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Reddito garantito e precarietà, verso un’Europa dei diritti

di Sandro Gobetti

L’intervento di Sandro Gobetti, coordinatore del BIN Italia, sul reddito garantito in occasione delle Giornate di Studio del GUE/NGL di Firenze 18-20 novembre 2014.

GUENGL days in Florence 18 – 20 November 2014

Youth, culture, trade, asylum and migration on the agenda

Firenze Fiera, Palazzo degli Affari, Piazza Adua 1, Firenze

Intervento di

Sandro Gobetti
BIN Italia www.bin-italia.org

18 novembre ore 11:30

 

Reddito garantito e precarietà, verso un’Europa dei diritti

Si è condensata ormai nel dibattito internazionale in tema di reddito garantito una tale ricchezza di prospettive, che difficilmente in futuro la crescente centralità politica di questa proposta potrà essere aggirata o elusa. Diverse sono state le motivazioni, le argomentazioni e i multiformi approcci disciplinari sia dei tantissimi autori che si sono espressi a favore del basic income sia nelle rivendicazioni espresse, in primis dai movimenti sociali, dalla metà degli anni ’90 ad oggi.

Una tale ricchezza di proposte e di elaborazione politica che rimette al centro la necessità, in particolare nel nostro continente, del rilancio del modello sociale europeo che ha visto nelle sue fondamenta il diritto all’istruzione, alla salute pubblica, ai diritti del lavoro e non ultimo proprio alle forme di sostegno al reddito per le persone in difficoltà economica.

Gli schemi di reddito minimo, già presenti in diverse forme in alcuni paesi europeo, hanno di fatto espresso un concetto universale e cioè: “che nessun individuo deve vivere al di sotto di una certa soglia economica” e che la presa in carico delle difficoltà di uno sono responsabilità di una comunità intera.

In questo senso le esperienze degli schemi di sostegno al reddito possono essere una buona base di partenza per ridefinire nuove politiche di cittadinanza.

Purtroppo molti di questi schemi di diritto e sostegno al reddito hanno subito, in particolare in questi ultimi anni, profonde trasformazioni. Dapprima verso politiche di workfare dirottando cosi ciò che prima era destinato ai diritti di cittadinanza a sostenere politiche attive destinando gran parte dei finanziamenti al welfare alle imprese private o agli enti formativi con l’intenzione di condizionare i beneficiari all’accettazione di una qualsiasi proposta di lavoro. Ed infine con le politiche di austerity di questi ultimi anni.

In questo senso si è andato perdendo nel tempo il concetto più sociale ed universale della difesa della dignità delle persone in difficoltà economica.

Purtroppo oggi dobbiamo dire che le politiche di workfare hanno fallito, l’aumento della disoccupazione in tutti i paesi europei ne dimostra i risultati, ed al contrario si è andando smantellando un pezzo fondamentale del modello sociale europeo.

Se all’attacco ai sistemi di reddito minimo garantito sommiamo i tagli ai sistemi sanitari pubblici ed alla scuola si comprende quanto sia necessario, al contrario, difendere, rivendicare, rilanciare un nuovo modello sociale continentale.

Un rilancio delle misure di reddito garantito accompagnato da tutte quelle forme di reddito indiretto (sostegno alla casa, ai trasporti, alla formazione, alle cure mediche, all’accesso alle nuove tecnologie ed alla comunicazione etc.) potrebbe ridisegnare un nuovo sistema di tutele che tratti il segno distintivo di un’Europa continente dei nuovi diritti sociali

In questo senso vanno anche alcune delle iniziative che si sono svolte tanto nel continente che più in generale nella sfera internazionale negli ultimi tempi.

Va segnalata l’importante iniziativa promossa dalla coalizione europea per il reddito di base (UBIE – Unconditional Basic Income Europe) che con lo strumento dell’ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei) ha dato vita ad una campagna, con un seguito in quasi tutti i paesi europei, per l’introduzione di un “Reddito di base incondizionato” con la raccolta di oltre 300 mila firme.

In questo caso l’intenzione dei promotori ha voluto dare un segnale nella direzione di promuovere un nuovo “diritto umano ed economico” attraverso una sorta di “Euro dividend” da destinare a tutti i cittadini residenti in Europa.

