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Ti chiedo innanzitutto di inquadrare, a livello generale, il referendum sul reddito per il quale si è votato in Svizzera il 5 giugno scorso

La prima osservazione che vorrei fare è che questa iniziativa è partita da un gruppo promotore sganciato da un tessuto sociale, da legami con quelli che chiamiamo “movimenti sociali”. Questo mi porta a domandarmi se programmi di questo tipo non vadano invece sempre ancorati a una spinta che prende le mosse dal basso. La popolazione svizzera ha vissuto, sin dall’inizio, con interesse questo progetto, ma un po’ come fosse caduto dal cielo. Per avere la chance di riuscire ad avviare un serio confronto non si può evitare di partire dai collegamenti reali, concreti, con la società.

La proposta in sé consisteva nella modifica di un articolo della Costituzione elvetica che introduceva il diritto dei cittadini svizzeri a percepire un reddito universale e incondizionato. Tale modifica avrebbe poi trovato concreta attuazione, a diversi livelli, nei prossimi 10 anni. Si puntava innanzitutto a introdurre il principio all’interno della Costituzione, organizzando poi nel tempo l’aspetto più spinoso delle forme di finanziamento. In tutto questo, a mio avviso, il punto più critico e più fragile dell’iniziativa è che comunque si fondava su un’impostazione fortemente redistributiva: dare un reddito incondizionato a tutti i cittadini in sostituzione dell’assetto di assicurazione sociale oggi vigente in Svizzera per quanto riguarda le forme di sostegno al reddito (dai sussidi di disoccupazione all’invalidità alle pensioni sociali). Ora, lo stato sociale svizzero è tra i più sviluppati e anche tra i più complessi in Europa e i cittadini svizzeri, che tra l’altro tendono a essere conservatori, ne sono orgogliosi. Ma in generale le forme di abolizione anche di parti dello stato sociale comportano sempre il rischio di un peggioramento. Ovviamente, non era questa l’intenzione dei promotori perché c’era margine per negoziare tra le prestazioni vigenti e il reddito erogato. Tuttavia, sappiamo bene che le declinazioni del reddito di stampo ultraliberista, alla Friedman, le interpretazioni della destra liberale, puntano a cancellare completamente il sistema di welfare. La proposta si prestava insomma ad alcuni possibili equivoci.

Tuttavia, il referendum ha aperto un dibattito molto interessante, in Svizzera e non solo

Dal mio punto di vista la campagna è stata un’ottima occasione per porre questioni inaggirabili: innanzitutto, si è sviscerato il tema della precarietà, visto il forte aumento delle forme di lavoro “atipiche” che diventano sempre più “tipiche”. In Svizzera possiamo parlare di una “piena occupazione precaria”, come spesso dico, cioè abbiamo una disoccupazione molto bassa in presenza di un livello crescente di precarietà. Inoltre, si è sentito l’effetto di un dibattito che ci proietta direttamente nella quarta rivoluzione industriale, aprendo il capitolo degli effetti del capitalismo algoritmico: se stiamo alle analisi previsionali della Mckinsey nel giro di un ventennio il 50-60% delle professioni spariranno e questo è un orizzonte con il quale è urgente confrontarsi. Infine, nella discussione è entrato il tema del “finanziamento dell’ozio”. Questo ultimo aspetto si lega all’impianto che aveva la proposta, come accennavo prima: se tu la imposti in termini distributivi, prevedendo che lo stesso reddito venga finanziato attraverso un prelievo fiscale progressivo sui salari dei lavoratori, ti infili in una posizione scivolosa perché fai virare il discorso verso una contrapposizione tra occupati e non occupati, tra attivi e non attivi, tra chi lavora e chi “non fa nulla”. Gli occupati percepiscono la tassazione che viene imposta per finanziare il reddito come una sottrazione del loro salario, a cui non sono invece tenuti i disoccupati, i quali ottengono per intero la cifra (2.500 franchi elvetici, circa 2.250 euro, per gli adulti e 625 franchi, 560 euro, per i minorenni, ndr). L’effetto finale che si propone è assolutamente corretto dal punto di vista dei principi perché punta a una perequazione tra bassi e alti salari, dunque a una riduzione del problema delle diseguaglianze. Tuttavia, il reddito non può essere posto in termini sostitutivi ma sempre aggiuntivi.

Quello che dici ci proietta a pensare il reddito come “reddito primario”…

Questo ci porta soprattutto a ragionare sul fatto che c’è sempre una quota di lavoro invisibile: il lavoro di cura, il lavoro delle donne, il lavoro di riproduzione sono esempi centrali, cui si aggiungono oggi le forme algoritmiche di “estrazione” del lavoro. Il reddito di cittadinanza – per tornare a una dizione che abbiamo molto adoperato proprio per segnalare il meccanismo dell’inclusione, nello spazio pubblico, che il reddito deve garantire – va pensato dentro questo quadro. Allora, non è sostituzione di lavoro salariato, né viene inteso come sottrazione di salario, ma è diretta distribuzione di un valore del lavoro non salariato che tutti e tutte facciamo, un lavoro in aumento, disperso nel corpo vivo della società. L’errore della proposta svizzera, come di altre, sta qui: nel porre la questione della redistribuzione sempre e solo a partire dal riferimento al lavoro salariato, che tra l’altro si sta sbriciolando progressivamente con l’effetto logico che si riduce pure la base del finanziamento. Ecco perché è fondamentale insistere su un’altra interpretazione, spostarsi lungo tutt’altra direttrice: il reddito non è sostituzione dello stato sociale esistente ma è monetizzazione di lavoro gratuito, distribuzione coerente con i nuovi modi di produzione di creazione della ricchezza.

