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La necessità di pensare un nuovo welfare

di Andrea Fumagalli

Le trasformazioni del sistema produttivo non ha modificato solo il modo di lavorare ma anche le regole di distribuzione del reddito. Ne consegue che è sempre più impellente ripensare dei meccanismi di welfare che siamo adeguati al nuovo paradigma produttivo e lavorativo. In questo articolo si delineano alcuni punti che si muovono verso la costruzione di un welfare che superi la dicotomia pubblico-privato, in nome della garanzia di continuità di reddito e l’accesso ai beni comuni necessari per l’esistenza: commonfare.

Sempre più diventa necessario impostare un nuova politica di welfare e di protezione sociale, in grado di invertire la crescente polarizzazione dei redditi (vedi gli ultimi dati Bankitalia). La crisi del paradigma keynesiano-fordista apre nuove problematiche: il passaggio verso forme di capitalismo cognitivo impone nuove rivendicazioni economiche e sociali. Il processo produttivo è caratterizzato sempre più da elementi immateriali legati alla capacità cerebrale e cognitiva. Prova ne sono la terziarizzazione dell’economia, e le nuove modalità organizzative e strategiche adottate dalle imprese, basate su forti processi di apprendimento, e su nuove di economie di scala, e la diffusione delle nuove tipologie contrattuali: non v’è alcuna differenza sostanziale tra occupazione e disoccupazione, esiste solo il lavoro intermittente, più o meno precarizzato o specializzato. Si potrebbe sostenere, in modo provocatorio, che la disoccupazione è lavoro non remunerato e che il lavoro è a sua volta disoccupazione remunerata. L’antica distinzione tra “lavoro” e “non lavoro” si risolve in quella tra “vita retribuita” e “vita non retribuita”. Il confine tra l’una e l’altra è arbitrario, mutevole, soggetto a decisione politica. E’ su questo elemento che è necessario confrontarsi (anche politicamente) per una ridefinizione attuale del welfare state. Esso non è più in grado di  creare le condizioni per entrare nel mercato del lavoro, né può garantire il diritto al lavoro.  Piuttosto deve creare le condizioni perché ogni individuo residente in un territorio abbia la garanzia, in modo incondizionato, di un reddito stabile e continuativo in grado di consentire lo sviluppo delle sue capacità cognitive-creative (basic income), insieme al diritto di scelta del lavoro (ben diverso e più dirompente del diritto al lavoro).

Dallo spazio della cooperazione sociale al nuovo welfare

In secondo luogo, occorre prendere atto che la produzione e l’attività lavorativa non avviene più in un luogo solo (fabbrica, ufficio, casa),  ma sono disseminate in un territorio, fisico e virtuale. Attività produttiva e spazio tendono a coincidere, così come l’attività lavorativa è sempre più attività di relazione e interconnessione comunicativa reticolare, che si sviluppa su basi nomadi. Oltre al venir meno della distinzione tra lavoro e non lavoro, sfuma anche la separazione tra produzione e consumo, produzione e riproduzione. L’esistenza degli individui, in quanto interna ad un processo di cooperazione sociale sempre più indotto (di cui non sempre si è coscienti), è sussunta nell’attività di lavoro che si svolge in un ambito relazionale e “cooperante”. Il territorio definito dalla cooperazione sociale delimita lo spazio del nuovo welfare.  Tale spazio può essere rappresentato da realtà locali come da realtà sopranazionali. Ciò significa che il welfare, nel garantire come perno centrale della sua azione un reddito dignitoso incondizionato, deve riferirsi a un duplice livello spaziale: quello sopranazionale (nel caso nostro, l’Europa, così come prospettato nel rapporto Supiot) e quello locale. Lo sviluppo di welfare a livello regionale, è condizione necessaria perché i soggetti interessati possano rivendicare ed organizzare interventi adeguati alle proprie caratteristiche (storiche, antropologiche, geografiche) all’interno di un quadro normativo e sociale generale e comune.

Beni comuni e critica alla biopolitica dell’esistente

Occorre infine considerare che lo sviluppo del paradigma cognitivo di accumulazione tende sempre più a basarsi sullo sfruttamento di beni comuni, quei beni allo stesso tempo individuali e sociali, perché frutto dell’agire sociale umano: non solo i beni primari della terra (acqua, energia) ma soprattutto quei beni (conoscenza, comunicazioni, informazioni) che sono il risultato delle interconnessioni sociali alla base della cooperazione sociale produttiva e sulla cui espropriazione da parte dei poteri privati dell’economia si basa il principale veicolo di creazione di ricchezza. La dicotomia privato-pubblico appare superata a vantaggio del concetto di proprietà comune. La preservazione dei beni comuni e la distribuzione sociale dei guadagni che il loro sfruttamento comporta sono il nuovo obiettivo di un possibile welfare adeguato all’attuale struttura produttiva. E’ questa la base da cui partire anche per una nuova politica fiscale, che riconosca che i fattori produttivi non sono più solo il lavoro salariato e le macchine (come nel fordismo), ma sono la conoscenza, il territorio, lo sfruttamento dell’apprendimento e via dicendo. E’  dall’intervento fiscale su questi nuovi cespiti di ricchezza che è necessario ripartire per finanziare un welfare municipale e nazionale in grado di garantire dignità di vita per tutti/e.

Tratto dalla rivista Valori, mensile di finanza etica, 2006

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