In questo senso si è mossa anche la proposta di un reddito di base incondizionato in Svizzera dove oltre 130mila persone hanno firmato la proposta di un referendum per riconoscere a tutti i residenti sopra i 25 anni un reddito di base senza alcuna condizione ne di accesso ne di obblighi particolari.

Il Basic Income Network Italia che rappresento oggi, è la rete italiana di una rete mondiale, il BIEN Basic Income Earth Network, che mette insieme reti nazionali in tantissimi paesi nel mondo.

La proposta principale della rete mondiale è quella di definire un nuovo diritto umano ed economico nell’epoca della globalizzazione.

Un reddito di base possa essere lo strumento principale per garantire l’autodeterminazione degli individui e allo stesso tempo porre la questione di una nuova redistribuzione delle ricchezze prodotte dalle attività degli esseri umani.

Nel 2014 il 15° Congresso della rete mondiale per il reddito, che si è tenuto a Montreal in Canada, aveva come titolo proprio: “Ri-democratizzare l’economia”.

In questo senso vanno segnalate alcune altre esperienze che descrivono quanto sia più vasto ed interessante l’approccio a questo tema.

Dal 2012 in alcuni villaggi rurali in India, vi è una sperimentazione di un reddito di base incondizionato, un progetto promosso dall’UNICEF e dal SEWA (il sindacato delle donne indiane). Il progetto prevede di destinare a tutti i residenti di questi villaggi una somma di denaro senza alcuna contropartita. I risultati di questa sperimentazione sono stati più che interessanti tanto che l’UNICEF ha rinnovato il progetto.

Vi è stato un aumento delle iscrizioni di bambini a scuola, vi è stata un’impennata delle cure mediche e dell’attenzione alla salute, vi è stato un miglioramento delle condizioni abitative, ma la cosa più interessante è che in molti di questi villaggi, parte di questo reddito è servito per realizzare delle “casse comuni” destinate alla nascita e allo sviluppo di cooperative di lavoro in particolare tra le donne.

Un’ esperienza simile è stata realizzata in Africa, in Namibia. Anche in questo caso i risultati sono stati più che positivi ed oggi esiste una campagna per il rilancio di questa iniziativa per il reddito di base tanto che si è creata una coalizione “per lo sviluppo dell’Africa australe” alle quale partecipano 20 organizzazioni della società civile in rappresentanza di 10 paesi, Nel manifesto programmatico si afferma che: “L’obiettivo della coalizione è quello di garantire un reddito di base a tutti i cittadini dell’Africa australe compresi i rifugiati, i migranti economici e i richiedenti asilo entro il 2020.”

Va segnalata poi l’introduzione della “Bolsa Familia” in Brasile, un reddito minimo garantito destinato già oggi a milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà e che ha aperto un forte dibattito sul diritto al reddito tanto che i 1350 delegati del Congresso del PT (Partido de los Trabajadores) nel 2012 hanno votato all’unanimità la proposta di individuare le forme per istituire un reddito di base in tutto Brasile.

Altrettanto hanno è accaduto all’incontro del 2012 in Sud Corea, tra i movimenti ed i partiti di ispirazione progressista e socialista, in cui si è dichiarato il reddito di base come “fondamento di una nuova società futura”. Nel 2016, il 16° Congresso mondiale delle reti per il reddito, con molta probabilità si terrà proprio in Corea del Sud.

Sempre per avere ancora uno sguardo sul mondo dobbiamo segnalare l’incontro annuale delle reti del Canada e degli Stati Uniti a cui intervengono economisti, filosofi, sociologi, attivisti sociali e personalità politiche che si sono espresse a favore di un reddito di base.

In Europa, oltre la rivendicazione di un reddito di base il dibattito si nutre anche di proposte diverse tra loro ma che vanno comunque nella direzione di definire un diritto al reddito.

Come rete italiana abbiamo voluto tenere insieme, sin dalla nascita, i diversi approcci al tema per valorizzare le diverse proposte possibili costruendo cosi una sorta di “rete di competenze”.

Va fatta una certa distinzione infatti dell’uso dei termini. Anche se non entreremo nel merito delle tante definizioni usate (reddito di inserimento, reddito di ultima istanza, reddito sociale etc.) possiamo definire intanto le due accezioni di maggior uso:

il “reddito di base universale e incondizionato” o “reddito di cittadinanza o di esistenza” che si riferisce ad un reddito erogato su base individuale senza alcuna contropartita da parte del beneficiario ne condizione sociale specifica di accesso.

