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reddito-garantito

Per un’’archeologia della formazione

di Laboratorio filosofico: “Sofia Zoe-Roney Meclaim”

La conoscenza si costituisce e si riproduce  anzitutto come rivendicazione di reddito. Il movimento della conoscenza infatti, irrappresentabile e oggi irriducibile alle pratiche di produzione correnti di abilità intellettive perseguite da scuola e Università nella loro procurata differenza, vive nelle condizioni di possibilità di un basic income universale e incondizionato.

Vale la pena affrontare in maniera archeologica, cioè ricostruendone la genealogia, i rapporti tra saperi e poteri nelle scuole e nell’Università, coinvolte nei generali processi di trasformazione del sapere vivo secondo la legge del mercato.

L’eccedenza della protesta studentesca, del mondo della formazione superiore e dell’istruzione di ogni ordine e grado, che ha dato vita all’Onda nello scorso anno e oggi si ripresenta con nuova verve e nuove potenzialità, malgrado l’omicidio di Alexis ad Atene e l’ennesima criminalizzazione al G8 di Torino, testimonia il passaggio dall’espressione di un “malessere diffuso” alla costruzione di soggettività intellettuale, culturale e politica.

Questa emergenza ha radici profonde ormai almeno un trentennio, cioè da quando in Europa, echeggiando gli USA, le istituzioni del sapere e della formazione, compresi centri di ricerca e di eccellenza, hanno subito una torsione in senso neoliberista, torsione che nei vari cicli dell’ideologia disastrosa dei Chicago Boys e dei teocons, ha rivoluzionato in senso privatistico il “mondo” dell’istruzione superiore.

Ciò che emerge a partire almeno dalla metà degli anni Settanta dello scorso XX secolo, e che si è  affermata negli anni Ottanta in tutto il suo potere dirompente, è una rottura dell’ordine costituito del discorso scolastico e accademico, imperniato sulle prestazioni welfariste del settore pubblico statale. A differenza di ciò che fino a qualche anno fa si pensava anche nei milieu accademici più avanzati sul piano dell’analisi sociologica dei sistemi della formazione, la svolta liberista di scuola e Università è consistita in una ribellione generalizzata all’istruzione di massa obbligatoria, che ad esempio in Italia ha prodotto dopo il 1968 la riforma delle elementari, la scuola media unica e successivamente i “decreti delegati” nella scuola superiore e i piani di studio liberi nelle Università.

A fronte di quest’assetto dell’istruzione pubblica, la differenza tra Europa e Italia consisteva nel fatto che mentre nei paesi in cui il welfare è stato tradizionalmente più forte ed esteso l’istruzione media e superiore ha beneficiato di vincoli universalistici, mentre in Italia, ove lo stato sociale era limitato agli occupati a tempo indeterminato, le difficoltà di realizzazione della scuola di massa, sono nel corso degli anni divenute sempre maggiori.

Nell’istruzione e nella formazione accademica della metà degli anni Settanta non si trattava tanto di una difficoltà quantitativa nell’accesso a scuola e Università, ma soprattutto qualitativa, laddove, ad esempio nelle diverse regioni, scuola e Università pubbliche accusavano differenze notevoli quanto a standard di eccellenza e virtuosità di spesa. Con il mancato sviluppo del sud Italia, in cui Università e centri di ricerca sono stati realizzati a partire dai primi anni Ottanta, il “gap” tra ricerca e formazione rispetto all’Europa del Nord e alla Francia consisteva nella progressiva implementazione della burocrazia e nell’ingresso di burocrati-professori nelle Università e di un corpo insegnante nella scuola media che avevano origini e cultura contadina e molto poco “industriale”, con un’ideologia familista che il ruolo sociale di maestre ed educatrici accentuava invece di dissolvere.

La rivoluzione del ’68 si rende dunque concreta sul piano dei contenuti, mentre su quello cruciale delle forme e dei linguaggi fino all’ingresso nelle scuole di generazioni di studenti politicizzati, nulla cambia fino alla metà degli anni Ottanta.

La cultura pubblico-welfarista, incardinata nelle prestazioni erogate dallo stato-nazione, mentre sviluppa conflittualità e ricerca in Francia, in Olanda, in Germania, qui ha sviluppato una cultura del consenso nei confronti dei partiti della sinistra storica, contro cui studenti, insegnanti e docenti universitari di nuovo ingresso alla metà degli anni Settanta hanno dovuto ribellarsi. Per cui le chances di privatizzazione dell’istruzione hanno avuto àdito qui più che altrove sul presupposto che  scuola e Università di massa avevano creato omologazione del sapere, figure di insegnanti poco professionali e baronìe universitarie.

