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Precario a chi?

di Gian Marco Mecozzi

Il precario italiano è una figura per lo più misera. Rappresentato massimamente per difetto, dipinto in mille e più ritratti politically correct come una iattura, una de-generazione da debellare, il soldato semplice di un esercito di poveri reietti da salvare, il precario, appare chiaro, è un discorso da rovesciare. È proprio quando l’egemonia culturale, come si diceva una volta, sta tutta da un’altra parte, che appare sommamente ragionevole la peraltro virtuosa regola di rovesciare i concetti.

Precario a chi?

Il precario italiano è una figura per lo più misera. Rappresentato massimamente per difetto, dipinto in mille e più ritratti politically correct come una iattura, una de-generazione da debellare, il soldato semplice di un esercito di poveri reietti da salvare, il precario, appare chiaro, è un discorso da rovesciare. È proprio quando l’egemonia culturale, come si diceva una volta, sta tutta da un’altra parte, che appare sommamente ragionevole la peraltro virtuosa regola di rovesciare i concetti.

Il lavorio indefesso dell’intero arco culturale nostrano, cui i più avvertiti soggetti hanno prontamente intuito la somma utilità, è incessante e, talora, impressionante. Editoriali compassionevoli sulle prime pagine dei quotidiani, inchieste o pseudo tali sui settimanali progressisti, film e documentari di gran classe, addirittura personaggi ambigui nelle fiction di regime, sono dedicati costantemente alla trattazione della precarietà come forma di disagio esistenziale e come forma sociale grandemente ingiusta.

Notiamo en passant come la generazione che dipinge un simile affresco è, con qualche eccezione, la stessa che, nel momento della formazione del cosiddetto precariato (do you remember il pacchetto Treu?) è stata per lo meno silente. La stessa generazione che sulla flessibilità del lavoro argomentava, per anni che sono sembrati secoli, facendo ricorso a filosofie, queste sì, de-generate. Mi ricordo di discorsi belli tondi e ragionevoli. Io mi ricordo.

Il risultato di questo vero e proprio lavoro culturale è la percezione generalizzata (e, ciò che è più grave, l’intima auto-percezione) del precario come una figura negativa. Di quel negativo assoluto, e mai in discussione, mai dialettico, cui il pensiero unico stesso ci ha insegnato a diffidare. È proprio lì dove si annida il pericolo (per lui), infatti, che il pensiero unico si sforza di lavorare con maggior lena.

Lo straniero, per esempio, è materialmente un “pericolo” per la comunità, poiché scardina i confini politici e culturali cui quella stessa comunità si rinchiude, quando e se ci si rinchiude. È chiaro che, rovesciando il pericolo, lo straniero offre alla comunità anche e soprattutto la possibilità virtuosa di allargare i suoi confini, geografici e culturali. Per questo è un pericolo e per questo è rappresentato nel modo indegno che sappiamo, in modo così pervasivo, in modo così irragionevolmente pericoloso, senza virgolette. Nonostante la forza di fuoco enorme che l’avversario sta utilizzando, lo straniero tuttavia rimane (siamo – ancora per quanto? – in milioni a pensarlo) una ricchezza e una possibilità. Lo stesso discorso non vale per il precario. Esso è una figura solamente negativa, sia se la guardi da destra, sia da sinistra, da sopra come da sotto.

Il precario deve essere veramente pericoloso. Lo stesso pensiero unico ce lo dice, dedicando a lui così tanto del suo tempo, per sfaldarne minuziosamente le potenzialità trasformatrici. Il precario, come è noto, fa di tutto. Il precario sa fare tutto. Non è una brutta notizia. Eppure, per il pensiero unico dominante, questa diventa una carenza di specializzazione. Il precario non sa stare sul mercato, argomenta il pensiero unico dominante, e per questo rimane precario. Il mercato del lavoro esige specializzazione. Eppure il precario è proprio il risultato delle liberalizzazioni selvagge. Il precario, il concetto stesso, sembra mordersi continuamente la coda. È un vero e proprio circolo vizioso quello cui è affidato. Un girare a vuoto che però, se vai a vedere il bluff, ha un momento decisivo, prima che culturale, economico. Da cui partire per rovesciare il discorso.

Nel momento in cui lo si battezzava nel nome del libero mercato, infatti, e nello stesso tempo in cui se ne intuiva il potenziale dirompente, lo si privò, per disinnescarlo, di un reddito continuato e stabile. Qui lo snodo fondamentale. Il precario si riconosce come tale non per la discontinuità del lavoro, ma per l’assenza, sempre più invasiva e selvaggia, di un reddito continuato, e sempre più anche di un reddito quale che sia. Il precario non è un disoccupato. Non è il lavoro che manca al precario, ma il reddito.

Dipingerlo come cittadino assettato di lavoro è un’operazione culturale magistrale. Da qui alla plebe, allo schiavo, il passo non è poi così grande. Questa assenza di lavoro continuato, ci dicono continuamente, è il prezzo pagato dal precario per la sua esistenza in vitro. Vale a dire, argomenta il pensiero unico dominante: se al precario diamo un lavoro continuato, esso cesserà ipso facto di essere precario. Lavoriamo su questo, ci dicono. Non è il reddito, ma il lavoro il problema del precario, ripetono assillanti, e questo è falso. Magistralmente falso. Il precario è una ricchezza, sia detto una volta per tutte, che non ha bisogno di lavoro ma di un reddito: un reddito garantito.

Il precario infatti, anche senza reddito, ha una risorsa: il suo tempo. Il tempo è la prima ricchezza del precario: un tempo libero, e non liberato, che oggi è costretto a subire, sistematicamente asfissiato, cercando inutili lavori che lo riempiano di valore illusorio. Un tempo irreale che genera mostri. In realtà, culturalmente e politicamente più avanzato dei tempi che vive, il precario che oggi riesca a liberare il suo tempo, riempiendolo di valore reale, ha già vinto. Il tempo del precario non va riempito di lavoro, ma va liberato dall’ossessione della ricerca dello stesso, con un reddito garantito. Solo così si otterrà la negazione determinata del lato negativo del precario, lasciandoci la soddisfazione di riuscire a scoprire cosa c’è oltre di esso, dopo il suo superamento.

Il precario dunque è una figura ricca, di saperi, di potenzialità, di forza. Il precario dotato per assurdo di lavoro stabile (non argomentiamo qui se la cosa sia possibile, e comunque non lo è) non cesserà solamente di essere tale, ma cesserà di possedere anche le potenzialità trasformatrici di cui oggi è portatore insano. Cesserà di possedere il suo tempo da liberare e finirà per diventare un’altra di quelle tragiche figure che ci attanagliano quotidianamente (gli operai di Pomigliano, i disoccupati di tutta Italia, e tutti gli altri) per le quali tutto l’arco culturale e politico, lo stesso che si sta gettando sul precariato con famelica paura, sembra avere compassione e solidarietà senza mai avere (guarda un po’) nulla da fare e decidere o solamente da proporre, se non la firma di contratti in forma di soluzione finale.

Il precario è un soggetto sociale ancora nuovo e ricco di forza. Raffigurarlo continuamente come un soggetto misero, privo di dignità e di capacità non servirà il pensiero unico almeno tanto quanto non è servito dipingere per secoli come reietti e rifiuti della società l’operaio e, ancora prima, il  villano di campagna. Smettiamola di affidare la nostra rappresentazione a prezzolati pittori di regime. Il reddito di cittadinanza potrà svincolare il precario dal regno delle necessità e spingere i suoi desideri verso la formazione di un’utopia ancora tutta da rappresentare. La nostra.

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