Ed il “reddito minimo garantito” con cui si intende una erogazione economica a coloro che vivono sotto una certa soglia cosi da definire “un minimo, una base che deve essere appunto garantita”. Essendo un diritto che prima di tutto deve riconoscere la dignità della persona, l’erogazione non deve indicare forme di obbligo particolari, compreso il lavoro, perché intende favorire la possibilità a tutti di poter partecipare alla vita sociale, culturale e politica garantendo innanzitutto la dignità della persona.

Uno strumento che liberi dal ricatto e dal rischio povertà e che determini una maggiore forza per l’autonomia delle persone.

In questo senso lo sguardo italiano al tema è forse determinato anche dal fatto che nel nostro paese non esiste alcuna forma di sostegno al reddito come già accade in numerosi paesi europei.

Come risaputo in Italia una gran parte dei lavoratori siano essi precari o autonomi non hanno diritto ad alcuna forma di sostegno economico o di tutele quali le ferie, la malattia, la maternità etc. Cosi come per i disoccupati o gli inoccupati, non vi sono misure specifiche.

La sensazione di essere cittadini europei di Serie B in Italia è molto forte rispetto alle esperienze, in particolare dei paesi del centro e nord Europa, in quanto a diritto alla casa, a sussidi di disoccupazione, alle forme di reddito minimo garantito, al sostegno ai trasporti pubblici, all’accesso agli asili nido o ai servizi etc. Questo determina oltretutto un gap enorme tra cittadini dello stesso continente che vivono condizioni di disagio economico simili.

Un gap che sta producendo un nuovo fenomeno che è quello del “turismo del welfare” che vede cittadini europei spostarsi nei paesi dove il sostegno alla persona è più generoso. Il rischio immediato che si corre è una sorta di contrapposizione tra cittadini di un paese ed un altro, tra lavoratori di un paese dove vi sono maggiori garanzie e disoccupati di un altro paese dove non vi sono garanzie. Il risultato, se non si crea un diritto al reddito di tipo continentale, è se va bene, una riduzione delle forme di sostegno per coloro che non sono cittadini della stessa nazione in cui il welfare è maggiore e al peggio l’abbassamento per tutti delle tutele e la cancellazione dei diritti in generale. Con il rischio dal punto di vista politico che si venga a determinare una sorta di nuovo nazionalismo, cavalcato dalle compagini di estrema destra, intorno anche alla rivendicazione dei diritti. In Italia in questo senso vi sono già coloro che rivendicano il diritto alla casa solo per i cittadini italiani.

Al momento in Italia vi sono tre proposte di legge per la definizione di un reddito minimo garantito ed una proposta di legge di iniziativa popolare alla quale hanno partecipato oltre 170 associazioni ed una campagna sociale che ha prodotto oltre 250 iniziative pubbliche. Queste proposte di legge non sono state neanche discusse in Parlamento o in una qualche commissione.

A differenza del dibattito internazionale che ha avuto un approccio più umanistico ed universale, quello sviluppatosi in Italia ha avuto sin dalle origini un approccio più “classista” e che si richiama in gran parte all’operaismo italiano e alle sue successive evoluzioni teoriche, definito «post-operaista». Questo approccio analizza le trasformazioni produttive contestualmente alla mutazione del «soggetto», cioè di quell’attore sociale che potrebbe farsi materialmente portatore della rivendicazione del reddito garantito.

E’ così che nel passaggio dal fordismo al post-fordismo si è posto l’accento sull’affermazione di una nuova tipologia di forza-lavoro, caratterizzata da un inserimento precario e discontinuo nel processo produttivo formalmente inteso e che ha portato il passaggio da una società del lavoro a una società dei lavori.

Il sistema del lavoro, negli ultimi decenni del secolo XX, ha subito profonde trasformazioni. Le strutture e le dinamiche che, dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, hanno caratterizzato il sistema del lavoro hanno cambiato radicalmente aspetto ed il Welfare state, era congeniato a rispondere ad un modello specifico di produzione e di ritmicità della vita, dentro e oltre il lavoro.

Oggi il lavoro fisso è sempre meno una certezza e la condizione di precarietà è stata esportata da settori specifici a tutta la produzione, compresi quei settori industriali o meno, che prima non li vedevano cosi direttamente coinvolti.

