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Qualche riflessione provvisoria sull’’esperienza delle proposte di legge regionale su reddito e servizi

di Cristina Tajani

Il presupposto da cui siamo partiti nel momento in cui abbiamo deciso di provare ad organizzare la giornata di oggi è stata la convinzione che intorno alla costruzione di leggi/proposte di legge sul diritto al reddito emergano degli elementi di avanzamento politico che varrebbe la pena mettere a tema in uno spazio comune, soprattutto alla luce di percorsi e processi che autonomamente già sono in atto altrove. Proverò ad indicare qualche spunto che faccia da “giustificazione” rispetto alla nostra convinzione ad alla giornata di oggi.

1. Un reddito slegato dal lavoro?

 Il primo elemento di riflessione è un elemento culturale. Il fiorire di leggi, proposte di legge regionali, o semplicemente di discussioni intorno al tema di un diritto al reddito su base (per ora) regionale ci segnala un atteggiamento culturalmente più fluido, a sinistra, rispetto al tema reddito/lavoro ed ai nessi che si stringono o si allentano intorno a questi due termini.

E’ evidente che i tentativi legislativi di cui io ho notizia hanno un carattere che non è del tutto – o per niente – assimilabile allo schema teorico del reddito di base o del reddito di cittadinanza, però è un dato, secondo me  positivo, il fatto che non abbiano difficoltà a confrontarsi dentro quell’orizzonte, come è avvenuto durante un seminario su questo tema a Trieste lo scorso Giugno. Voglio dire che, fino a qualche anno fa, in uno schema e in un assetto sociale e produttivo differente, c’era chi proponeva il reddito di cittadinanza, sia nelle sue versioni liberali sia in quelle “antagoniste”, e c’era chi gli contrapponeva il diritto al lavoro. Il fatto che questo piano sia diventato un po’ più fluido, che si riesca a ragionare in questi termini anche dentro le discussioni tra istituzioni, politica e movimenti, che non si abbia timore di confrontarsi con l’orizzonte del reddito slegato dal lavoro non solo per i soggetti “svantaggiati” o per gli “inabili al lavoro” (come storicamente è stato nell’orizzonte dell’assistenza sociale) è un importante punto di partenza politico.

2. Una legge sull’assistenza o sul mercato del lavoro?

 Indubbiamente, come cercherò di argomentare più avanti, questa riflessione ha a che fare con le trasformazioni del modello di produzione e del mercato del lavoro negli ultimi decenni. Queste trasformazioni possono essere schematicamente sintetizzate nell’invalidità del nesso “fordista” lavoro à reddito à cittadinanza. Il capitalismo occidentale del secondo dopoguerra aveva, infatti, mostrato il carattere tendenzialmente includente di un certo modello economico, conseguenza in parte delle esigenze di valorizzazione interne al processo di accumulazione economica (i produttori delle merci, cioè i lavoratori, dovevano potenzialmente essere i consumatori di quelle stesse merci in virtù di una limitata internazionalizzazione dei mercati) e in altra parte della spinta delle lotte dei lavoratori in direzione della piena cittadinanza politica ed economica. Oggi il problema della povertà materiale travalica le sacche di marginalità ed “eccedenza” sociale cui erano destinati i soggetti “non produttivi” e diventa un problema generale che coinvolge anche chi è pienamente inserito nel ciclo della produzione. Il modello è quello statunitense, in cui il 35% degli occupati (dato ONU di qualche anno fa) vive sotto la soglia di povertà (li chiamano working-poors…).

In uno schema in cui il lavoro è lo strumento principe dell’inclusione sociale, le politiche di sostegno al reddito sono destinate ai cosiddetti “inabili al lavoro” (pensioni di invalidità, pensioni di vecchiaia etc…) e ai “poveri abili” condizionatamente alla loro disponibilità di usufruire di percorsi di inserimento lavorativo, riqualificazione professionale, percorsi terapeutici, politiche attive del lavoro o altro. In quest’orizzonte si è mossa anche la sperimentazione del RMI promossa dai governi di centro sinistra.

