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Diritto universale alla maternità come orizzonte in cui pensare il reddito

di Angela Lamboglia, Federica Castelli, Teresa Di Martino, Roberta Paoletti

Documento presentato all’incontro First Meeting for a basic income WG alla sede del Parlamento Europeo il 20 ottobre 2015

Perché parlare di diritto universale alla maternità quando si tratta il tema del reddito. Innanzitutto intendiamoci sui termini.

Penso qui alla maternità non solo come al generare figli all’interno di una coppia. La maternità ci interessa qui come esperienza di un tempo altro rispetto a quello della produzione, come esempio del rimosso che permette al capitalismo di riprodursi e come occasione per aprire un discorso sulla necessità di sganciare cittadinanza e indipendenza, cittadinanza e lavoro. Cioè di pensare diritti non più costruiti su un cittadino neutro, maschio, bianco, eterosessuale, lavoratore a tempo pieno, ma a partire dai corpi, da quello che possono – ma non necessariamente vogliono e devono – sperimentare.

L’idea viene da un collettivo femminista italiano di cui facevo parte – Diversamente Occupate, che nasceva come luogo di pensiero e azione di un gruppo di giovani donne attorno ai temi del lavoro e della precarietà, e della possibilità di introdurre anche in Italia una forma di reddito di base, come già previsto nella maggior parte dei paesi europei. Oggi quel collettivo non esiste più, ma alcune delle donne che lo componevano, tra cui io, ne hanno fondato un altro, Femministe Nove, che continua a fare pensiero attorno al tema del lavoro, del corpo, del reddito, a partire da noi, dalle donne.

Come siamo arrivate dalla riflessione sul lavoro alla proposta di un diritto universale di maternità?

Mi soffermo brevemente su un primo livello di analisi, quello della relazione interrotta tra cittadinanza e lavoro.

L’esperienza del lavoro nel tempo del post-fordismo, dell’esplosione dei servizi e del lavoro cognitivo, della crisi e dei tagli al welfare, rende visibile che quello tra cittadinanza e lavoro è un rapporto in crisi. La partecipazione al lavoro non è più sufficiente ad assicurare l’accesso ai diritti, al welfare, ai servizi: quando i lavori sono intermittenti e mal retribuiti, quando si alternano attività retribuite e non retribuite e periodi di disoccupazione, quando esistono decine di forme contrattuali che non prevedono alcuna tutela per chi lavora, lavorare non basta più per essere cittadini.

In Italia si parla quindi da tempo della necessità di sganciare l’accesso ai diritti dalla tipologia contrattuale e in generale dal lavoro; così come del bisogno di una forma di reddito garantito che assicuri la partecipazione alla società a prescindere dal possesso di un impiego. (Pateman)

Nel contesto delle varie proposte discusse negli ultimi anni in questo senso, la nostra idea è che sganciare l’accesso agli strumenti di sicurezza sociale dal possesso di un contratto di lavoro ci aiuterebbe a liberarci dalle forme di ricatto e dalla richiesta di disponibilità a tutti i costi tipiche del lavoro precario e sarebbe anche una forma di restituzione per il lavoro gratuito o non riconosciuto che prestiamo, a cominciare dal welfare a costo zero garantito ancora dalle donne.

D’altra parte, riteniamo pericoloso consegnare allo scambio economico tutte le forme di relazione che permettono la riproduzione sociale. Cioè, se è vero che gli strumenti di sicurezza sociale modellati sul lavoratore stabile e a tempo pieno escludono ormai dall’accesso ai diritti una porzione sempre più significativa di donne e uomini che lavorano nella precarietà, è vero anche che il reddito senza welfare ci pone in una condizione di isolamento, perché il reddito rischia di sostituire una serie di attività e relazioni che riproducono la comunità.

