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La strategia del bene comune

di Stefano Rodotà

Dalle critiche alla legge di stabilità emergono i nostri vizi culturali e i modi di intendere la vita delle persone. Bisogna riconoscere che le politiche europee si sono rinchiuse nella dimensione economico-finanziaria e hanno amputato quella dei diritti

La legge di stabilità non è solo la “polveriera” economica di cui ha parlato Tito Boeri. Ha fatto affiorare vizi culturali profondi, che toccano il ruolo sociale dei beni, i limiti della discrezionalità politica, e il modo stesso d’intendere la vita delle persone. Provo a sintetizzare alcune indicazioni su questi tre punti.

1) In molti paesi è da tempo in corso una discussione sul grande e ineludibile tema dei beni comuni, che in Italia viene troppo spesso falsato da una diffusa e spesso compiaciuta ignoranza, e talora distorto da qualche intemperanza ideologica. Nell’ultimo periodo non sono mancate ironie sui “benecomunisti”, e qualche aggressione pochissimo informata su alcune esperienze in corso. Si ignora che questo tema ha dietro di sé una lunga serie di studi e che, nel 2009, il Premio Nobel per l’economia venne assegnato a Elinor Ostrom proprio per i suoi contributi alla teoria dei beni comuni (i più importanti sono disponibili in italiano). In Italia è stato pubblicato un fiume di libri. Segnalo soltanto la ricca raccolta di saggi nata da un seminario della Fondazione Basso (Tempo di beni comuni, Studi multisciplinari… Ediesse, Roma, 2013); il nitido itinerario di Guido Viale (Virtù che cambiano il mondo. Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Feltrinelli, Milano, 2013); e il lavoro di uno storico, Andrea Di Porto, che tra l’altro ricorda il lontano punto di partenza della sentenza della Corte di Cassazione del 1887, che diede ragione al Comune di Roma contro il principe Borghese che voleva chiudere i cancelli della Villa, riconoscendo ai cittadini il diritto di passeggiare liberamente in quel luogo (Res in usu publico e “beni comuni”, Giappichelli, Torino, 2013).

Un bagno culturale eccessivo? Ma i parlamentari non hanno bisogno di andare così lontano. Basta che aprano la porta accanto. Troveranno i testi mandati a tutti loro all’inizio della legislatura, già strutturati in forma di disegno di legge, sulla disciplina dell’acqua e sulla riforma del sistema dei beni pubblici, che riproduce i risultati di una Commissione ministeriale e che qualcuno ha già trasformato in proposta di legge. Perché, allora, ripetere le trite e pericolose banalità della vendita dei beni pubblici per far cassa, fino alla grottesca vicenda delle spiagge?

In realtà, la questione dei beni comuni non fa storia a sé. Impone un ripensamento dell’intero ordinamento dei beni pubblici (ai quali ha dedicato un importante volume l’Accademia dei Lincei nel 2010). Non tutti possono essere attratti nell’area del “comune”, ma non per questo la gran massa dei beni pubblici diventa disponibile per qualsiasi disinvolta operazione. Dovrebbe essere chiaro che questi beni hanno funzioni diverse, e si presentano come beni “ad appartenenza pubblica necessaria” (opere per la difesa, le reti viarie e ferroviarie, i porti), “sociali” (che devono soddisfare bisogni essenziali delle persone), “fruttiferi” (da gestire con adeguate modalità economiche). Per quanto riguarda le spiagge, per esempio, le operazioni da fare dovrebbero essere due. Eliminare la loro sostanziale privatizzazione, che per lunghissimi tratti esclude l’accesso ai cittadini, in forme sconosciute ad altri paesi. E rendere economiche le concessioni ai privati, che oggi danno allo Stato un reddito inadeguato (discorso che può essere esteso ad altri casi, come quello delle frequenze).