In un quadro in cui la disoccupazione è solo una delle cause che precludono l’accesso ad effettivi diritti di cittadinanza, lo schema dell’assistenza e dell’accompagnamento al lavoro salta. Dal mio punto di vista i nostri ragionamenti a proposito delle leggi regionali sul reddito devono forzare quel modello. D’altra parte una recente ricerca europea sulle dinamiche assistenziali in Europa (ESOPO) ha mostrato in maniera convincente la fallibilità delle politiche di lotta alla povertà e all’esclusione basate su percorsi di accompagnamento o inserimento lavorativo. Infatti oggi il lavoro è parte del problema quando si parla di cittadinanza e povertà.

3. Quello che già sappiamo: flessibili per forza e poco per scelta.

 Infatti è sempre più evidente che la precarietà, oltre ad essere un fattore di compressione verso il basso del costo del lavoro nell’immediato, diventa una promessa di povertà nel futuro a causa della discontinuità e dell’insicurezza dei redditi: i giovani precari di oggi avranno un destino di pensionati poveri grazie a decontribuzione, buchi contributivi e fondi separati per i lavoratori autonomi (basti ricordare che un co.co.co riceverebbe, dopo 40 anni di contribuzione, una pensione pari circa al 35% dell’ultima retribuzione). Nel 2002 un rapporto dell’IRES calcolava che tra i 2 milioni di co.co.co registrati all’INPS in Italia circa 1 milione e 300 mila lavoratori, dunque oltre la metà, si situa nelle fasce basse di reddito con un introito annuo di 7500 euro circa. Mentre il reddito medio lordo calcolato sui 2 milioni di lavoratori si aggira sugli 11.590 euro annui e le donne guadagnano, sempre in media, la metà degli uomini rimanendo i soggetti (insieme agli ultracinquantenni espulsi dal mercato del lavoro, i giovani in cerca di prima occupazione e i migranti) più esposti a rimanere ingabbiati nella “trappola della precarietà” (ovvero, sulla scorta dei dati, nella “trappola della povertà”). La povertà e l’esclusione diventa così una condizione cui è impossibile emanciparsi una volta per tutte mentre il godimento di effettivi diritti di cittadinanza è sempre più legato all’andamento del mercato ed all’intermittenza dell’impiego.

Più degli altri, allora, le trasformazioni del lavoro negli ultimi vent’anni hanno investito le prospettive e le aspettative delle giovani  generazioni. L’accesso e la permanenza nel mercato del lavoro dei giovani assume caratteristiche strutturalmente differenti rispetto a quelle che hanno vissuto i loro padri. Le condizioni di accesso, in particolare, sono segnate da un’estrema flessibilità in entrata, frutto delle riforme del mercato del lavoro dell’ultimo decennio (dal pacchetto Treu, che è la precarietà che misuriamo oggi, alla Legge 30 che è la precarietà che misureremo domani…).

Ma la flessibilità occupazionale è un dato che tende a permanere e a modificare l’aspettativa occupazionale e di vita anche nelle fasi successive dell’esistenza.

4. Dalla “crisi del lavoro” alla “crisi della città”: due volte precari.

 A questo dato si aggiunge che le  ristrutturazioni dei territori introducono un ulteriore elemento strutturale e non congiunturale nella forme e dimensioni della precarietà che si abbattono sui soggetti che sono entrati nel recente passato e entreranno nel prossimo futuro nel mondo del lavoro. Da almeno un decennio gli studi sulla metropoli segnalano una “crisi della città”, dovuta allo sfasamento tra sistema urbano e sistema produttivo (fine del sincronismo tra tempi della produzione e tempi dell’organizzazione urbana tipici della cosiddetta fase fordista).

La precarietà non è solo un dato registrabile sul mercato del lavoro, ma ha molto a che fare con le condizioni di vita urbana (alloggi, accesso a servizi essenziali, trasporti…) e con il godimento di effettivi diritti di cittadinanza

È evidente che questo dato segna delle conseguenze non solo rispetto all’esigibilità dei diritti dei lavoratori così come codificati, ma implica delle trasformazioni di percezione e di prospettiva per le giovani generazioni di carattere culturale e antropologico. La stessa idea di lavoro nelle nostre società ha cambiato volto e codificazione, così come una serie di sincronismi sociali e consuetudini collettive tarate su tempi e modi del lavoro non più prevalenti.

