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Reddito di base o lavoro? Il conflitto non c’è

di Marco Craviolatti

Il temerario trapezista Matteo Renzi ci ha deliziato di un nuovo numero acrobatico: mentre al Senato stravolgeva la Costituzione, alla Camera se ne faceva fiero paladino. Il nobile scopo? Affossare il reddito di cittadinanza, giacché “la nostra Costituzione – dice Renzi – parla di diritto al lavoro. E il nostro dovere è creare lavoro”. Che un reddito di base fosse “incostituzionale” lo aveva già affermato a giugno, aggiungendo che “è la cosa meno di sinistra che esista” (perbacco, uno direbbe lo sfruttamento, la guerra, al limite lo champagne, e invece…). La sortita tocca però un dibattito aperto: lavoro o reddito? Da dove partire, quale priorità assumere? Certo si può aggirare il problema constatando che è una falsa alternativa, che la Costituzione attesta anche il diritto a “mezzi adeguati alle esigenze di vita” e promuove principi universali di dignità e uguaglianza. Infatti, anche alcune categorie Cgil caldeggiano ormai il reddito di dignità, testimoniando quanto sia mutata la cultura “lavorista” del sindacato, che mai in passato avrebbe rivendicato un diritto al reddito svincolato dal  lavoro. A dirla tutta, pure la dignità stessa era identificata solo con il lavoro. Ma via via che si allontana la chimera della piena occupazione, la navigazione a vista intravede nel reddito di base una boa di salvataggio, per tenere a galla e restituire qualche forza a chi si trova sotto ricatto.

Ma subito ci si arena sul come. Un reddito di base caritatevole è facile da realizzare: una modesta elemosina condizionata all’accettazione di qualsiasi lavoro, magari di utilità sociale, ottimo pretesto per ridurre ancora il pubblico impiego regolare. C’è poi la sua versione liberista dell’imposta negativa, un’integrazione fiscale dei bassi redditi promossa già negli anni Settanta da Milton Friedman. Sì, proprio il vate dei Chicago boys. In entrambi i casi, con costi modesti si contiene l’esplosione del conflitto sociale e si garantisce alle imprese un economico bacino di manodopera, alla bisogna. Invece, un reddito di base realmente emancipativo richiede un flusso costante di risorse ingenti, tanto maggiori quanto minore è il tasso di occupazione, che in Italia è inchiodato al 56 per cento (in Germania è al 73). E’ infatti impossibile distinguere la platea in base alle rilevazioni statistiche, che contano “solo” 3 milioni di disoccupati a fronte di 14 milioni di inattivi in età lavorativa, molti dei quali potenziali beneficiari.
Il sistema produttivo nazionale dovrebbe generare ricchezza supplementare a sufficienza per retribuire gli occupati (con i salari), accontentare gli azionisti (con i profitti) e, tramite le tasse, finanziare il reddito di base e rinnovare il welfare collegato (con il salario indiretto). Fuori dal libro dei sogni, il Paese si muove nella direzione opposta, già da prima del crollo del Pil. L’Italia “malata d’Europa” è l’unico paese in cui da quindici anni non cresce più la produttività oraria del lavoro, dove cioè la ricchezza prodotta in un’ora di lavoro è sempre la stessa.  Significa che le imprese si stanno de-specializzando, che prevalgono produzioni seriali a scarso contenuto tecnologico e basso valore aggiunto; invece di innovare i processi (come si produce) e i prodotti (cosa si produce), si limitano a sopravvivere comprimendo i costi. Senza inversioni di rotta, la ricchezza generata non solo non aumenterà, ma si contrarrà ulteriormente rispetto agli altri Paesi, rendendo ancora più ardua un’efficace redistribuzione del reddito, anche al lordo di auspicabili tasse patrimoniali e riduzioni delle spese militari. Più che Renzi, è questa dinamica macro-economica a precludere il reddito di base. Che forse potrebbe mitigarla, alimentando la domanda interna e contratti meno precari, ma certo non invertirla.

Occorre chiedersi cosa può farlo. Su Il Sole – 24ore Luca Ricolfi ha ben illustrato l’apparente incompatibilità tra due obiettivi prioritari di politica economica: occupazione e produttività. Rendere il lavoro low cost può determinare un temporaneo incremento di occupati, ma riduce l’interesse delle imprese a investire perché permette profitti immediati e facili. Ciò concorre alla stagnazione della produttività, con pessime prospettive anche per l’occupazione nelle imprese diventate obsolete. D’altra parte, incentivare l’innovazione tecnologica e organizzativa, quindi la produttività, può espellere quote di lavoratori che diventano superflui. Né si può contare sulla crescita del Pil, che dovrebbe toccare almeno il 2-3 per cento annuo. Ricolfi non dice come uscire dall’angolo.