D’altra parte le rivendicazioni della formazione gratuita ed universale, attraversata da quella per le 150 ore per gli operai e dalla riforma degli organi collegiali in senso “democratico” nelle scuole superiori, avevano realmente creato un tessuto connettivo di risposte generalizzate alla discriminazione di classe e alla sperequazione sociale, nonché alla crisi economica seguita allo schok petrolifero del 1973, che era fondata sull’autoorganizzazione delle istituzioni dell’istruzione e della ricerca.

Cos’erano infatti i consigli di classe, di istituto e dei docenti, nonchè gli spazi di autogestione e con- ricerca nelle Università, se non luoghi in cui si praticava e si rivendicava un’alternativa alla divisione forzosa di lavoro manuale e intellettuale, cos’era l’orizzontalità della decisione e la sperimentazione dei curricola, se non tempi e spazi liberati del sapere?

Ma i partiti della sinistra, in crisi di consensi dalla seconda metà degli anni Settanta, invece di esercitare su questa base una critica sistematica del rapporto tra sapere e potere, hanno svuotato e fatto consapevolmente fallire, insieme ai sindacati, quell’esperienza di democrazia diretta che si sprigionava da pratiche istituzionali,  pratiche, si badi bene, rese tali per legge e con decreti.

Invece di valorizzare la formidabile sperimentazione dei poteri che il ‘68 e il ‘69 avevano realizzato, hanno provveduto a distruggerla, a suon di ordinanze ministeriali, altri decreti e un profluvio di circolari che incastonavano sapere e formazione nelle rigide griglie di una “forma”-scuola e una “forma-Università che replicavano la “forma”-stato burocratica. Tale presa governamentale sui soggetti implicati nella produzione di saperi diviene la forma con cui i poteri politici hanno gestito, senza la concorrenza dei mass media, la trasformazione del welfare da universalistico a corporativo.

Ma non di sola burocrazia si è trattato nel declino e nella crisi irreversibile dei saperi scolastici e accademici. Infatti le prime tendenze italiane alla privatizzazione, agli inizi degli anni Ottanta, negli anni della craxiana “modernizzazione”, provengono direttamente dai mutamenti strutturali dell’economia mondiale, anzitutto inglese, in cui comincia ad affermarsi con i governi Tatcher, il modello neoliberale basato sulla compressione dei salari e la riduzione del deficit pubblico, ottenuto attraverso lo scardinamento dello stato sociale, i licenziamenti, le delocalizzazioni e la repressione diffusa.

Gli effetti del liberismo privatizzante prima maniera negli anni Ottanta in Europa sull’istruzione pubblica furono l’affermarsi del debito come misura del sapere e della restituzione di cultura, intelligenza e abilità individuali in termini monetari. Debiti scolastici, crediti formativi, modularità, punteggio degli esami in crediti nelle Università hanno configurato esattamente la simmetria tra saperi e poteri, nell’adeguamento mercantile della formazione alla forma generale della merce, dando il via ai procesi di valorizzazione cognitiva, oggi in onda.

La conseguenza più diretta dell’introduzione del “debito” formativo quale misura dell’accumulazione del sapere è stata la progressiva fuoriuscita dalle strutture dello stato sociale delle figure della conoscenza, studenti, insegnanti, ricercatori che, rispetto allo standard debitorio, rappresentavano un’ eccedenza, non riducibile alla legge del valore.

La seconda metà degli anni Novanta, quando il ministro democristiano D’Onofrio ha istituìto i debiti e i crediti nella scuola superiore, non ha prodotto figure del sapere conflittuali; tutt’altro.

Il primato umanistico dell’istruzione e della formazione sul lavoro tout court è stato sostituto dall’ integrazione dell’eccedenza nei meccanismi di trasmissione e riproduzione del sapere.

Come si sa, non solo in Italia, di questo ordinamento sono stati responsabili in buona misura i sindacati della scuola e della formazione che, a differenza di quelli di categorie sociali “forti” negli anni Settanta, come gli operai, hanno sostituito alle rivendicazioni già anacronistiche di riforma complessiva dell’istruzione, l’acquiescenza allo status quo che disbrigava i rapporti tra saperi e poteri nell’ordinamento gerarchico ottocentesco e postfascista di scuola e Università.