La precarietà si è imposta come modello di riferimento generale ed ha finito per coinvolgere strati sempre più larghi di popolazione ed allo stesso tempo non vi è stata alcuna introduzione di garanzie che fossero adeguate a questa trasformazione.

La precarietà frammenta la composizione della forza lavoro, spezza i legami sociali che si stabilivano tra i lavoratori, nonché tra il lavoratore e il proprio lavoro. Il lavoro precario è sempre più spesso un lavoro individualizzato, dove ognuno gioca per sé, per un tempo determinato ed i costi sociali di questa condizione sono molto alti.

Le condizioni di instabilità economica determinano spesso solo scelte sul presente, soluzioni temporanee e spesso si fanno rinunce definitive per il futuro. Con l’estendersi della precarietà, dunque, è il ciclo di vita stesso che è più articolato e incerto. Per questo si è cominciato a parlare di precarietà non solo del lavoro, ma della vita.

Bisogna sapersi muovere tra le opportunità più differenti, saper “fiutare le occasioni”, saper essere “imprenditore di se stesso”, saper rischiare, saper competere con, o meglio contro anche lo stesso lavoratore che hai di fianco.

Chi è in condizione di precarietà deve continuamente riorganizzare il proprio tempo di vita in funzione delle richieste del mercato e delle sue fluttuazioni. E questo tempo di vita è anche tempo economico.

Quando possono, sono le famiglie d’origine che fanno fronte a queste esigenze ed è facilmente comprensibile quanto tutto questo renda difficile la gestione della propria condizione. Ancora di più in quei paesi, come l’Italia, dove il sistema di welfare spesso è stato scaricato proprio nella redistribuzione intra-familiare. I risparmi della Nonna arrivano a sostenere la precarietà del nipote e allo stesso tempo il figlio precario non è i grado di sostenere il padre o la madre che hanno perso lavoro o che sono pensionati. Lo scivolamento verso la povertà è una delle poche certezze di questi anni incerti.

La questione del reddito garantito va nella direzione di costruire garanzie nuove dentro e fuori il mondo del lavoro e allo stesso tempo rimettere in moto quel senso di emancipazione e autodeterminazione che passa attraverso la possibilità di scegliere e di determinare percorsi possibili nel presente e per il futuro.

Una proposta che tiene conto delle trasformazioni avvenute perché è in grado di interrompere quella condizione che rende i soggetti sociali soli, ricattabili, deboli, contrapposti, senza diritti.

Il reddito garantito avrebbe la possibilità di sovvertire il ricatto dettato dalla sola imposizione della necessità verso una più interessante e necessaria pratica della possibilità.

Cosa sarebbe infatti la stessa flessibilità del lavoro se oggi ci fosse una garanzia economica per poter passare da un lavoro ad un altro senza per questo dover cedere a ricatti di un lavoro qualunque ed essere costretti ad accettarlo per evitare il rischio di cadere in povertà? Cosa sarebbe la flessibilità se si potesse scegliere quale lavoro poter fare, se si potesse avere tempo per potersi muovere nel mercato, comprendere meglio quali occasioni ed opportunità cogliere, come formarsi nuovamente, come rafforzare le proprie competenze senza per questo dover essere costretto dalla necessità di affrontare la sola sopravvivenza?

Si tratta di costruire quelle garanzie che non vedano il lavoratore come puro oggetto passivo, pura merce, in balia delle occasioni casuali o delle sole esigenze dell’impresa, ma di valorizzare le sue capacità produttive, senza svilire le sue urgenze di vita.

Si tratta di contrapporre alla flessibilità come condizione subita, un’impostazione che faccia della flessibilità un’occasione, una possibilità, una scelta eventuale: una “flessibilità agita” accompagnata dunque da una garanzia economica, da un reddito garantito che permetta di non essere soggetto ricattabile ma soggetto agente, attivo, in grado di determinare le scelte presenti e future.

Un lavoratore soggetto alla discontinuità e all’incertezza del reddito, è innanzi tutto una persona ricattabile, perché costretto ad accettare qualunque occasione, anche la più degradante e mal retribuita, pur di avere un minimo di cui vivere. Perdere l’occasione per un precario significa perdere tutto, perché non c’è conoscenza del domani, nessuna garanzia ulteriore.

La precarietà vuol dire anche questo: sottomissione a rapporti sfavorevoli perché non si ha la possibilità di rifiutare nulla, poiché nulla è garantito.

