La battaglia per il basic income, in parte espropriata da precetti populisti o svilita da declinazioni tragicamente pauperiste, corrotta dalla demagogia familista, vincolata da forme di workfare, qualche volta ci sembra aver perso fascino e mordente. Ma proviamo a considerarla così: il fatto che le posizioni a favore si moltiplichino, confermano più che mai la validità e la necessità di tale forma di intervento, nato dal cuore e dalla testa dei movimenti.

Il 20 ottobre scorso a Buxelles si è tenuto un workshop istruito da Gue/Ngl sul minimum income per discutere la proposta, a livello europeo, di un reddito minimo garantito. Da quell’appuntamento, dopo l’intervento di Teresa Di Martino, il testo dell’intervento di Cristina Morini che anche declina il tema del reddito all’interno di una prospettiva femminista.

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Due esempi, tratti dall’attualità, possono servire a ribadire il tema dell’importanza dell’istituzione di un reddito di base da un punto di vista delle donne ma alla fine, come cercherò di sottolineare, dal punto di vista dell’interesse della società in termini generali.

Il tasso di natalità in Italia da venti anni a questa parte è continuamente decrescente. Dopo gli esordi della crisi economica nel 2008, nel 2014 si è registrato un record negativo con 1,39 figli per donna (509 mila bambini, mai così pochi dall’unità d’Italia, dati Istat) , ormai solo parzialmente compensato dalla maggior fecondità delle donne straniere poiché siamo di fronte, anche, a un invecchiamento delle coorti di immigrati presenti in Italia.

Secondo una ricerca della Commissione europea, finanziata dalla direzione per la Giustizia e i consumatori (Men, women and pensions di Platon Tinios, Francesca Bettìo e Gianni Betti in collaborazione con Thomas Georgiadis), prendendo come riferimento l’Europa nel suo insieme, gli uomini hanno, in media, una pensione del 40% più alta di quella delle donne. La differenza più ampia si osserva nei Paesi Bassi e in Lussenburgo (46%). Germania e Regno Unito, Austria e Irlanda sono al di sopra del 40% di differenza. Francia, Italia, Portogallo, Spagna evidenziano disparità superiori a un terzo.

Questi due esempi mi servono per osservare che, considerata la vita delle donne a partire da due poli significativi (la giovinezza e i progetti; l’età della pensione e del riposo), noi le vediamo entrambe condizionate da una fragilità lavorativa e reddituale che si trasforma di fragilità esistenziale. Nel dilagare di una precarietà strutturale che impatta sulle generazioni più giovani, sono sempre più difficili progetti di vita che includano la maternità per l’incertezza delle condizioni socio economiche, abitative, di servizi essenziali (dalla scuola alla sanità), di reddito. L’incertezza delle condizioni, la fatica ad avere una visione del futuro, la necessità di spendersi solo sul piano del “lavoro” per cercare, nella precarietà, di mettere insieme un reddito, condiziona il desiderio di avere figli o ritarda la decisione di averne. Dall’altro, spostandoci in avanti, verso un’altra fascia d’età, la storica frammentarietà del lavoro delle donne, spesso segnato da interruzioni per le gravidanze o per la necessità di dare assistenza ai famigliari, le rende più povere nella vecchiaia. La partecipazione al lavoro delle donne, è dunque vincolata dalla necessità di adempiere a un ruolo riproduttivo e di cura di estremo valore per la vita ma a cui non è riconosciuto alcun valore economico. Si può aggiungere, inoltre, che le donne, nel lavoro “produttivo”, sono spesso pagate meno degli uomini – e ciò spiega anche il loro apparente “reggere meglio” di fronte ai colpi della crisi, mantenendo, a volte, un posto di lavoro rispetto agli uomini.

Entrambi questi quadri, danno l’idea di come la precarietà e la dinamica di impoverimento generale segnata dalla crisi attuale e dalle politiche di austerity, impatti sulle vite e sul possibile armonico sviluppo dell’idea stessa di società. Per quanto riguarda l’Italia voglio ricordare che attualmente non esiste alcuna misura di sostegno al reddito.