Parallelamente, ed è una tendenza globale, si faceva strada la distinzione arbitraria, tra scuola e Università, funzionale alla disgregazione dell’orizzonte comune della formazione materna, elementare, media, superiore e universitaria, nonché della ricerca, sì che negli scorsi anni Novanta si svolgevano due processi divergenti e paralleli di riduzione al mercato: la scuola pubblica sviluppava skills e competenze in vista di un ingresso sempre più precoce nel mercato precarizzato del lavoro; l’Università cominciava a subire un sistematico definanziamento, funzionale all’entrata di aziende e multinazionali che, in nome della sussiadiarietà hanno occupato lo spazio vuoto dell’interesse pubblico  e della  ricerca autonoma, ingrassandolo con interessi corporate (armi, biotecnica, agroalimentare, energia, pubbliche relazioni, consulenza filosofica).

Da un certo momento in poi, che nel mondo coincide con la fine degli anni Ottanta e in Italia anni dopo, con l’introduzione delle scuole di specializzazione all’insegnamento oggi fallite, l’intera struttura dei saperi muta pelle, anche per l’ingresso delle tecnologie informatiche e digitali, scomponendosi e dematerializzandosi in una serie infinita di moduli e unità minime che però, invece di avere a fondamento l’aleatorietà e la contingenza che vige in ogni rapporto tra saperi e poteri, erano piegati alla logica d’impresa. Questo  ha significato non solo la presenza degli interessi multinazionali nella ricerca ma soprattutto che i saperi universitari, trasformandosi in dicipline, in luoghi di istituzione di un potere costituto, si dislocavano come se fossero interessi d’impresa e processi di accumulo di capitale, pur non potendolo essere.

Non a caso la retorica del “capitale umano”, dell’  “ottimizzazione”, della “cooperazione”, marciando di pari passo con la scansione modulare dell’insegnamento e della professionalizzazione hanno creato quei mostri che sono le Università pubbliche a partecipazione privata, mostri più o meno funzionanti peraltro negli Stati Uniti, a Singapore, in Canada e ora anche in Cina e in India e che invece in Italia hanno approfondito la distanza, già siderale, tra ricerca pura e concrete pratiche di riconoscimento degli studi…

Il risultato di questa svolta aziendalista della formazione pubblica, oltre all’incremento esponenziale di Università private, religiose e non, è stata la liceizzazione dell’Università, per cui una serie di saperi “superiori” si trovano ridotti a conoscenze manualistiche, sintesi raccapriccianti, pressappochismo militante (con il preoccupante fenomeno degli insegnanti di liceo che insegnano nelle facoltà, perché un contrattino semi-schiavistico non si nega a nessuno, perché tanto il lavoro è a tempo, perché comunque la priorità è il mantenimento e l’accrescimento delle iscrizioni nelle singole facoltà, e infine perché gli insegnanti si tolgono volentieri dalla scuola).

In questo modo si è creato il noto fenomeno di dumping sociale tra Università e singole facoltà in concorrenza spietata, soprattutto alla metà degli anni Novanta, in epoca di crescita economica globale.

In parallelo, ma sempre più distintamente, l’insieme della scuola pubblica dagli inizi dell’ultimo decennio del secolo scorso, ha subito un processo ostinato di immiserimento e di svalutazione che ha coinvolto le sue strutture, il personale tutto, gli studenti e l’intero significato attribuito all’istruzione. Ma si badi: questo processo si può osservare da due lati, quello della dismissione del welfare e quello della sua inutilità.

Cosa è accaduto infatti nell’epoca della mercificazione dei saperi e della valorizzazione immateriale della forza lavoro mentale? Che l’ombrello welfarista, difeso da politiche “sinistre” e sindacali contro gli attacchi concentrici di governi, confindustriali, lobby teo-politiche, invece di includere il massiccio precariato della formazione, entrato nell’istruzione alla fine degli anni Ottanta, era agitato contro quella forza-lavoro stagionale, irregolare, perennemente in stato d’emergenza, in nome della stabilità del posto fisso.

A questo primo evento epocale, che ha fatto deflagrare qualsiasi tentativo di difesa dei diritti dei senza diritti, se ne è aggiunto, in Italia dopo la finanziaria Amato del 1992 , un altro, forse ancora più devastante. I sindacati dell’istruzione infatti hanno accettato la moderazione salariale in cambio della continuità delle garanzie per i già occupati nella scuola, di fatto rendendo semplice l’espulsione e il ricatto del mercato dell’istruzione nei confronti di neo assunti, precari, sottoccupati.

