranza di avere un’assunzione; si è denunciato l’abuso di sostanze di un certo tipo, che sono quelle cosi dire performanti e  produttive, che fanno stare svegli per intenderci. Accade cosi che le sostanze performanti si usano il sabato sera e la domenica mattina si assumono sostanze tranquillanti, come l’eroina, per poter recuperare gli abusi della nottata precedente in modo da non essere troppo stanchi il lunedì nella ripresa del lavoro. Il risultato è che vi è un innalzamento dei morti sul lavoro nei lunedì mattina proprio perché le persone arrivano al lavoro abbastanza, scusate il termine, “rincoglionite”.

La questione del disagio sociale, prodotto anche e soprattutto da forme di lavoro disincentivanti, esce fuori dalla questione meramente relativa al piano contrattualistico e lavorativo, ma costruisce una dinamica di soggetti in condizione di debolezza continua che rischiano di trasformarsi in soggetti strutturalmente deboli.

Il ragionamento che ci stà portando nella definizione della legge sul reddito sociale garantito si muove su queste direttrici. Lavoratori precari, disoccupati di lunga durata, fasce del disagio sociale e dall’altra parte coinvolgimento delle parti sociali, dai sindacati ai movimenti ai cittadini.

Questo è più o meno il percorso che abbiamo messo in piedi nel Lazio e quello che abbiamo fatto fino ad oggi e sul quale contiamo di arrivare alla stesura di una legge e all’attivazione di una sperimentazione reale nei prossimi tempi.

Intervento di Sandro Gobetti al Convegno “Per l’inclusione dei soggetti deboli: reddito, lavoro e formazione” – giovedì 25 maggio 2006 Trieste

 

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