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Dal Mediterraneo all’Europa delle cittadinanze. Tre tesi per il reddito per tutte-i

di Angela Lombardi

La crisi si potrà trasformare in una opportunità se si saprà ripensare l’Europa delle cittadinanze dentro e oltre la globalizzazione; se si accetta la sfida di rifondare il “patto sociale” europeo, scardinando la centralità dell’impresa che ha occupato gli spazi  pubblici e la vita a favore di una costruzione del “comune”. Non un ritorno al “pubblico” tipico dello statalismo, piuttosto la capacità di rendere fecondo autogoverno e cooperazione. Perché questo sia possibile è decisivo che l’area del Mediterraneo ritrovi se stessa. Ed il reddito garantito è una delle centralità di un nuovo rilancio.

Dal Mediterraneo all’Europa delle cittadinanze. Tre tesi per il reddito per tutte-i.

Il neoliberismo non è un destino

La soluzione di austerity alla crisi finanziaria che scuote anche l’Europa e che dispiega i suoi primi effetti drammatici in Grecia viene percepita e fatta passare come “naturale”. Il “prestito di soccorso” ad Atene coordinato dalla BCE e dal FMI che salverebbe la Grecia dalla bancarotta ha come contropartita un “pacchetto di misure straordinario” con l’obbiettivo di colpire gli sprechi, i lacci e i laccioli che impediscono il libero mercato; si pretendono riforme strutturali e naturalmente queste si traducono in tagli a stipendi, pensioni, diritti, insomma al welfare state, all’ “elefantiaco stato sociale” greco, all’assistenzialismo. La finanza miete vittime e qualche economista  sostiene che a rischio “grecia” siano altri paesi: il Portogallo, la Spagna e l’Italia, si potrebbe scrivere il Mediterraneo. Se così fosse, l’esito che percepiremmo ancora una volta come “naturale” sarebbe l’accelerazione del disegno dell’Europa di Maastricht, di quella della moneta, della BCE, dove la globalizzazione è quella delle disuguaglianze, delle apartheid e il Mediterraneo il luogo dove si aggrediscono i diritti in una Europa a due velocità.

In questo contesto d’altra parte si comprenderebbe meglio l’accelerazione in Italia del federalismo, collocando la stessa discussione nel nostro paese e la crisi della destra fuori dal provincialismo di certi interpreti nostrani che fanno finta di non comprendere  e sottovalutano gli interessi in campo con le peggiori caricature. Si commette tuttavia un errore  a considerare tutto ciò come “naturale” e quindi come inevitabile.

Il mediterraneo e l’alternativa

Questa crisi, come tutte le crisi, contiene il massimo dei rischi e il massimo delle opportunità.

La crisi si potrà trasformare in una opportunità se si saprà ripensare l’Europa delle cittadinanze dentro e oltre la globalizzazione; se si accetta la sfida di rifondare il “patto sociale” europeo, scardinando la centralità dell’impresa che ha occupato gli spazi  pubblici e la vita a favore di una costruzione del “comune”. Non un ritorno al “pubblico” tipico dello statalismo, piuttosto la capacità di rendere fecondo autogoverno e cooperazione. Perché questo sia possibile è decisivo che l’area del Mediterraneo ritrovi se stessa.

L’Italia in questo caso può e deve svolgere una funzione che le permetterebbe persino di ritrovare una sua identità, in quella quasità, come la chiama Cassano, insita nella penisola. La “peninsula” non ha una vocazione solitaria, salda a terra e sospesa in mare, “non ama separarsi del tutto e cercare la propria differenza in una purezza incontaminata, preferisce tenersi a contatto” . Un ponte, possibile se il sud trova un suo modello autonomo.  L’Europa ha bisogno del Mediterraneo, di questa propensione verso sud, per non regredire definitivamente nel razzismo della crescita e  dell’opulenza.

L’impresa sembra difficile dal momento che questa modernizzazione ha profondamente modificato la morfologia e l’antropologia, ha determinato una passivizzazione ed un disperato affidamento che impoveriscono relazioni e società. Una società che sembra arresa alla rimodulazione di poteri e di intrecci nuovi con le criminalità, come mostra chiaramente  il dato elettorale. Si affermano le solitudini della precarietà che rompono legami, persino quelli “comunitari” che nel mezzogiorno hanno avuto una parte decisiva nella costruzione delle relazioni.