Dunque, un primo spunto che possiamo prendere sta qui: la generalizzazione della precarietà porta con sé un disegno di sistematico smantellamento di diritti e garanzie, cioè anche dei sistemi welfaristici predisposti per la figura del lavoratore maschio adulto a tempo indeterminato di epoca fordista. Ciò si traduce, senza dubbio, nel fatto che le condizioni di maggiore debolezza che di solito venivano scontate dalle donne, si siano oggi estese a tutte le generazioni dei lavoratori precari, indipendentemente dal genere. Per ciò che riguarda le pensioni, un recente monitoraggio della cassa di previdenza italiana evidenza che i parasubordinati andranno in pensione con un assegno di 160 euro al mesedal momento che entrando in un regime contributivo pieno, i contributi versati non saranno sufficienti a garantire loro una pensione decente. Quella frammentarietà del lavoro sperimentata dalle donne nel fordismo e che oggi segna la loro maggiore povertà nella vecchiaia, si tradurrà in una vera e propria bomba sociale nel momento in cui le generazioni attuali di precari, uomini e donne, stratificate nel tempo e sempre meno “giovani”, si trasformeranno in una enorme massa di anziani senza pensione.

Tuttavia, non è solo per una questione di equità e di giustizia distributiva o, peggio, per ispirazione caritatevole, pauperista, etico-solidale, che noi continuiamo, indefessamente, a essere favorevoli all’introduzione del reddito di base incondizionato.

In Italia e in Europa, si è mancato di immaginazione e strategia, continuando a disegnare un mondo fatto di pieno impiego e full time, un mondo che si struttura ottusamente sul suo carattere sessista e tende a tralasciare le forme di lavoro non alienato (il lavoro riproduttivo e altre attività scelte autonomamente) e accantona anche il concetto di libertà dal lavoro che occupava un posto di primo piano nelle epoche precedenti. Il pensiero delle donne ha mostrato negli anni Settanta come la catena complessiva della produttività sociale non potesse reggere senza attingere alla riserva gratuita di lavoro domestico e senza utilizzare il salario come leva di comando sul lavoro non retribuito. Ebbene, come già si ipotizzava qualche anno fa, oggi noi ci troviamo di fronte al fatto che l’esperienza del lavoro gratuito assume carattere generale e comune: a un nucleo sempre più ristretto di lavoratori salariati, corrisponde una sempre più ampia schiera di lavoratori di tutti i sessi che lavorano e producono valore ma non sono retribuiti. Le analisi femministe si confermano e si allargano: la produttività sociale contemporanea si regge sulla tendenziale gratuità del lavoro.

Il tema della mancata valorizzazione della riproduzione, nell’invisibilizzazione del lavoro domestico e di cura (con declinazioni diverse da Maria Rosa Dalla Costa e Selma James a Carole Pateman a Silvia Federici a Christine Delphy e al femminismo materialista), si allarga in modo conclamato gli attuali meccanismi di riproduzione-produttiva che hanno espanso gli orizzonti della valorizzazione e del profitto, ancora una volta a scapito della loro retribuzione. Usare google, le app degli smartphone, stare su facebook, autopromuoversi con youtube, la formazione continua, lo scambio dei saperi, le forme della condivisione… la socialità oggi sempre più viene resa produttiva: ci sono infiniti atti che noi compiamo, tutti egualmente connotati da gratuità, che generano profitti per le grandi corporation e per il capitale finanziario. Tutti consentono la continuazione del nostro esser vivi, in connessione, dentro i processi della cooperazione ma, contemporaneamente, producono un allargamento dell’accumulazione capitalistica.

Il punto cruciale sta nel passaggio, nella trasformazione dei prodotti linguistico-relazionali in merci, nel tentativo di modificazione delle relazioni in commodities. Qui sta il cambio epocale di paradigma produttivo che noi stiamo vivendo, sperimentando: la riproduzione sociale non è più solo la premessa, (“la prima pietra”, dice Federici), il fondamento, il principio disconosciuto della accumulazione originaria, la parte occultata del salario che contribuisce alla creazione del plusvalore, come già diffusamente segnalato dal femminismo, essa è oggi il cuore del processo di creazione di valore generato dalla socialità contemporanea: dalla formazione al pendolarismo, dal consumo al debito. Tutto questo è, tra l’altro, fortemente connesso allo smantellamento dei servizi welfaristici: chiedere un prestito, fare un mutuo o indebitarsi per un figlio che deve laurearsi oppure per pagarsi le cure sanitarie o qualche forma di pensione “privata”… usando le parole di Melinda Cooper, noi possiamo dire che la vita stessa diventa produttrice di plusvalore, al tempo del neoliberismo? E allora, la rivendicazione del reddito garantito non diventa, anche, necessaria perché possa essere correttamente distribuita una ricchezza che si fissa altrimenti, grazie al nostro lavoro sociale e ai nostri bisogni, solo sui mercati finanziari – con la crescita di grandi corporation come Google o Microsoft o fb; sia di public utilitiesimplicate nei processi di privatizzazione in atto (dall’acqua alla sanità, perfino le poste)?

