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Precari di tutto il mondo: unitevi

di Franco Carlucci

Nuove figure operaie e percorsi di ricomposizione a partire dal reddito per tutti.

Uscire dalla fase di resistenza conseguente alla sconfitta drammaticamente consumata negli anni ’80 per tornare a pensare in positivo, e quindi rielaborare un’attitudine conflittuale d’attacco, sembra essere ormai non solo un’esigenza condivisa da molte persone ma uno stato d’animo scalpitante, una tigre in gabbia desiderosa di libertà.
In tutti questi anni abbiamo provato a difendere i nostri spazi e le fragili conquiste delle generazioni precedenti, forti di idee di liberazione faticosamente e poco efficacemente rinnovate, utili in ogni caso a mantenere vivo il fuoco sotto la cenere. Comunque, “le idee di rivolta non sono mai morte”.
Adesso ci guardiamo negli occhi e ci diciamo che forse il vento sta cambiando, il liberismo non sembra più un moloch invincibile, sembrano riaprirsi degli orizzonti interessanti. Bene. Ma adesso proviamo a tornare indietro nel tempo.

Agli inizi del secolo, nella fabbrica pre-fordista, le figure operaie erano caratterizzate in genere da buoni livelli di specializzazione e di professionalità. La formazione costante data dall’esperienza, il sedimentarsi di un sapere fatto di conoscenze tecniche e di capacità di collaborazione e di lavoro collettivo, facevano in modo che il lavoratore industriale avesse un buon livello di consapevolezza dei meccanismi della produzione. In parole povere sapeva come funzionava la sua fabbrica e, soprattutto, sapeva come farla funzionare. Per esempio durante il biennio rosso (1919-1920), il tentativo rivoluzionario che in Italia vide come protagonisti soprattutto i lavoratori torinesi, gli operai provarono a mettere in pratica lo slogan “facciamo a meno dei padroni”. Le fabbriche occupate, sottratte al controllo degli industriali ed espulsi i dirigenti e i capi-reparto, proseguirono la produzione in maniera autogestita.
Dimostrando se non altro che (se proprio dovevano lavorare) potevano fare da soli, rendendo inutile la parassitaria esistenza dei padroni. Era possibile, seppure in maniera solo abbozzata, impostare la produzione a partire da necessità e bisogni radicalmente e sostanzialmente diversi da quelli del capitale.
La cosa non piacque per niente ai padroni: la capacità di comprensione e di autorganizzazione della classe operaia rappresentava un punto debole che andava rimosso.

Nel sistema di produzione fordista, introdotto negli anni ’20 da Henry Ford nei suoi stabilimenti negli Stati Uniti, l’operaio esegue mansioni ripetitive e poco qualificate, scandite dal ritmo monotono e incessante della catena di montaggio. Gran parte del senso del suo lavoro gli sfugge, ha solo una vaga idea di ciò che accade a monte e a valle della sua postazione, non sa più come funziona la sua fabbrica. Non può rivendicare nessuna particolare professionalità, il suo sapere tecnico è limitato, lavora da solo ripetendo pedissequamente giorno dopo giorno sempre gli stessi gesti.
Condivide però questa condizione esistenziale con un numero enorme di suoi simili: la città-fabbrica (Torino, Detroit, ecc.) ospita centinaia di migliaia di persone che fanno più o meno lo stesso lavoro, che hanno lo stesso salario, che vivono negli stessi quartieri, i loro figli frequentano le stesse scuole. Una massa enorme dotata di una forte identità di classe, che sa riconoscersi vicendevolmente, che parla lo stesso linguaggio, concentrata nella stessa dimensione fisica, la fabbrica fordista.
Quando l’operaio massa prende coscienza della sua forza è in grado di dare spallate che fanno tremare il mondo. La forte concentrazione numerica, la forte identità, la possibilità di bloccare la produzione con facilità, rappresentano il punto debole del modello fordista: anche questa cosa non piacque per niente ai padroni. In Italia, per esempio, la Fiat, a metà degli anni ’70, introduce l’informatica nel processo produttivo.