Sappiamo che se i diritti sono collegati esclusivamente al lavoro, c’è qualcuno che può dirti che il tuo non è lavoro, o è lavoro “di serie b”; sappiamo che se lasciamo che sia esclusivamente il reddito sotto forma di denaro a garantire il tempo fertile – quello della cura, della condivisione, dei saperi, della politica – cadiamo ancora una volta nelle regole capitalistiche o tecnocratiche.

Queste attività, e quindi anche il ripensamento del welfare, devono essere sottratte alla dimensione della moneta, cioè è necessario sottrarre al denaro l’esclusiva possibilità di accesso alla comunità.

Se è vero che il reddito di base è una misura immediatamente praticabile di contrasto al ricatto della precarietà, alle politiche di austerity e alla povertà, e che non è in contrapposizione, bensì in connessione, con la difesa del diritto al lavoro e dei diritti del lavoro e con la necessità di una redistribuzione delle ricchezze, va anche tenuto presente un orizzonte più ampio, che non si limiti a monetizzare il tempo della riproduzione sociale, ma che si costituisca per valorizzarlo.

Come? Non facendo del reddito una rivendicazione neutra per un cittadino neutro.

Se proviamo ad affrontare questa discussione a partire dall’esperienza delle donne, diventa evidente che una cittadinanza costruita sulla partecipazione al lavoro non è problematica solo nella misura in cui esclude chi non ha un lavoro stabile: il problema è rappresentato da quello che Carol Pateman ha definito il criterio principale del modello di cittadinanza e cioè l’indipendenza. Carol Pateman individua quello che chiama lo «stato sociale patriarcale» (1989) come prodotto di un modello di cittadinanza in cui il criterio principale di inclusione/esclusione è l’indipendenza.

Il cittadino è colui che è indipendente e questa indipendenza è costruita su abilità e attributi maschili. Le donne invece rappresentano la dipendenza: per la possibilità di ospitare e generare altri corpi, le donne rappresentano un “di meno” rispetto alla prestazione maschile sul lavoro, per definizione sempre disponile, quindi più affidabile, continua, produttiva.

La maternità intesa in questi termini diventa un fattore di esclusione sociale: l’alternativa per le donne è tra diventare come gli uomini, cancellando l’esperienza della maternità, o essere svalorizzate, in quanto non pienamente aderenti alla richiesta di performatività proveniente dal mercato. Conciliare la maternità con il lavoro significa infatti essere pronte a colmare una “mancanza” per poter essere competitive sul mercato con i colleghi maschi; rinunciare al lavoro si traduce in uno schiacciamento dell’essere donna sull’essere madre.

La “scelta” che resta, insomma, è quella tra diventare madri o non diventarlo affatto.

Ma non è solo questo. E’ possibile essere madri e continuare a lavorare – per le donne che hanno accesso a servizi e politiche di conciliazione oppure per quelle che possono contare sul supporto familiare, come spesso avviene in Italia – ma sempre a prezzo di una cancellazione.

Riducendo il periodo dedicato all’esperienza della maternità per tornare al più presto al lavoro, affidando ad altre donne il lavoro di cura delle relazioni e di manutenzione della sfera domestica, confermiamo che è il modello dell’indipendenza quello verso cui tendere. (Falquet)

Il lavoro riproduttivo è da sempre il rimosso che però permette alla società di riprodursi, Carla Lonzi diceva: “Noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di stato, di sussistere” (Manifesto di Rivolta Femminile, 1970).

Da una parte, il paradigma della produttività a tutti i costi non viene messo in discussione, le condizioni che lo rendono possibile continuano a restare nell’ombra, cioè non emerge che è il lavoro di altre donne a permetterci di smettere i panni della madre per indossare quelli del lavoratore e che senza che qualcuno continui quel lavoro, la figura neutra dell’essere indipendente non potrebbe esistere.

Dall’altra, si cancella e quindi si perdono le potenzialità dell’esperienza della maternità come tempo fertile, sottratto alle regole della produzione.