Va tenuto conto inoltre che è ormai quasi possibile una sorta di storicizzazione del fenomeno della precarietà perché questa attraversa ormai tutti i settori della produzione, ed allo stesso ha coinvolto più di una generazione.

La generalizzazione della condizione di precarietà ha determinato una mutazione, cosi da costruire nei soggetti precarizzati forme di adattamento, risposte individuali, un senso di competizione tra lavoratori che prima era sconosciuto.

La prima generazione di precari, quella che possiamo definire i precari post-fordisti, risultavano insediati in prevalenza nel settore dei servizi, dell’informatica e della creatività, del lavoro immateriale e delle nuove tecnologie ed esercitavano in una certa misura una ricerca di opportunità professionali nuove. Un approccio da free lance nelle nuove trasformazioni del lavoro.

Un prima generazione precaria che risultava tuttavia provvista di una soggettività politica data dalla compresenza viva, attorno a sé, delle garanzie tipiche del diritto del lavoro e che conosceva la grammatica dei diritti, delle tutele, delle garanzie, del welfare sulla quale si era esercitato per decenni proprio il discorso politico del movimento operaio tradizionale.

C’era, tutto sommato per questo precario di prima generazione, una ricerca di equilibrio tra innovazione sul piano personale e ricerca di garanzie sul piano della tutela collettiva. Il prefisso post con il quale veniva caratterizzato (postfordista, postindustriale, postmoderno, etc.) rende chiaro il punto storico e la natura ancora incerta di questo soggetto.

A partire dai primi anni del nuovo millennio, si può parlare al contrario di una precarietà di seconda e terza generazione per la quale pare non esserci uno spazio alternativo oltre alla condizione ormai strutturale e pervasiva della precarietà dell’intero spazi e tempo di vita.

Per questi precari di nuova generazione, rispetto a quelli definiti post-fordisti, è molto flebile e spesso pare inconsistente il riferimento al precedente sistema di garanzie del lavoro e oltre il lavoro, alla capacità e alla possibilità di costruire sindacato, di rivendicare diritti. Un soggetto ancora più frammentato e scomposto, che sembra non comprendere e non guardare alle tutele precedenti e spesso non le conosce neppure. Come se non portasse con sé neppure la memoria del diritto del lavoro classico.

Una classe in se, forse, ma sicuramente non una classe per se.

Inoltre, se il precario di prima generazione poteva ancora avere un vantaggio talvolta quasi esclusivo, rispetto ai nuovi settori produttivi (quali l’informatica, la comunicazione, i servizi), il precario di seconda e terza generazione si trova a confrontarsi con il problema di un’economia in crisi per la quale le stesse opportunità di lavoro diminuiscono e sono sempre più povere sia dal punto di vista della qualità, della durata, dei diritti, che dal punto di vista salariale.

Dunque i precari di seconda e terza generazioni sono più distanti anche dalle occasioni che i loro predecessori avevano a disposizioni viste le nuove opportunità date ai tempi dalla new economy. Allo stesso tempo sono più distanti dai comuni strumenti delle politiche del lavoro, sono poco coinvolti nelle iniziative organizzate dalle rappresentanze sindacali e fronteggiano questa sorta di «privatizzazione dei rischi sociali» in maniera individuale.

Il precario di seconda e terza generazione, in definitiva, è un soggetto più povero e vive in un eterno presente in cui, come sostiene Z. Bauman, in Modernità liquidaora è la parola chiave della strategia di vita”.

Il precario emergente, figlio della crisi e della regressione economica degli anni 2000, però esce anche dagli schemi dell’epoca post, e si presenta con tutta la sua crudezza nell’epoca «pre», di ciò che comincia a farsi avanti.

La parabola del soggetto precario qui descritta non è certo esaustiva e definitiva, ma induce ad attribuire un significato nuovo anche al reddito garantito. Se la prima fase del passaggio al lavoro flessibile e alla sua precarizzazione individuava il reddito garantito come una remunerazione per la ricchezza prodotta dalla cooperazione sociale diffusa e dal general intellect, l’attuale composizione del precariato spinge a rivedere di nuovo il senso di questo strumento.

Oggi quello che emerge con forza è la necessità di definire uno strumento immediato di contrasto alla ricattabilità ed al rischio povertà e verso la possibilità di costruire strumenti su cui agire la propria autonomia e libertà di scelta.