La politica è muta, e non mi riferisco a quella della governance, ma a quella di alternativa, quasi avesse rinunciato a coltivare, anch’essa dentro la precarietà, passioni, entusiasmi, quei sentimenti necessari ad una ricerca per la trasformazione.  Spicca il tentativo di Nichi Vendola di costruire una narrazione del sud,  di quella condizione di precarietà di vita e lavoro che rende spaesati e che ha messo in crisi la democrazia. Presenta una fotografia. Coglie un aspetto decisivo quando dice che abbiamo bisogno di un altro vocabolario. Non basta, occorre che le soggettività della precarietà (giovani, donne e migranti) prendano parola, rompano solitudini, irrompano nello spazio pubblico.

Reddito per tutte-i: un’utopia concreta.

 La politica di alternativa deve rifondare il discorso politico e ricostruire legami sociali per scardinare la precarietà e  uscire dalla crisi con una ipotesi di altra società.  Una idea direttrice è quella del reddito per tutte-i, da agire dentro la crisi a partire dal Mediterraneo in direzione opposta e contraria alla mattanza sociale che viene proposta dall’Unione Europea. Una idea che parla di una altra Europa, da agire subito qui e ora  e dentro un orizzonte da conquistare per almeno tre ragioni.

Per un altro patto sociale

Il patto sociale fondato sul lavoro non funziona più. Non solo cresce la disoccupazione, ma il lavoro che c’è si è trasformato, si è svalutato e dilatato al punto tale da invadere l’intera esistenza, per dirla alla Cohen, in tempo di precarietà il problema non “è la fine del lavoro ma il lavoro senza fine”. La precarietà scava abissi, coltiva tristezze, in questa grande fabbrica della infelicità i bisogni di un eterno presente sovrastano e annullano i desideri. Questo confine muta le antropologie, sempre più rifugiate nel privato, in quella sfera della necessità che mette in crisi la democrazia. Si può tentare di difendere gli ultimi residui di quel patto fordista, ormai riservati a pochi, oppure accettare la sfida, “fare di necessità libertà” e rifondare il patto sociale a partire  dalle “cittadinanze”, come relazione fra uguali. Mi pare che qui si possano individuare tracce di futuro.

Reddito per tutte-i perché il diritto alla felicità collettiva e individuale sia un elemento fondativo. Non si tratta di monetizzare nulla, ma di offrire opportunità. In questi anni di precarietà dilagante si sono impoveriti gli individui e la democrazia. Il salto di qualità da sostenere è quello di svincolare donne e uomini dal confine disperante della “necessità” per liberare desideri e aprire alla sfera delle possibilità. Alimentare una vita activa, per dirla alla Arendt, dove l’azione, attività specificatamente umana, quella che ti mette in relazione creativa con gli altri, con una pluralità, non sia negata o appannaggio di pochi.  Dentro la crisi, offrire una possibilità significa anche ricostruire legami e nuova partecipazione, elementi decisivi per ripensarsi. Soprattutto a sud.

Contrasto reale alle povertà.

Il sud non è un luogo arretrato, piuttosto quello dove in questi anni ha agito il capitalismo onnivoro di questo tempo che ha devastato natura, diritti e democrazia. Un modello politico sociale che prometteva benessere diffuso ed ha invece alimentato vecchie e nuove povertà.

Le povertà che oggi incontri nel mezzogiorno sono lontane dalle foto novecentesche e anche dai racconti di miseria dei nostri nonni. La povertà tradizionale assume anch’essa un carattere moderno. Le fasce di povertà estrema  sempre di più si affollano di nuovi soggetti.  Sono “migranti” i nuovi braccianti che vedi ammassati ai bordi delle nostre campagne. Sono per lo più donne migranti quelle che svolgono il lavoro di cura dei nostri anziani.. Accanto a queste povertà estreme si sviluppa una fascia sempre più ampia di rischio povertà, difficile da leggere solo nel dato statistico, perché a ridosso e dentro il ceto medio. Un rischio  di questo tempo precario, sospeso tra frustrazione e insicurezza, solitudine e necessità di affidamento. Questa condizione attraversa la maggior parte ma si infrange in modo particolare sui corpi di donne e giovani, anche quando il lavoro lo trovano.