In questo senso la maternità non è solo una questione femminile, pur mantenendo le dovute differenze, né privata. La spinta verso la disponibilità permanente e la produttività a tutti i costi e la cancellazione della sfera della riproduzione sociale riguardano donne e uomini.

La maternità incarna una temporalità in conflitto con le regole e i tempi del mercato, fa prevalere logiche e priorità diverse da quelle richieste nel mondo del lavoro (un corpo che impone i suoi tempi, un figlio che fa saltare l’ordine della giornata entrano in conflitto con l’organizzazione del lavoro). Allo stesso tempo, la cancellazione dell’esperienza della maternità fà da modello per la rimozione dei corpi e di tutti quei tempi altri dalla produzione che abbiamo riconosciuto vitali: la cura di sé, le relazioni, la politica. Corpi e tempi che oggi sono ostacolati per tutti, donne e uomini.

Da qui l’idea di un diritto universale alla maternità. Non semplicemente nel senso di garantire il diritto a mettere al mondo un figlio, riconoscendo tutele a quelle donne che nel mondo del lavoro non hanno diritti collegati alla maternità (In Italia diverse categorie di lavoratrici, dalle precarie alle indipendenti, non godono degli stessi diritti delle lavoratrici con contratto a tempo indeterminato).

Piuttosto, nel senso di diritto a un tempo non produttivo nel senso capitalistico del termine, un tempo generativo, dedicato alla cura di sé, dell’altro; un tempo di rigenerazione dei corpi, ma anche di progetti, spazi, esperienze che non stiano già nel circuito dello scambio economico, ma siano valorizzate e valorizzanti per la società intera.

E allora diritto universale alla maternità come orizzonte ampio su cui costruire una misura di reddito, diretto e indiretto.

Qui oggi parliamo di uno strumento che vuole contrastare le politiche di austerità degli ultimi anni, combattere l’aumento della povertà nei paesi europei, operare una redistribuzione delle ricchezze. E vogliamo farlo con una lettura di genere. Ma, da femminista, posso dirvi che non mi basta. Quello che è necessario fare, e che porto qui come provocazione e proposta, è pensare il reddito a partire dalle donne, dal pensiero prodotto in questi anni, dai corpi delle donne. Mettere al centro le donne in questa partita significa spostarsi dalle politiche che fanno delle donne i soggetti deboli da tutelare o il fattore D da sfruttare. Significa partire da loro per ripensare un sistema di diritti connesso a una diversa idea di lavoro, di produzione e di società. Diritti che vadano a scardinare quel nesso cittadinanza/indipendenza di cui parlavo prima a partire dalla voce autorevole delle donne, di chi nel sistema attuale vive una cittadinanza incompiuta, e non solo negli anni dell’austerity. Diritti universali perchè aprono spazi per tutti.

In questo senso pensare al diritto universale alla maternità come orizzonte in cui sviluppare una misura di reddito, che le femministe hanno non a caso definito reddito di autodeterminazione, andrebbe davvero a colpire il paradigma capitalista, che rimuove o sovraespone il “soggetto imprevisto”. Perché intendere la maternità non (solo) come mettere al mondo un figlio, ma come trasformare il mondo, avere un modo altro di pensarlo, prendersene cura significa cominciare a costruire una cittadinanza che parta dai bisogni e dalle esperienze del quotidiano e non dalle neutre astrazioni di cui si nutrono le politiche che subiamo sulla nostra pelle.

Qui può stare la sfida del pensare una misura che non si limiti, anche se può non sembrare poco, a contrastare la povertà con un’attenzione particolare alle donne come soggetto/oggetto debole della società, oggi e in prospettiva futura, ma bensì parta dalle donne per sovvertire l’ordine costituito.

Uno strumento che sia non solo di rivendicazione, di restituzione e di tutela, ma che sia di conflitto sul terreno della riconquista dei tempi e degli spazi della vita.

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