5. Precari in formazione La precarizzazione della condizione sociale, che ha il suo punto di precipitazione nella legislazione del mercato del lavoro, acquista maggior spessore d’analisi se letta insieme alle misure legislative che, dal Ddl Moratti al riordino dei cicli scolastici avviato dal Ministro Berlinguer, alludono ad un modello di società che vede la competizione economica giocata, da un lato, sulla precarizzazione estrema (ed il basso costo) del lavoro, e dall’altro sulla mercificazione e la privatizzazione dei saperi (brevetti persino sul vivente e copyright) mentre i destini sociali degli individui si divaricano già durante l’assolvimento dell’obbligo scolastico.

Il mondo della formazione diventa così uno dei primi luoghi in cui la precarietà si manifesta. Il modello della “formazione continua” ha reso evanescente il confine tra momento della formazione e momento della produzione, asservendo la prima alle esigenze della seconda e mettendo direttamente in produzione (in maniera non metaforica: si pensi al sistema dell’alternanza scuola-lavoro nel ciclo secondario di studi ed a quello degli stage e tirocini per l’Università) i soggetti in formazione. [È interessante osservare nelle statistiche degli ammissibili al reddito di cittadinanza campano come gli studenti rappresentino il 15% dei soggetti aventi i requisiti. Cioè la categoria più numerosa dopo i disoccupati.]

Gli studenti sono precari in formazione, così come precari sono coloro ai quali è affidata la ricerca pubblica, secondo lo slogan “la precarietà fa bene alla ricerca!” propagandato dal ministro Moratti, che null’altro sottende se non perdita di autonomia e ricattabilità di chi sceglie di dedicarsi alla ricerca pubblica come risposta a bisogni sociali e non a interessi privati.

È indicativo di che tipo di funzione sociale si immagina per le istituzioni formative  il fatto che il decreto 276 (applicativo della legge 30) preveda la possibilità di svolgere attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro anche alle università pubbliche e private, comprese le fondazioni universitarie, e agli istituti di scuola secondaria di secondo grado, pubblici e privati.

6. Un nuovo immaginario collettivo

Dal mercato del lavoro ai territori, passando per la formazione, le trasformazioni sociali investono in maniera preponderante il futuro dei giovani e la stessa percezione che le giovani generazioni hanno di sé: in questa percezione collettiva il dato della precarietà e dell’insicurezza si fa costituente. Lo hanno raccontato quasi tutte le mobilitazioni degli ultimi anni, che fossero mobilitazioni sindacali, vertenze territoriali o reti studentesche ed universitarie: dai primi scioperi di precari nei call-center, alle vertenze degli autoferrotranvieri e di Melfi, passando per le mobilitazioni dei ricercatori precari e degli studenti alle lotte di intere comunità contro la mercificazione del territorio e delle risorse (frutto anch’esso di una relazione nuovamente strumentale tra uomo e territorio). La partecipazione straordinaria (per quantità e intensità simbolica del messaggio) di migliaia di persone, prevalentemente giovani, alle ultime edizioni della MayDay è la rappresentazione di una nuova consapevolezza sociale e generazionale. La ricerca di definizione di un nuovo linguaggio capace di interpretare le nuove lotte ed i nuovi bisogni cammina parallela al processo di costruzione dell’identità conflittuale delle giovani generazioni.

7. Qualche punto di possibile generalizzazione sulla scorta dell’ esperienza lombarda.

La parola d’ordine del REDDITO, con varie declinazioni,  ha fatto da sfondo a moltissime delle iniziative di lotta degli ultimi anni.

Credo che le esperienze di costruzione di vertenze per il reddito possano rappresentare uno strumento utile, ma certamente non l’unico, di lotta contro la precarietà a più livelli del vivere sociale.

Un esempio in questa direzione, pur nella sua parzialità, è stata l’esperienza della Rete contro la Precarietà della Lombardia, che è riuscita a costruire una proposta di legge d’iniziativa popolare sul reddito attraverso un percorso aperto e plurale tra soggetti di “movimento” differenti (sinistra sindacale, sindacati di base, centri sociali, associazioni e partiti…) nell’ottica di farne uno strumento di conflitto e di mobilitazione.