Ecco che d’un tratto il salario degli insegnanti è diventato lo strumento biopolitico principale che ha consentito il governo della formazione pubblica, la mobilità a oltranza della forza lavoro mentale, l’immiserimento del ruolo e della funzione di maestri e docenti che, da educatori sono mutati in preparatori atletici che devono allenare alla flessibilità.

Non troppo paradossalmente, come tendenza globale,  nelle Università si sono sviluppati una serie di saperi altri, effetto dell’accumulo dei conflitti degli anni Settanta, sedimentati però in énclaves che difficilmente riescono ad avere relazioni durature con le soggettività potenziali dentro e fuori i luoghi della formazione.

Gli studi post-coloniali, la teoria e le pratiche femministe, la teoria politica, la sociologia e un’antropologia situata, configurano oggi le uniche oasi di sapere vivo tra le rovine dell’Università globale, mentre un ecologismo non troppo radicale ha dato vita ad interi dipartimenti vòlti allo studio di un’ inutile “sostenibilità” ambientale, mentre con la crisi scatenata dai subprime sarebbe forse il caso di studiare un anarcoecologismo che imponga il blocco sistematico del ciclo industriale novecentesco del petrolio. E tuttavia dal femminismo e dalle culture della differenza, come anche da quelle delle reti, è emersa in questi anni l’unica innovazione in grado di costruire una soggettività del knowledge, in grado di opporsi ai regimi governamentali di produzione e diffusione del sapere.

Ciò perché l’intuizione dei movimenti, specie quello del 1977, di un “gaia scienza” che abolisse d’un colpo, il lavoro, la produzione, i partiti e l’insieme irresponsabile dei poteri costituìti alle prese con saperi sempre più fluidi ma anche sempre più differenziati e situati, una volta criminalizzata non ha più avuto alcuna evoluzione teorica, mentre sono divenuti di moda, negli scorsi anni i “saperi di lotta e di governo”, un pervicace lavorismo e il controllo sistematico del dissenso e dell’intelligenza creativa.

Al contrario le culture post-femministe e gblt, queer e pink, che dal tema della femminilizzazione del lavoro e dei regimi della riproduzione della vita hanno tratto nuova carica e soprattutto un nuovo orizzonte simbolico per affermare l’eccedenza irriducibile di pratiche di sottrazione ed esodo dalla società del salario e dello sfruttamento, i saperi cyber e le culture hacker che hanno infuso potenza ai movimenti del precariato, la cultura pirata che ha prodotto conflitto dentro e fuori l’Università in rovina sono divenuti il movimento dei lavoratori della conoscenza e la molteplicità di soggetti contro cui viene messa in campo tutta la potenza di cui dispone un regime in crisi

La litania ammorbante delle riforme dell’istruzione e dell’Università, dalla Berlinguer-Zecchino del 1999, alla Moratti, a Fioroni e Gelmini scandiscono la conflagrazione del rapporto tra saperi e poteri che, dall’intento protoliberista di razionalizzazione del sapere e della ricerca, trabocca nella delirante pretesa d’ordine e nella discrezionalità dell’accesso alla formazione superiore che la trasformazione delle università in fondazioni produce.

Ciò che infatti è degno di nota, in questa ricostruzione dei passaggi emergenti dei rapporti tra saperi e poteri nella potmodernità, è che proprio in nome dell’autonomia sono stati compiuti negli anni 2000 gli scempi più atroci: autonomia scolastica si chiamava la riforma Berlinguer (oggi tra l’altro evocata nostalgicamente da molti insegnanti a fronte  dello scempio dei provvedimenti Fioroni e Gemini), che in nome della libertà delle singole scuole ha disposto una forma di welfare fai-da-te, compresa la feroce concorrenza tra istituti a colpi di depliant pubblicitari e offerta formativa strappaappalusi. Autonomia e 3+2 si è chiamata la riforma Zecchino dell’Università che ha introdotto il sistema perverso dei crediti, l’aumento esponenziale delle tasse universitarie, la modularità e l’insegnamento manualistico e l’accelerazione dei corsi di laurea funzionali al mercato della flessibilità precaria. Gerarchizzazione dei docenti si è chiamato il tentativo di Berlinguer di istituire il “concorsaccio”, fallito per le proteste della maggioranza del personale scolastico, e reimmesso nel sistema dell’istruzione sotto forma di “figure strumentali”.