In questo senso, il reddito è forma di remunerazione di tutto il lavoro non certificato che oggi fuoriesce dalla categoria troppo stretta di lavoro per la produzione, pur generando, esattamente come fu per il lavoro domestico, grande valore in termini economici, sociali e in termini di senso.

La crisi attuale della norma fordista dell’impiego è lungi dall’indicare una crisi del lavoro come fonte principale della produzione di valore e di ricchezza. Come in più occasioni ha notato Carlo Vercellone, il capitalismo biocognitivo è, forse ancor più del capitalismo industriale, “un’economia intensiva del lavoro”, benché questa dimensione nuova del lavoro sfugga spesso a una misurazione ufficiale, “sia per quanto riguarda il tempo effettivo di lavoro che la tipologia delle attività che non possono essere del tutto assimilate alle forme canoniche del lavoro salariato”.

Non ci stanchiamo di ripetere che il reddito è uno strumento che serve a dare risposta concreta a problemi di ineguaglianza, da un lato, e a istituire nuove forme del diritto, dall’altro. L’intera società deve ancora rispondere al mai risolto, storico, quesito sulla distribuzione dovuta al lavoro domestico delle donne. Notiamo, una volta di più, come il tema si sia oggi allargato e implichi la necessità di operare nuove forme di distribuzione, all’altezza dei nuovi processi di valorizzazione e di sfruttamento.

Si tratta, cioè, di rispondere ai problemi concreti della “classe precaria”, nell’oggi. Il reddito rappresenta uno strumento adeguato per riequilibrare le sorti del lavoro, oggi sottoposto a una dinamica di progressivo impoverimento, di degrado delle condizioni e di favorire la possibilità di scelta, a discapito del comando. Si tratta anche di ritrovare il tempo, rifiutando la centralità del ruolo che il lavoro produttivo, certificato, validato, ha assunto sin dall’era della produzione industriale e che oggi rischia di assumere addirittura i contorni del culto (tutte le attenzioni sono dedicate al lavoro). È necessario andare verso una società che sia capace di pensare che il lavoro rappresenta un’attività tra le altre, rivendicando una gestione del proprio tempo in sfere differenziate. Va rintracciato sopra ogni cosa il senso di una vita buona nella società, contro il pensiero unico dell’economia politica.

La sua possibile introduzione “senza condizioni” viene ostacolata perché un reddito di base il più incondizionato possibile può essere strumento di autodeterminazione e di autonomia di scelta e di vita, aprendo spazi per possibili forme di produzione e autorganizzazione, al di fuori dell’ambito capitalistico. Da questo punto di vista è fondamentale anche cominciare a pensare a nuovi strumenti monetari sperimentali (moneta complementare del comune) in grado di convergere verso l’obiettivo del finanziamento del reddito stesso.

Abbiamo più che mai bisogno di concepire, a livello europeo, uno strumento equo nell’emerge del problema della povertà di chi sta nel lavoro e si misura con le sempre maggiori difficoltà connesse allo smantellamento delle forme di assicurazione sociale; di favorire una riappropriazione democratica dei servizi collettivi del welfare e la transizione verso un modello di sviluppo fondato sul primato del valore d’uso e sulla produzione dell’essere umano per l’essere umano. Non ci stancheremo, insomma, di batterci perché forme di cooperazione, alternative ai modelli di sfruttamento di un capitalismo che ci sta portando solo verso la catastrofe, possano finalmente diventare economicamente sostenibili.

Tratto da Effimera