Nel sistema di produzione post fordista la figura operaia perde identità, divenendo frammentata e nebulosa. Nel passaggio dalla città-fabbrica alla metropoli la produzione viene decentrata sul territorio, esce dalla grande fabbrica fordista e si dispiega nei mille rivoli delle mille fabbrichette, dei mille scantinati, dei mille laboratori familiari.
L’informatizzazione della produzione, oltre a generare espulsione di mano d’opera dal ciclo produttivo, permette di comunicare in tempo reale annullando le distanze spazio-temporali: la produzione di merce-informazione diviene essenziale per la produzione di tutte le altre merci, materiali o immateriali che siano. Il concetto stesso di produzione
si estende, si allarga, cresce come una mostruosa ameba invadendo ogni ambito della vita sociale, sussumendo ognuno e ogni cosa nel ciclo lavorativo continuo delle 24 ore.
Si frammenta e si disgrega la produzione fordista e con esso si frammenta e si disgrega il soggetto operaio da essa generato, l’operaio massa, che, tendenzialmente, si estingue. Il post fordismo genera disgregazione dove prima c’era identità: non scompare l’operaio, scompare la coscienza di sé. Ma occorre sempre meno mano d’opera per produrre la stessa quantità di merci. Il capitalismo può fare a meno sempre di più del capitale variabile (le persone) privilegiando il capitale fisso (le macchine). E allora trovarsi e mantenersi un lavoro (volendo) è sempre più difficile. Emerge una tipologia infinita di nuove figure operaie, in una delle quali sicuramente ognuno e ognuna di noi può riconoscersi.

– L’operaio classico (parecchi milioni in Italia e centinaia di milioni nel mondo) è costantemente minacciato e ricattato dalle ristrutturazioni che snelliscono gli organici attraverso la costante innovazione tecnologica; dalle delocalizzazioni che trasferiscono le produzioni nei paesi dell’Est o del Sud del mondo dove il costo del lavoro è inferiore; dalle nuove forme contrattuali come i contratti di formazione lavoro, i contratti d’area, ecc. Molti si confrontano con salari di poco superiori al milione al mese. Il posto in fabbrica garantito, con un salario umile ma sicuro, è un puro e semplice ricordo del passato.
– Molti operai si sono riciclati in padroncini: hanno messo su una fabbrichetta con pochi dipendenti, familiari e/o conoscenti. Lavorano con un unico committente che stabilisce i tempi, i modi, i prezzi. Non hanno nessuna autonomia, sono strozzati dalle tasse e le banche non gli fanno credito: alla prima crisi saltano finendo in mano ai cravattari. Si sentono imprenditori minacciati dallo statalismo e votano Lega. In realtà la grande impresa si è liberata di produzioni scomode facendole fare ai suoi ex-dipendenti, che sempre subordinati rimangono, per di più sempre sul filo del rasoio. Se va bene mi faccio il Toyota. Ma se va male…
– Il lavoratore autonomo di 2° generazione è formalmente autonomo ma in realtà è un lavoratore salariato, per di più senza contributi pensionistici, ferie, malattie, ammortizzatori sociali vari. Dispone di partita Iva, passa dieci ore al giorno davanti al computer per lo più per quattro soldi, oppure presta la sua consulenza professionale in qualche cooperativa di assistenza domiciliare. L’insicurezza è il suo mestiere: i pochi fortunati guadagnano bene (ma per quanto?).
– L’impiegato statale era l’emblema del posto fisso: da dimenticare. Le privatizzazioni di molti settori pubblici si concludono spesso con rudi tagli agli organici, mentre si comincia ad annunciare pubblicamente l’esistenza di migliaia di esuberi addirittura nei ministeri, paventando mobilità, riduzioni consistenti dei salari, ecc. I suoi figli staranno peggio di lui. (1)
– Il disoccupato non è un senza lavoro. Il disoccupato è un lavoratore più precario degli altri. Lavora poco e in nero, ha un reddito insufficiente a sopravvivere e per questo deve accettare di tutto, anche le condizioni più umilianti. E’ il lavoratore modello dell’era neoliberista: non solo è sfruttato ma è costretto a dire grazie.
– Si potrebbe continuare ancora molto ad elencare il variegato mondo della frammentazione operaia, dai lavoratori socialmente utili, alle ragazzine costrette nei sottoscala a duemila lire all’ora, agli immigrati clandestini, deputati loro malgrado a calmierare il costo del lavoro, ai pensionati che, se non hanno abbastanza soldi per curarsi, semplicemente muoiono prima.

