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L’Italia e il welfare europeo: cento anni di solitudine

di Giovanni Perazzoli

Reddito minimo garantito, ovvero il pezzo mancante del puzzle. Quando la solitudine politica italiana rende incomprensibile il lessico della sinistra europea. Che cosa cambia se in Italia welfare significa un’altra cosa da quello che significa in Europa. Una chiave di lettura per le “due Europe”, e la necessità di un welfareeuropeo.

Il dibattito tra Pierre Rosanvallon e Alain Touraine che si può leggere sull’ultimo numero di MicroMega è un buon metro per capire quanta strada è stata fatta in Europa a nostra insaputa. Pierre Rosanvallon e Alain Touraine danno per scontati temi e circostanze che sanno essere di comune dominio in Europa, e che però non sono di comune dominio in Italia.

Secondo Touraine, l’unica idea ancora accettabile del programma della ‘Terza via’ è quella di “creare un differenziale sufficiente tra salario minimo e assistenza sociale per dare alla gente la voglia di andare a cercare lavoro, e non ‘sedersi’ sulla rendita dello Stato assistenzialista. Una misura però già nella direzione di un chiaro liberalismo”.
Siamo sicuri di aver capito?

Con “assistenza sociale” Touraine intende – per dirla in breve – “reddito minimo garantito” (revenu minimum d’insertion, istituito in Francia – ultimo paese in Europa ad adottare una forma di reddito minimo garantito – nel 1988 e aggiornato nel 2009 con il revenu de solidarité active: un reddito minimo senza limite di durata per chi non lavora, inesistente solo in Italia e in Grecia). Dunque, Touraine considera ancora valido il programma della “Terza via” di rendere economicamente più conveniente il salario minimo percepibile con un lavoro rispetto all’assistenza sociale, ovvero del reddito minimo garantito. La critica al welfare (inteso in questo senso) è che incentiva la disoccupazione. L’idea ancora valida della ‘Terza via’ sarebbe, secondo Touraine, dunque, di ridurre la disoccupazione rendendo economicamente più conveniente lavorare che non lavorare. Un problema che in Italia appare piuttosto lontano.

Touraine utilizza l’espressione “assistenza sociale” nel senso del sistema di sussidi che costituiscono la garanzia del reddito e dell’alloggio in Europa. È il senso prevalente dell’uso del termine welfare, che in Italia però si usa piuttosto nel senso di sanità, pensioni, scuola. Quando, ad esempio, Luttwak a Ballarò dice che “nell’Europa del nord il disoccupato ha il welfare, nell’Europa del sud la famiglia”, intende dire che, nel nord, il disoccupato ha un reddito e un alloggio garantito, mentre nel sud ha la famiglia. Nel bel libro di Toni Judt, L’età dell’oblio, c’è un capitolo finale sulla riduzione del lavoro e sulle riforme del welfare in Occidente, che contiene una serie di riflessioni pessimistiche sull’equilibrio tra redditi da lavoro e sussidi. Bene, per il lettore italiano questo pessimismo dovrebbe essere pressoché incomprensibile: sono angosce che non sono le nostre, ma appunto dell’Occidente.

Il dibattito tra Pierre Rosanvallon e Alain Touraine sul futuro della sinistra presuppone, dunque, almeno due epoche o due “tempi” del passato della sinistra europea di cui in Italia non c’è stata traccia. La prima è l’epoca che ha istituito, su scala europea, il welfare come reddito minimo garantito. La seconda epoca della sinistra, la “Terza via”, riduce l’assistenza per recuperare competitività, ma lo fa allargando la differenza tra salario da lavoro e reddito minimo garantito.

