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Le ragioni del reddito minimo universale

di Giacomo Pisani

L’esigenza di istituire un reddito minimo universale non nasce dalla necessità di integrare la marginalità entro la società del mercato. Il reddito minimo costituisce, piuttosto, un fattore di decostruzione di ogni modello socio-economico determinato. Con il riconoscimento della dignità e del diritto all’esistenza della persona al di fuori del mercato, esso permette di sottrarre quest’ultimo all’assolutizzazione determinata dalla sua ingestione onnicomprensiva in ogni sfera dell’esistenza, per aprire delle possibilità di scelta.

Una certa scuola riconducibile a Negri e all’elaborazione che ruota attorno al capitalismo cognitivo, afferma la necessità, nell’attuale modello capitalista avanzato, di istituire il reddito minimo per riconoscere a tutti l’apporto dato alla produzione. Oggi, infatti, quest’ultima è sganciata dalla strutturazione rigida di matrice fordista, che relegava la produttività entro i limiti della mansione del lavoratore, sancita dal contratto. Oggi la produttività è connessa con relazioni e capacità che gli individui sviluppano anche al di fuori dell’attività lavorativa socialmente riconosciuta. Di qui l’esigenza di retribuire tale produttività aspecifica.

Tale modello ci sembra presentare alcune debolezze strutturali. Anche ammettendo la smaterializzazione del lavoro nell’epoca del lavoro cognitivo, affermare la necessità di retribuire anche coloro che non sono socialmente riconosciuti come lavoratori significa ricondurre il loro disagio, che investe le dimensioni più intime dell’esistenza ed è rinviabile all’estetizzazione neutralizzante tipica della postmodernità, soltanto ad un deficit di tipo economico. Inoltre, retribuire quel modo di esistenza prodotto dal modello postfordista, equivale a legittimare, ancora una volta, un modello socio-economico determinato.

La giustificazione addotta a questo proposito riguarda il fatto che la postmodernità ha effettivamente prodotto una liberazione delle soggettività dalle categorie rigide della modernità che, a partire dal lavoro, determinavano un’esistenza alienata, priva di spazi di autonomia. Oggi, piuttosto, il capitale interverrebbe a posteriori a sussumere le soggettività, sfruttandone proprio le potenzialità derivanti dall’emancipazione postmoderna, e riconducibili a capacità relazionali, di autonomia decisionale ecc.

In tal modo, si arriva ad ignorare il fatto che il soggetto è strutturalmente esposto all’ambito sociale di appartenenza, e soprattutto che l’individuo postmoderno è disarmato a priori e deprivato della possibilità di decisione. La precarizzazione e l’estetizzazione postmoderna, più che liberare gli individui dalle categorie alienanti della modernità, li ha inglobati nelle proprie sacche di passività confinandoli in spazi neutri, all’ombra del paradigma dominante, con le sue chimere- lavoro, casa, famiglia- che pure continuano a costituire il riferimento essenziale per la conduzione di una vita “normale”.

Il reddito universale, allora, è uno strumento fondamentale per opporsi a qualsiasi ipostatizzazione della natura umana. Esso è lo strumento per liberare, pur all’interno dell’organismo sociale in cui si struttura l’esistenza, un margine di autonomia e di rielaborazione.

Non è neanche possibile ricondurre tale provvedimento alla necessità di rispondere ad un qualche modello di giustizia formale, come nelle teorie di matrice contrattualista. L’esigenza del reddito non deriva da questioni di ordine logico, che indurrebbero, per esempio, ad escludere dalla proprietà di sé e del proprio lavoro gli strumenti di cui ci serviamo per la nostra attività, “correggendo” la teoria lockeana, per fare un solo esempio.

L’esigenza del reddito emerge nell’immanenza dei rapporti sociali, e per questo si rende necessaria una concezione dinamica del diritto che, anziché essere ripiegata sul livello astratto e formale, si fondi sui bisogni individuali e apra spazi di esistenza e di appropriazione.

L’universalità del reddito, contro la sua subordinazione alle fasce al di sotto della soglia di povertà, deriva allora dal fatto di emancipare l’esistenza da possibilità inaggirabili, per riconoscere una sfera inalienabile, quella della libertà. Libertà anche di rinunciare ad un lavoro troppo oppressivo o distante dalle proprie inclinazioni, favorendo un’umanizzazione del lavoro in generale.

Il reddito minimo universale diviene allora il modo per riconoscere i bisogni e le decisioni umane al fondo di ogni modello sociale storicamente determinato, contro ogni schematizzazione della vita e mortificazione della libertà.

 

Articolo pubblicato su Fondazione Critica Liberale il 13 maggio 2013

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