Tutte queste figure sociali, nuove figure operaie della produzione diffusa post fordista, pur nella loro estrema frammentazione, diversificazione e collocazione nel mercato del lavoro, vivono un elemento esistenziale senz’altro comune a tutti e tutte: la precarietà del rapporto di lavoro e quindi del proprio reddito e quindi della propria vita.
E’ da contestare invece il concetto di esclusione: nell’era della globalizzazione gli esclusi non esistono, ci siamo tutti dentro fino al collo, tutti messi al lavoro per produrre ricchezze da espropriare, soprattutto quelle persone che occupano i gradini più bassi della scala sociale. Esclusi dal privilegio, è vero, ma allora non è un problema di esclusi ed inclusi, ma di sfruttati e sfruttatori. Questa nuova classe operaia (dall’impiegato ministeriale al disoccupato del Sud, alle nuove leve industriali del Sud del mondo, agli operai agricoli stretti tra monocoltura e monocultura) vive nei fatti una ricomposizione in negativo, caratterizzata da elementi forti quali l’insicurezza, la paura, la solitudine, la rassegnazione. Non c’è più separazione tra occupati e disoccupati, poiché tutti siamo messi al lavoro nella fabbrica globale cablata che è diventato il nostro povero pianeta. E’ solo un problema di quanto si lavora, non se si lavora. Siamo quindi tutti nello stesso contenitore, scomposti, sconosciuti gli uni agli altri, ma, comunque, insieme.
Potrebbe forse essere proprio questo il punto debole della nuova organizzazione del lavoro. Il portato involontario del binomio postfordismo/liberismo sta nell’avere di fatto riunificato, per quanto riguarda le problematiche esistenziali materiali, settori di classe e figure sociali apparentemente distanti anni luce. Nuovi livelli di coscienza di classe (“precari di tutto il mondo unitevi”) adeguati alla contemporaneità possono trasformare una ricomposizione in negativo (stiamo tutti male) in una ricomposizione in positivo (… ma siamo tanti e siamo forti). In questo senso le differenze e le diverse collocazioni nel mondo della produzione possono diventare una ricchezza formidabile: nel passato l’operaio e la sua forza erano fisicamente collocati nella fabbrica, oggi le nuove figure operaie partecipano in maniera capillare di ogni ambito della produzione, da quello più arretrato a quello più avanzato.
Come possono gli invisibili rendersi visibili a se stessi, come sarà possibile che un nuovo blocco storico si riconosca, prenda coscienza di sé e si autorganizzi, in autonomia per quanto riguarda i propri percorsi ed in conflitto con i divergenti interessi del neoliberismo?
Uscire dalla precarietà imposta e dall’insicurezza che ci espone al ricatto, per prefigurare una società fondata su priorità diverse da quelle attuali, è un concetto di fondo che può essere raccolto da più parti.

La battaglia per il reddito di cittadinanza è senz’altro essenziale: il cittadino ha diritto ad una quota di ricchezza sociale, sganciata dalla attività lavorativa, che sostituisca completamente il reddito mancante o che integri un reddito insufficiente. In questo si ipotizza un modello di organizzazione sociale nel quale la persona è portatrice di diritti alternativi alle compatibilità del mercato. (2)
La richiesta di servizi sociali gratuiti per le situazioni più precarie ed un tariffario sociale per affitti, bollette, ecc. e l’abolizione dei ticket sanitari, integrano la battaglia per il reddito di cittadinanza.
A questo terreno va affiancata la riduzione drastica dell’orario di lavoro. Non tanto per creare nuovi posti di lavoro, che comunque non occorrono perché la continua innovazione tecnologica rende i lavoratori sempre meno necessari, a meno che non si voglia davvero puntare sul risanamento ambientale del territorio, quanto per liberare il tempo, da dedicare a cose più serie che lavorare sotto padrone.
Al reddito di cittadinanza e alla riduzione di orario si aggiunge il discorso teorico e pratico sull’autoproduzione (di reddito, di socialità, di percorsi di liberazione). Se pensiamo che l’osservanza dei dogmi del mercato non sia precisamente lo scopo dell’umanità e che le persone debbano sviluppare la libera espressione creativa fuori e contro la produzione di merci, dobbiamo cominciare da subito, senza aspettare il sol dell’avvenire, a mettere in piedi situazioni in cui si producano relazioni, cultura, servizi, beni materiali e immateriali fuori da una logica di profitto.
Ma un movimento che si batta per questi obiettivi dovrà camminare strettamente allacciato al mondo dell’autorganizzazione di base dei lavoratori. In particolare l’esperienza appena avviata delle camere del lavoro autorganizzate (vedi Brescia e Firenze) è il prodotto di nuovi livelli di comprensione delle dinamiche contemporanee del mercato del lavoro (vedi n. 06 di Infoxoa, intervista ai Cobas).
Per concludere alcune parole in sequenza utili a continuare una battaglia politico-culturale: rifiuto del lavoro salariato – liberazione – approfondimento – analisi – presa di coscienza dei macrosistemi – formazione autogestita…

NOTE:
(1) E’ invece patetica la figura del manager colpito da downsizing: quando due corporation si fondono vengono espulsi, oltre naturalmente a operai e impiegati, anche un numero consistente di manager fino a quel momento ben pagati. Nel giro di poche settimane si proletarizzano: perdono la casa, la macchinona, si stressano, divorziano, si alcolizzano, si gettano dal quarantesimo piano di un grattacielo. Questo per dire che l’insicurezza sociale sta arrivando in luoghi insospettabili.
(2) Il concetto di salario minimo appare poco pregnante: se chiediamo un salario vuol dire che ci consideriamo o come salariati o come salariati mancati, e il salario ce lo dà comunque un padrone. A volte anche la scelta dei termini da usare non è secondaria.

Tratto da Infoxoa N° 6 – Settembre 1998

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