Il primo elemento è dunque un elemento di metodo: la costruzione di vertenze e proposte sul reddito possono creare spazi di discussione e di interlocuzione tra soggetti diversi. Non “piattaforme” , frutto di sommatorie e mediazioni tra diversi, ma proposte plurali e condivise attraverso un vero e proprio percorso di “legislazione dal basso”. Il secondo elemento è il merito delle proposte che possono nascere (come già sta succedendo) in singoli territori o regioni ma che alludono ad una generalizzazione su scala nazionale. Nel merito la proposta lombarda ha proceduto secondo le seguenti linee di ragionamento:

1. Sappiamo che intermittenza dell’impiego è una delle ragioni per cui i lavoratori atipici si collocano nelle fasce più basse di reddito, insieme alle donne, ai giovani, ai lavoratori migranti e, molto spesso, ai lavoratori dell’arte e dello spettacolo con contratti tipicamente “intermittenti”. Inoltre l’intermittenza dei versamenti contributivi condanna i giovani precari di oggi a divenire “pensionati poveri” o “mai pensionati” domani. Pensiamo, allora, ad una proposta di legge regionale di iniziativa popolare che garantisca continuità di reddito e di versamenti contributivi ai lavoratori ed alle lavoratrici precarie, come parte della battaglia contro la precarietà del lavoro, del reddito e della vita e nella consapevolezza che occorre estendere sul piano nazionale questa proposta.

2. Come in alcune proposte già esistenti chiediamo lo stanziamento di un’erogazione monetaria integrata da un pacchetto di servizi ai soggetti precariamente occupati al momento della perdita del lavoro, ai disoccupati in cerca di occupazione e agli studenti universitari che vivono fuori dal nucleo familiare. I soggetti beneficiari devono essere residenti nel territorio, mentre non deve costituire requisito di accesso al beneficio la cittadinanza italiana. L’obbiettivo è quello di garantire una continuità di reddito a fronte della discontinuità occupazionale, consentendo così anche la continuità dei versamenti contributivi ai fini previdenziali. I soggetti beneficiari devono poter alludere alle diverse mobilitazioni che in questi anni hanno messo al centro la questione della precarietà nelle sue diverse forme: i disoccupati, che sembrano essere scomparsi dall’agenda della grande politica; i migranti, figura paradigmatica della precarietà totale dell’esistenza; gli studenti universitari che, precari in formazione, hanno mosso una critica radicale all’inadeguatezza del vecchio strumento del diritto allo studio come strumento di inclusione veramente efficace.

3. Nel pacchetto di servizi sono comprese, a carico anche dei comuni, agevolazioni per i trasporti, per la fruizione di beni e servizi culturali e artistici, per la casa, facilitazioni per l’accesso al credito (attraverso una garanzia delle fondazioni bancarie). Questi elementi sono essenziali per restituire fruibilità del territorio e delle sue risorse (anche artistiche e culturali) ai soggetti cui viene sottratto. Il modello cui abbiamo guardato pensando alla “restituzione dei servizi” è l’esperienza romana di Action!.

4. La copertura finanziaria delle proposte di legge è un terreno di ricerca in cui si manifesta la carica conflittuale di un’ipotesi di questo tipo. Nel nostro caso il finanziamento non pesa indistintamente sulla fiscalità generale, ma è a carico di quei soggetti economici (imprese utilizzatrici, somministratrici…) che traggono profitto dalla fornitura e dall’utilizzo di lavoro precario. In questo senso ci poniamo il problema di rappresentare un disincentivo concreto all’utilizzo delle tipologie contrattuali precarie, rendendole relativamente più costose. Ma un ragionamento più ambio sulla necessità di pensare ad una “nuova fiscalità” può coniugarsi con ipotesi legislative come quella proposta in Lombardia. Si tratta di inseguire i flussi di ricchezza là dove si ridislocano, anche a livello sub-nazionale. Penso alla tassazione della rendita finanziaria o immobiliare (con meccanismi di differenziazione dell’ICI a seconda della destinazione d’uso degli immobili). Il terreno della fiscalità, infatti, è un terreno conflittuale possibile per ridisegnare la distribuzione del reddito.

Tratto da Forum sul Reddito, Milano 19 novembre 2005

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