La “Terza via” non elimina il reddito minimo garantito, ma lo rende meno conveniente. Situazione dunque del tutto diversa da quella italiana, dove un reddito minimo garantito non è stato mai istituito.
Le ragioni di questa assenza sono politiche: sono un aspetto della storica separazione dell’Italia dall’ideologia progressista occidentale. Si tratta di ragioni non casuali, ma di lungo periodo. Basti considerare che nel 1978 la Stampa di Torino aveva un articolo dal titolo: “Si va verso il salario minimo garantito?” La domanda nasceva da una proposta di Vincenzo Scotti (Dc) avanzata in un convegno – promosso naturalmente dall’Europa – nella quale si prefigurava l’introduzione anche in Italia (finalmente) di un salario minimo garantito (“la Stampa”, 5/07/1978). Naturalmente, non si è fatto nulla. In Italia i riferimenti sono molto criptici: “riforma degli ammortizzatori sociali”, welfare “più universalistico”. Regolarmente cadono nel vuoto, e anche le riforme di cui si parla (e quelle che si son fatte) non vanno nel senso del reddito minimo garantito europeo.

Che cosa cambia se in Italia welfare significa un’altra cosa da quello che significa in Europa? Molto. Alfredo Reichlin ha scritto che la sinistra ha «preso lucciole per lanterne, liberismo per riformismo». Ci credo. La svolta riformista del Pci infatti accade mentre il riformismo cambia pelle: noi ne abbiamo adottato i temi autocritici senza però averne le premesse. Per quanto possa sembrare assurdo, in Italia si continuano a programmare tagli al welfare “come in Europa”, nonostante il fatto che da noi il “welfare” non ci sia.

In Italia protervia e conformismo hanno fatto sì che il dibattito europeo arrivasse in modo quantomeno confuso. Si è cominciato a dire che l’Europa sarebbe in crisi a causa del welfare. Parole spesso ripetute senza rapporto con le cose. A destra e a sinistra. Per esempio, Piero Ostellino si è sentito di scrivere: “Da tempo, le poche voci liberali che ancora compaiono sui giornali dicevano ciò che adesso scrive ilWashington Post: ‘L’ eccezione europea, il modello sociale più generoso del pianeta, ha i giorni contati’. Ma nessuno ha dato loro retta e capito i prodromi della crisi dell’euro. Eppure, essa è l’epifenomeno della crisi dello Stato sociale moderno” (Corriere della sera, 17 maggio 2010). Mi pare evidente la confusione che fa Ostellino, e con lui però buona parte della sedicente sinistra.

Intanto, non è vero che è in crisi l’Europa del welfare: infatti, la Germania, la Francia, l’Olanda, la Finlandia, l’Inghilterra… hanno un welfare imponente, ma sono vincenti anche sul piano economico. Ad essere in crisi non è l’Europa e il suo modello sociale – come anche ricorda il super citato Krugman – ma i paesi che non hanno il welfare nord-europeo, e tra questi l’Italia e la Grecia sono esempi lampanti.

Nella polemica anti-welfare alla Ostellino si prendono dunque lucciole per lanterne. Si discute un problema che noi non abbiamo. Un esempio è il continuo riferimento agli ormai mitici “sacrifici” che i tedeschi avrebbero affrontato per competere sui mercati. Tutti ne parlano, ma perché nessuno entra nel dettaglio? In realtà, i “sacrifici” patiti dai tedeschi non sono altro che l’applicazione della politica europea a cui fa riferimento Alain Touraine: rendere economicamente più conveniente lavorare, riducendo (di poco) l’importo dei sussidi e spingendo i disoccupati a cercare un lavoro. Ora, però, confrontati con la realtà italiana, che è rimasta anni luce lontana da quella europea, i mitici “sacrifici” teutonici appaiono come bazzecole. Tutto è relativo. Faccio un esempio: il cancelliere Schröder ha riformato il welfare in modo da impedire ai disoccupati di percepire il reddito minimo garantito fuori della Germania (secondo alcuni giornali, molti se ne stavano in Messico a svernare con il favore del cambio). Mi pare dia la misura dei “sacrifici”. Del resto, in Germania (e nel resto d’Europa) si discute ancora sul fatto che lavorare in molti casi non conviene e che i sussidi sono disincentivanti. Tutto il movimento del Basic Income di Philippe van Parijs parte, ma andando verso sinistra, da questo stesso assunto (su questo vorrei tornare in un prossimo intervento).