Da queste ispirazioni possiamo fare discendere anche la proposta di un Quantitative easing for the people, a cui da tempo stai pensando. Essa è entrata nel dibattito sul referendum svizzero come possibile forma di finanziamento?

Il ragionamento sul Quantitative easing non è entrato a fare parte delle riflessioni sulle possibili forme di finanziamento del reddito svizzero. Tuttavia, io penso proprio che ilQuantitative easing for the people vada inteso come una possibile risposta al nuovo ordine del discorso e dei problemi che sottolineavo, dal tema della produttività sociale a quello della gratuità del lavoro contemporaneo. È una risposta in termini di creazione monetaria erogata dalla Banca centrale europea e va ad aggiungersi a quelle che sono le prestazioni dei vari sistemi sociali nazionali. Considero fondamentale fare riferimento a tale dibattito perché esso parte dall’osservazione concreta della stagnazione della domanda e dalla necessità di rilanciare i consumi.

Ribadisco inoltre che parlare oggi, seriamente, di reddito di cittadinanza significa soprattutto tenere in conto i nuovi processi di creazione del valore. L’impostazione “di principio” della proposta di reddito in Svizzera risentiva invece molto delle suggestioni della filosofia morale, à la Van Parijs. Tali proposizioni si sono progressivamente sviluppate proprio in termini redistributivi, mostrando una modalità che forse è troppo forte definireauto-contraddittoria. Certamente, poiché si basa sulla vigenza e sulla centralità del lavoro salariato, è corretto dire che è un impianto che ha fatto il suo tempo.

Il risultato del voto come lo interpreti? Per molti, nonostante la proposta non sia passata, si è trattato di un esito incoraggiante

È molto importante che si sia avviato il discorso, come sostenevo, anche se a mio avviso il risultato (23% di sì) non è eclatante: l’avrei considerato un successo qualora si fosse raggiunto un 30% di adesioni alla proposta. Tuttavia, è indicativo di un clima che sta cambiando: l’Economist o il Financial Times ne hanno molto parlato il che significa che in qualche misura esiste ormai una diffusa sensibilità riguardo l’ineluttabilità del reddito. Questa prova della Svizzera è stata un po’ come il trailer di un film prossimo a uscire nelle sale, dopo il quale a un certo punto compare la scritta coming soon. Del resto, il capitalismo stesso è consapevole del rompicapo della produttività di fronte al quale ci troviamo. Come calcolare la produttività contemporanea? E perché è così bassa? Il punto è, chiaramente, che la produttività che conta di più, il lavoro che facciamo in rete, nelle varie connessioni che agiamo, imprescindibili dentro le nostre vite, nel lavoro sociale, non è calcolabile perché è “fuori”. Dunque, non c’è modo di farla rientrare nel calcolo statistico. Questo è un grosso problema e l’Economist, il Financial Times se ne rendono conto per primi, perciò guardano a tutto questo e alla prospettiva del reddito con un misto di apprensione e di interesse insieme. Quindi, insomma, piano piano i nostri discorsi sul reddito guadagnano legittimità.

D’altro lato, lo stato sociale così come è adesso, forgiato sul fordismo, sta andando incontro a seri problemi di finanziamento poiché l’architettura del welfare risente della crisi del lavoro salariato. Dunque è assolutamente necessario intervenire con una nuova ingegneria sociale per tamponare tale punto di blocco. La bizzarria è che, di solito, chi attacca il reddito di base contemporaneamente vuole anche lo smantellamento dello stato sociale e appoggia le politiche di austerity e il rigore.

Alla fine, verrebbe da dire, anche se pare un paradosso, non è così semplice “dare” del denaro alle persone, tra etica del lavoro, competizioni, diseguaglianze…

Abbiamo assoluta necessità di avviare una riflessione sul significato sociale del denaro. Penso ad alcuni studi della sociologa americana Vivian Zelizer: non è vero che il denaro è un equivalente generale, ogni gruppo sociale ne fa un uso diverso e dà al denaro un significato, un senso, diverso che è frutto dei vissuti, delle proiezioni, del sistema di valori del singolo o della singola. Zelizer lo ha studiato rilevando interessanti discrepanze anche sulle spinte all’acquisto che dipendono dal lavoro che fai, dal tuo campo di interessi, da tensioni affettive. Del resto, io stesso mi ricordo che a casa mia si facevano buste differenti per i soldi destinandoli ai vari scopi, dalle vacanze ai compleanni: ognuna di queste buste non conteneva solo una quota di denaro, conteneva un’idea, un simbolo, un valore diversificato che andava ben oltre quello del denaro in sé. Oppure, per fare un altro esempio, nelle comunità ebraiche è sempre stato ritenuto fondamentale tenere da parte una cifra per garantire funerali dignitosi a chi se ne andava ed è da lì che prende avvio l’idea delle assicurazioni sulla vita.

Un’ultima cosa: per immaginare seriamente il reddito bisogna soprattutto entrare nell’idea di ricostruire una comunità di rischio. La diseguaglianza crescente, l’individualismo connesso ai sistemi di precarizzazione giocano contro la messa in comune del rischio, “privatizzano” il rischio, lo addossano alla singola persona. Noi dobbiamo ritornare a sentirci parte di una comunità di rischio e trovare nuovi modi e strumenti per difenderci insieme.

Tratto da Effimera