Tornando ai beni comuni, la loro definizione rinvia al fatto che essi sono indispensabili per la soddisfazione di bisogni fondamentali delle persone. Si istituisce così un nuovo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni. E infatti molti documenti nazionali e internazionali parlano, in primo luogo, di accesso all’acqua, al cibo, alla conoscenza in rete, ai farmaci essenziali, alla tutela del territorio come di diritti fondamentali, la cui realizzazione esige appunto regole particolari per quei beni. Tra queste emergono quelle sulla partecipazione dei cittadini alla gestione, prevista dall’articolo 43 della Costituzione, che parla di “servizi pubblici essenziali” da affidare a “comunità di lavoratori o di utenti”. Qui nascono tre problemi. Rispetto dei risultati di referendum come quello sull’acqua, a proposito del quale si ha una timida e parziale apertura del ministro per l’Ambiente.

Non per tutti i beni comuni può essere individuata una comunità che li gestisce: come si può inventare questa comunità tra i tre miliardi di persone che accedono alla conoscenza in Rete? Questo bene, allora, deve essere qualificato in via generale come comune. E le istituzioni devono confrontarsi con le esperienze che formulano progetti, realizzano innovazioni dell’ordine esistente, distinguendo certo, ma senza trincerarsi dietro rifiuti pregiudiziali.

2) Punto sul vivo, il Presidente Letta ha reagito ai rilievi dell’Unione europea sulla legge di stabilità, cominciando a riecheggiare critiche sempre più diffuse sugli effetti negativi delle politiche di austerità. La reazione d’un momento, tutto sommato strumentale, o l’avvio di un’altra strategia? Si avvicinano le elezioni europee, e non ci si può limitare a esprimere preoccupazione per i populismi antieuropeisti, che rischia di trasformarsi in un inutile lamento. La strategia europea deve cominciare a prendere coraggiosamente atto che la politica dell’Unione è stata chiusa nella dimensione economico-finanziaria, amputando del tutto quella dei diritti, affidata alla sua Carta dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Questo “valore aggiunto” è stato in questi anni negato ai cittadini europei e ha determinato la progressiva delegittimazione delle istituzioni. Da qui bisogna ripartire, se il Governo vuole davvero dare un qualche senso al suo parlare di Europa. Altrimenti si allontanerà ancora di più da una società nella quale sta maturando un serio movimento che vuole parlare di politica “costituzionale” per l’Europa, così come sta facendo per l’Italia. La voce dei cittadini senza demagogia antieuropea deve esser ascoltata perché, si condivida in tutto o in parte la tesi di Luciano Gallino, è indubbio che sia avvenuto qualcosa che assomiglia a un colpo di Stato (Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi, Torino, 2013). E i cittadini stanno studiando i modi per rimettere in discussione quel mutamento dell’articolo 81 che si è voluto sottrarre ad un loro possibile voto. E per sfuggire alla subalternità all’economia, bisogna riconoscere che la discrezionalità politica deve obbedire ai criteri che, per la ripartizione delle risorse scarse, sono indicati proprio dalla trama dei diritti fondamentali.

3) La verità è che si è messo in discussione quello che definisco “il diritto all’esistenza”. Divenuti residuali i diritti sociali, rafforzate le diseguaglianze, si è minata la stessa condizione dell’efficienza economica (continua a ricordarcelo Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione, Einaudi, Torino, 2013). Per questo non può essere allontanata, con una mossa infastidita, la questione del reddito minimo (esiste una proposta d’iniziativa popolare anteriore a quella del Movimento 5Stelle). È tema difficile, per il rapporto con le politiche del lavoro e per il reperimento delle risorse necessarie, ma ineludibile. E mi pare utile che, dopo una intemperanza iniziale, Stefano Fassina abbia parlato di un confronto politico su questo tema.

4) Ho citato molti libri. Ma, se dobbiamo uscire dalla profonda regressione culturale che ha reso misera la politica, possiamo farlo senza buone letture?

Articolo tratto da La Repubblica.it

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