In realtà, il welfare divide molto bene le “due Europe” (riedizione aggiornata delle “due Italie” di Giustino Fortunato). Ad essere in crisi non sono i paesi con ilwelfare, ma quelli che non lo hanno: l’Italia e la Grecia (per Spagna e Portogallo il discorso è solo leggermente diverso). Il welfare (quello vero) è infatti l’altro lato dell’assenza del clientelismo e della corruzione. Uno è il rovescio dell’altro. Ilwelfare europeo esiste dove non c’è clientelismo, e dove non c’è clientelismo non c’è debito pubblico fuori controllo, e dunque non c’è un sistema complessivo corrotto e inadeguato. Il rilievo che viene dato al welfare come origine della crisi europea andrebbe del tutto rovesciato: la crisi esiste dove non c’è il welfare.

Che significa welfare state in Italia? Mi verrebbe da domandarlo a Ostellino che mette sullo stesso piano – come fa colpevolmente anche la sinistra – l’Italia e l’Europa. Il senso in cui welfare è preso in Italia è ancora sostanzialmente quello della “piena occupazione”. Ma in Italia – anche perché non c’è un reddito minimo garantito – il welfare inteso come “piena occupazione” ha trasformato di fatto il lavoro in clientelismo. Con le conseguenze che conosciamo. Attraverso il clientelismo si autoseleziona un ceto politico disonesto che fatalmente, per sopravvivere, allarga all’infinito la spesa e dunque il debito pubblico. Il secondo aspetto nefasto è che il lavoro è svilito e poco produttivo, ma non tanto perché “troppo garantito”, bensì perché all’origine non è premiato il merito, non contano le competenze o la vocazione. Contano le aderenze e la fedeltà. Inoltre, queste politiche spesso si sono tradotte in una forma di assistenza alle imprese, che, a loro volta, finiscono per lavorare per i sussidi. E questo per non parlare dei sussidi ai giornali, su cui scrivono i (pochi) liberali.

Guardiamo i numeri. L’immenso debito pubblico accumulato dall’Italia non deriva dal welfare state nell’accezione europea. Noi infatti spediamo meno degli altri in assistenza sociale, e non di più. Se guardiamo infatti i dati Eurostat relativi alla spesa per la protezione sociale del 2001, vediamo che l’Italia è tra i 15 paesi dell’Unione il paese più spilorcio: l’Italia spende nel 2001 il 24,5% del Pil, mentre l’Europa il 26,5%. L’Italia assegna alle famiglie il 4,1%, del totale della spesa, gli altri l’8%. Ancora più eccentrici eravamo (e siamo) per la disoccupazione: il nostro 1,6% del Pil di spesa è infatti imparagonabile alla media europea del 6,3%. Forse avevamo meno disoccupati? No, ne avevamo di più. E le cose non sono molto cambiate in tempi più recenti.
Altro che austerity, verrebbe da dire.