Il passaggio a politiche di workfare in tutto il continente europeo ha rappresentato lo spostamento di ingenti risorse verso una sfera dell’impresa privata cosi come lo smantellamento dello stato sociale ci parla in fondo della tendenza alla privatizzazione dei servizi e degli strumenti di tutela, e che ha finito per rappresentare l’allontanamento dalla concezione dei diritti universali.

Una società così strutturata non può che avere quale conseguenza l’esclusione sociale. Il risultato di questo ciclo rischia di produrre una società più povera, più statica e perciò meno produttiva, una società con forti dispersioni di risorse.

In merito a questo vanno segnalate le preoccupazioni di fonte Eurostat nel 2006 sul rischio povertà come “fenomeno in crescita. E solo grazie a massicci interventi sociali i Paesi membri dell’Unione riusciranno a gestire una situazione altrimenti esplosiva. A livello Ue, sono ben 72 milioni le persone povere”.

I dati del 2012, dopo sei anni dalle previsioni Eurostat, ci dicono che i poveri in Europa raggiungono la cifra di circa 125 milioni di individui.

Un quadro ancora più grave se si tiene conto delle nuove povertà che colpiscono in particolare gli over 40, i pensionati sociali, i giovani ed in maniera ancora più sconvolgente il numero di bambini a rischio o in povertà assoluta.

Che riguardi i precari, le nuove o vecchie povertà, il disagio sociale, la condizione di difficoltà delle fasce giovanili, delle difficoltà delle persone deboli o anziane, ed ancora, la condizione della donna nel mondo del lavoro e non solo, tutti i dati statistici, istituzionali o indipendenti che siano, raccontano un peggioramento delle condizioni sociali ed economiche e soprattutto rendono chiara la velocità con cui questo processo si è andato e si va determinando.

A fronte di ciò, quello che sembra mancare sono proprie le condizioni politiche per invertire questo drammatico presente ed inquietante futuro prossimo. Come se tra le tante crisi in atto, economica, del lavoro, ambientale, democratica, politica, sociale, vi sia una crisi che ancora non si ha la capacità di affrontare: la crisi dell’alternativa al neoliberismo.

C’è bisogno dunque di una volontà politica pari ad una capacità pragmatica di intervenire. C’è bisogno della stessa velocità e concretezza per rispondere al degrado sociale ed economico che costringe milioni di persone. C’ è bisogno di risposte che concretamente incidano sulla vita delle persone altrimenti costrette ad un presente sempre più competitivo e dove il conflitto rischia di divenire orizzontale, dei poveri contro i poveri. Purtroppo al momento la lotta alla povertà l’ha vinta la povertà. Dobbiamo invertire questa tendenza,

L’Unione Europea ha da tempo individuato il Reddito Minimo Garantito come una policy da connettersi strettamente alle altre politiche occupazionali e di crescita.

La Raccomandazione del 9 ottobre 2008 sulla promozione dell’inclusione sociale e la lotta contro la povertà invita già tutti gli Stati ad introdurre questo strumento ed offre utili indicazioni e cioè che: il Reddito Minimo Garantito non può essere inferiore al 60% del reddito mediano valutato per ciascuno Stato; che oltre all’erogazione monetaria il beneficiario deve essere eventualmente sostenuto nelle spese per l’affitto ed aiutato con forme di tariffazione agevolata nell’accesso ai servizi pubblici essenziali (luce, gas etc.); ed infine che anche per le spese impreviste vi è la necessità di intervenire per evitare il passaggio tra rischio della povertà alla povertà estrema.

Altre due Risoluzioni del Parlamento europeo del 6.5.2009 a firma Jean Lambert e del 21.10.2010 a firma Ilda Figureido, relative proprio al tema del Reddito Minimo Garantito, hanno ulteriormente chiarito i contenuti di questa proposta.

Anche in questo caso si sottolineano alcuni passaggi fondamentali tra cui: che l’integrazione al mercato del lavoro non deve rappresentare necessariamente un requisito per l’accesso al reddito minimo garantito o a servizi sociali di qualità; che tale misura non deve dipendere da contributi legati all’attività lavorativa; che un reddito minimo garantito deve offrire la possibilità a tutti di poter partecipare alla vita sociale, culturale e politica e di vivere con dignità; che anche in periodi di crisi il reddito minimo garantito non andrebbe considerato un fattore di costo bensi un elemento centrale di lotta alla crisi; ed infine che bisogna incoraggiare tutti gli Stati membri a definire una soglia di reddito che contribuisca al miglioramento della qualità della vita delle persone.