Certo, servirebbe il Green New Deal, un ruolo attivo dello Stato capace di creare occupazione utile e di attivare politiche industriali lungimiranti.
Ma c’è anche un’altra leva di cambiamento strutturale: la riduzione degli orari di lavoro. Che possa distribuire l’occupazione è confermato dai dati internazionali: orari medi più bassi sono correlati con tassi di occupazione più alti. Il Paese europeo in cui si lavora di meno è la Germania, quello in cui si lavora di più la Grecia: nella realtà, le formiche sono povere, le cicale ricche.
Gli orari ridotti stimolano anche la crescita della produttività oraria, per molteplici ragioni.
Diminuiscono i “tempi morti”, gli errori, l’assenteismo, le patologie, i conflitti con la vita privata; l’enfasi sulla presenza – è bravo chi esce tardi – evolve verso la cultura delle competenze e dei risultati – è bravo chi lavora bene. Le 30 ore settimanali sperimentate oggi in aziende ed enti pubblici svedesi partono da questi presupposti.
La maggiore domanda di lavoro, poi, può assorbire e valorizzare persone competenti e motivate, in particolare donne e giovani, oggi cervelli in fuga verso l’estero o sperperati nei call center.
Infine, per compensare i temuti incrementi dei costi orari del lavoro, le imprese devono aggiornare l’organizzazione, migliorare l’efficienza, effettuare nuovi investimenti. Ciò che a breve sembra un onere, in prospettiva può rilanciare l’economia nazionale e favorire le imprese più innovative. C’è un riscontro recente: con l’avvio delle 35 ore, tra il 1998 e il 2002 la Francia ha visto impennarsi l’input di capitale, cioè il valore investito in impianti, tecnologie, brevetti; grazie allo “shock organizzativo”, la produttività oraria è aumentata del 12 per cento, molto più del costo del lavoro (che è salito dell’8 per cento). Con l’avvento dei governi conservatori, che ha depotenziato le 35 ore, gli investimenti sono subito diminuiti.

E così torniamo al reddito di base, che in questa prospettiva dipende dal successo della riduzione degli orari. Si realizzerebbero, infatti, entrambe le condizioni per la sua sostenibilità nel tempo: riduzione della platea, via occupazione, e aumento delle risorse disponibili, via produttività. Al di fuori di una progettualità che rimetta in gioco anche i tempi di lavoro e di vita – come suggeriva il filosofo francese André Gorz – il reddito di base resterà un’illusione da sbandierare o tutt’al più un modesto lenitivo dell’imbarbarimento. Va infine considerata l’ambivalenza del lavoro, espressione di capacità, ma anche fatica e alienazione. La Costituzione la riconosce nella dialettica diritto-dovere, laddove ciascuno è tenuto a contribuire al “progresso materiale e spirituale della società”. Molte attività informali – cultura, cura, arte – hanno indubbio valore sociale, ma è azzardato equipararle al lavoro ordinario per fondare un generalizzato diritto al reddito. Più del reddito, è distribuire il lavoro che risponde appieno a criteri di giustizia, perché ripartisce sia onori che oneri. Il brindisi per un progetto concluso, ma anche il suono della sveglia nel buio. Se oggi serve meno lavoro, possiamo solo esserne contenti, e liberare il tempo di tutti da dedicare alle attività non mercificate.

La riduzione degli orari anima oggi molti piani di dibattito, culturale, politico, sindacale: per Valentino Parlato è il punto di partenza per ricostruire l’identità della sinistra, per Stefano Fassina un asse programmatico della nuova formazione antiliberista, per Maurizio Landini un obiettivo immediato e concreto della contrattazione. Serve ora un doppio salto di qualità, da riflessione di élite a patrimonio collettivo e pratica diffusa di trasformazione. Un orizzonte appassionante: al centro c’è il tempo di vita, la più grande ricchezza della persona, oggi monetizzato e svalutato a tal punto da non percepirne più il valore. Lavorare meno serve a lavorare tutti, alla produttività, al reddito di base, ma soprattutto serve a vivere meglio.

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