Finanziamento alle scuole private cattoliche, che nel frattempo hanno goduto e continuano a godere di una particolare franchigia nei rapporti con lo stato, contraria alla Costituzione, ( gli insegnanti di religione sono pagati anche da quelle famiglie i cui figli “non si avvalgono”), si è chiamata la riforma Moratti con cui è iniziato il processo di definanziamento delle Università. Contrazione dell’obbligo scolastico, sparizione dell’istruzione tecnica, introduzione degli sponsor nelle scuole e nell’Università, formazione continua, questo è stato il verbo del neoliberismo straccione, cantato a più non posso fino alla crisi economica dell’ottobre 2008, sul sottofondo della “compatibilità” recitata da ciò che rimaneva delle sinistre e dalla miserabile rappresentanza sindacale dei “lavoratori della conoscenza”. In ultimo il ddl Aprea che abolisce la RSU e sostituisce gli organi collegiali  con fondazioni, consigli di amministrazione ed esperti esterni; rende i neoassunti precari in nome dell'”autogoverno” (sic!) delle scuole.

L’Onda che ha travolto tutto questo in molti paesi d’Europa e in alcune metropoli degli Stati Uniti, in Argentina, in Giappone, ha soprattutto ridicolizzato la pretesa dei regimi finanziari in crisi di rilanciare la “formazione permanente”, più o meno come era stata proposta dall’agenda di Lisbona, rovesciandola in conflitto permanente e volontà di autoformazione. Una soggettività del sapere è dunque emersa, frutto dell’accumulo di lotte per il primato del comune, dopo la dissolvenza del  welfare nazionale. Ciò che insomma era stato dislocato fino alla metà degli anni Ottanta, l’estrazione di plus-valore dalle facoltà umane, è divenuto un dato appariscente, una marca flagrante dei reali rapporti tra poteri e saperi. Ed è dall’emergenza di tali insiemi discorsivi e dalla logica di dispersione che il regime delle facoltà umane ricrea continuamente, che si va formando una coscienza dell’esteriorità di ogni sapere rispetto ad ogni cultura, disciplina e disciplinamento.

L’autoformazione è questa potenzialità, l’uso del knowledge è produzione di sapere all’altezza della crisi economica e tecnica del momento.

Questo pensiero comune è la risorsa della formazione, rovesciata contro i fautori della formazione continua; ma è anche il pensiero e la fisica dei corpi, la (nostra) tecnologia biopolitica scagliata contro i fautori delle rovine. In questa connivenza delle connessioni possibili vivono infatti oggi la scienza, la tecnologia e l’insieme dei saperi. E’ un insieme indecomponibile perché ormai è a prova di tutte le scomposizioni (classe creativa, classe generale, classe hacker, precari della conoscenza). E’ una composizione orizzontale dei saperi, perché a differenza che nei regimi statal-nazionali, oggi i saperi vivono nel conflitto e sono essi stessi conflittuali.

Inoltre, ed è forse il link più diretto tra saperi e soggetti, la conoscenza si costituisce e si riproduce  anzitutto come rivendicazione di reddito. Il movimento della conoscenza infatti, irrappresentabile e oggi irriducibile alle pratiche di produzione correnti di abilità intellettive perseguite da scuola e Università nella loro procurata differenza, vive nelle condizioni di possibilità di un basic income universale e incondizionato. Questo orizzonte non è più soltanto quello della situazione metropolitana del precariato globale, ma si è estesa al mondo intero, alla condizione migrante,  alla riproduzione e alla cura, a quella di ogni possibile diversità, a maggior ragione nell’era della crisi globale. Se infatti la riunificazione dei saperi enuncia il fatto che “noi la crisi non la paghiamo ( e ve la creiamo)”, l’ordine del discorso in cui tale enunciato ha senso è che il reddito per tutti/e è la condizione materiale minima per riequilibrare l’enorme scompenso tra ricchezza reale e capitale simbolico. Al tavolo della crisi è infatti questo il gioco. Un gioco a cui non possono più partecipare nè partiti nè rappresentanze, perché la partita per il reddito è una partita di civiltà, una partita normativa, una partita per la legittimazione della cosiddetta cittadinanza globale. Ecco perché ogni movimento della conoscenza si configura come eccedenza: perché la riappropriazione dei commons passa per l’appropriazione di reddito, sganciato dal lavoro e che paga la vita. Noi infatti non paghiamo con la vita, dobbiamo esser pagati per la vita.

www.sofiaroney.org

Tratto da L’altro – giugno 2009

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