Ma a sostegno della necessità di un reddito garantito vi sono anche le autorevoli analisi dell’ILO (International Labour Organization) proprio in merito agli studi sulla condizione di precarietà, dei working poor, dell’emergere della disoccupazione giovanile e della condizione femminile.

Se tra gli obiettivi della «Strategia 2020» si è aggiunto un obiettivo inedito e relativo alla riduzione di almeno 20 milioni di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale, il Reddito Minimo Garantito diventa strumento essenziale essendo l’unica misura in grado di incidere concretamente e direttamente ed in tempi brevi nella vita delle persone.

E’ urgente dunque determinare quelle politiche tali da individuare da subito una misura europea, un fundamental right che sia riconosciuto subito ed in tutti i paesi europei alla stessa maniera. Se questo fosse si determinerebbe un cambio di paradigma immediato tanto sui soggetti beneficiari che nelle politiche europee.

E’ necessario avviare sin da ora una iniziativa politica larga ed inclusiva, destinata a tutti i cittadini europei eventualmente elaborando e promuovendo una nuova ICE (iniziativa dei cittadini europei) in grado di mobilitare movimenti, realtà sociali, lavoratori precari, associazionismo laico eo religioso intorno ad una proposta concreta e che sia in grado di portare a Bruxelles più di un milione di firme cosi da calendarizzare in tempi rapidi una Direttiva europea vincolante per tutti gli Stati.

Ed ancora, vi è l’opportunità in questo caso, di rimettere in discussione le politiche di redistribuzione della ricchezza, di una nuova fiscalità continentale e dell’individuazione di misure in grado di fronteggiare lo strapotere della finanza, una tra tutte la Tobin Tax.

Come dire: un reddito minimo garantito per precari e disoccupati? Ce lo chiede l’Europa! Comprendete da soli già quanto solo questa affermazione ribalti il senso di un anti europeismo espresso dai movimenti nazionalisti, neofascisti e xenofobi!

Una battaglia europea sul reddito garantito dunque aprirebbe nuovi scenari, sia nella difesa dei soggetti oggi ricattabili, sia nella costruzione di una mobilitazione sociale, e dunque in grado di costruire un nuovo rapporto di forza intorno ad una proposta concreta. Ed inoltre favorirebbe l’opportunità di affrontare l’idea di una nuova Europa sociale, sia dal punto di vista della critica al modello di sviluppo che nell’individuare forme concrete di contrasto alla finanziarizzazione dell’economia.

Per quanto riguarda lo scenario italiano chiediamo un ulteriore sforzo ai parlamentari italiani sensibili al tema ed ancora di più chiediamo un sostegno alle organizzazioni politiche, sociali e sindacali italiane di fare propria la proposta di legge di iniziativa popolare promossa da 170 associazioni e oggi ferma in parlamento facendola diventare un obiettivo concreto ed immediato su cui costruire mobilitazione sociale e politica.

Per chi ha ancora a cuore un’idea di giustizia sociale, di relazioni nuove tra gli individui, di un mondo migliore, il reddito garantito può definirsi uno degli obiettivi nuovi su cui si può aprire un’epoca in grado di ricostruire nuovi percorsi di liberazione.

L’agenda di un nuovo corso politico possibile, secondo André Gorz in Miseria del presente, ricchezza del possibile (mai titolo fu più adatto a sintetizzare questa nostra epoca), deve tendere a: «garantire a tutti un reddito di base sufficiente; combinare redistribuzione del lavoro e sovranità individuale e collettiva del tempo; favorire la fioritura di nuova socialità, di nuovi modi di cooperazione e di scambio, mediante i quali siano creati legami sociali e una nuova coesione sociale».

Occorre consentire dunque l’affermazione di quel che Ernst Bloch sosteneva in Marxismo e utopia, che definiva come non-ancora-conscio: cioè quella porzione di futuro che preme per venire alla luce e al pieno possesso di se stesso. «L’utopia non è fuga nell’irreale; è scavo per la messa in luce delle possibilità già insite nel reale e lotta per la loro realizzazione».

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