Un dato completamente opposto riguarda invece le pensioni. Nel 2001 l’Italia spendeva in pensioni il 62,2% dell’intera torta (che, comunque, è più piccola rispetto a quella degli altri paesi), mentre la media europea era del 46,5%. L’Italia spendeva per le pensioni molto di più della Svezia. Nonostante questo però le pensioni italiane (delle persone normali, naturalmente) sono piuttosto magre. Dove vanno allora tutti questi soldi? Un’idea potrebbero darcela le pensioni di invalidità. Il costo dell’intero welfare tedesco, ovvero, del diritto alla casa e del reddito minimo garantito, oltre all’amministrazione per gestirlo, è di 27 miliardi di euro, mentre le pensioni di invalidità costano all’Italia 25 miliardi di euro (Ricolfi, Illusioni italiche). Però di queste, sempre secondo Ricolfi, una su tre è falsa (e poiché la loro funzione non è il sostegno all’invalidità, chi ne ha bisogno veramente, perché invalido, prende pochissimo e deve anche faticare per ottenerla). Poi naturalmente nella voce “pensioni” devono essere considerate quelle più “pesanti”, che si mangiano un numero sconsiderato di pensioni più piccole. In fondo, la voce pensioni è l’unica che il cittadino normale ha in comune con le caste. Quando dunque l’Europa dice di armonizzare la spesa del welfare, di rivedere i sussidi dati in modo disorganico, intende una cosa molto precisa. I diavolo è nei dettagli.

Dal 1992 Italia e Grecia avrebbero dovuto adottare, secondo l’Europa, una forma di reddito minimo garantito. Ma non è successo nulla. Sarà un caso? Il carattere universalistico del welfare taglia via la possibilità del clientelismo politico. Al contrario, le spese per assunzioni, anche precarie, oppure i piccoli sussidi e le piccole pensioni (eventualmente revocabili), non possono essere universalistiche per definizione. In Italia e in Grecia, i sussidi non sono universalistici, ma assegnati a specifiche categorie, con l’intervento della decisione politica. Il welfare stateperò, se non è universalistico, semplicemente non è: è clientelismo. E costa molto di più.
Il welfare vero ha anche il senso di ridurre il potere dei “notabili” che comprano il consenso.
Quelli che scrivono che la Germania impone in Grecia la distruzione del welfare state ho il sospetto che facciano una certa confusione. È notizia di questi giorni che in Grecia sono stati assunti o riassunti di nascosto 70 mila dipendenti: ora, è solidarietà o è la logica del potere dove non c’è il welfare?
I dirigenti di Syriza dichiarano di volere combattere il clientelismo del loro paese. La prima cosa da abbandonare allora è l’idea che in Grecia sia in corso un cinico esperimento del neoliberismo: la Grecia non è “il futuro dell’Europa” in quanto fungerebbe “da cavia” per via delle misure che le sono state “imposte” e che sarebbero “per il tardo capitalismo, un mezzo per ristrutturarsi, in seno a circostanze di gravissima crisi”. La Grecia, dal punto di vista politico, ho l’impressione che non sia il futuro dell’Europa, ma piuttosto, come l’Italia, il passato. La spiegazione della crisi non credo stia nell’ultramoderno tardo capitalismo, ma nel premoderno latifondo, nello spirito da controllo clientelare, che gonfia la spesa e impedisce (pour cause) l’istituzione di un vero welfare state.

Combattere il clientelismo significa dunque combattere un’idea sbagliata diwelfare. E proporre un welfare universalistico sul modello europeo; oppure, se proprio si vuole essere “più radicali”, sul modello che si discute in questo periodo in Brasile, e che è l'”ultimo grido” sul tema.
E il torto dell’Europa non è quello di contestare il clientelismo (e le relative spese) dello stato greco, ma quello di non sostenere con adeguata forza l’istituzione di unwelfare state europeo. Le cose in Grecia non vanno male perché è arrivata l’Europa, ma perché non è arrivata. Come non è arrivata in Italia. E un passo importante potrebbe essere l’istituzione di una legge europea sul reddito minimo garantito (come da qualche parte, non solo in Germania e in Grecia, si scrive).
Avremmo bisogno di rimetterci al passo con l’Europa, e di recuperare il tempo perduto che rende incomprensibili non i programmi, ma persino le parole della sinistra europea. Ma certo, in Italia la piega non è questa: come in Grecia stiamo preparando il ritorno di quelli che c’erano prima, di Berlusconi e Tremonti. È colpa dei nostri cento anni di solitudine.

Tratto da MicroMega

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