Sono 24 mila i giovani che ogni anno lasciano il sud e il dato delle donne occupate nel mezzogiorno continua ad essere tra i più bassi di Europa. Se a questo si sommano i tanti e le tante che dentro la crisi finiscono in cassa integrazione e mobilità il quadro si fa completo.

Giovani e donne sono quelli che attraversano una condizione nuova quella del rischio povertà senza incontrare protezioni sociali; possono rifugiarsi solo nella famiglia che sempre più faticosamente sostiene il “progetto di vita”, condizionandolo ai valori tradizionali o alle condizioni di miseria.

Non è un caso  che la stessa migrazione, almeno quella qualificata, si presenti come un vero e proprio esodo, come dimostra lo studio di Francesco Maria Pezzulli, In Fuga dal sud. Gli intervistati, infatti, sono quelli che mostrano “indisponibilità ai rapporti clientelari, dentro i quali lo svuotamento è quasi certo” .

Un reddito per tutte-i come contrasto non assistenziale, ma reale alle povertà. Una possibilità per giovani e donne a  valorizzare quella libertà e quella autonomia individuale necessaria non solo al progetto di vita ma alla trasformazione sociale collettiva.

Mette in crisi la svalorizzazione del lavoro

Un tratto decisivo della modernità è stata la svalorizzazione del lavoro. In particolare nel sud si è fatta strada l’idea che pur di avere un contratto a tempo indeterminato cioè un lavoro “vero” bisognava saper accettare anche qualche sottrazione di diritto. Su questo punto si sono arresi quasi tutti sindacati e sinistra politica, basti pensare al caso Melfi al contratto SATA.

Un reddito per tutte-i consentirebbe di riprendere una necessaria conflittualità nei luoghi di lavoro e non cedere per disperazione al ribasso. Anche questo potrebbe determinare una occasione soprattutto a sud per cambiare passo e ricostruire una classe dirigente politica e sindacale.

In Basilicata a sinistra

La Basilicata potrebbe essere una tappa importante di questo cammino. Non è una atteggiamento provinciale, da strapaese, è piuttosto una affermazione politica.

Questa è stata una regione laboratorio dove sia  “il miracolo economico” degli anni 90 centrato su Fiat e petrolio, sia “l’isola felice” si sono rivelate due promesse vuote. Eppure questi elementi hanno modificato profondamente la nostra regione trasformandola in un vero e proprio crocevia della modernità in questo nostro sud, dove si sono riarticolati poteri e strategie economiche. Le elezioni regionali e il loro esito chiudono una lunga fase di transizione.

Questa è stata anche la regione meridionale, e non a caso, dove più forte ha soffiato il vento che proveniva da Genova, decisivo nella costruzione di un clima politico sociale che ha permesso la stagione del 2004, quella ricca di domande e attese.  Scanzano, Rapolla e Melfi sono stati un tentativo vero e proprio di altra politica e altra democrazia. Esprimevano un’ altra tendenza, alludevano ad un cambio di passo nell’affrontare una crisi di cui proprio allora si avvertiva l’avanzare.

Scanzano, Rapolla e Melfi hanno vinto la vertenza immediata, ma noi tutti, la “sinistra”, lo dico prima di tutto a me stessa che a quella stagione ha contribuito,  non abbiamo saputo trasformarla in politica, non abbiamo fatto il salto di qualità che ci avrebbe portato, come si dice in gergo, su un terreno più avanzato di lotta.

Abbiamo mitizzato quelle lotte. In perfetta sintonia con la società dello spettacolo le abbiamo citate nei nostri attraversamenti, ma relegati al rango inferiore della politica senza avere il coraggio di farsi contaminare per trasformare noi e la società. Quella stagione ha sedimentato molto ma è rimasta un “incompiuto”.

Questo “incompiuto” è lo spazio politico che ha occupato l’avanzare della crisi e la risposta moderata che è venuta dalla giunta De Filippo.

Non è un caso che qui la vittoria del centrosinistra coincide con la scelta politica dello stesso di uscire dalla crisi con una proposta moderata che ha come asse un blocco politico e sociale trasversale, che fa leva sulla passivizzazione e l’affidamento come risposta alla crescente povertà.

La crisi avanza, si abbatte su quel fragile tessuto industriale che oggi è un bollettino di casse integrazioni e mobilità, persino il gioiello SATA propone, per continuare ad esserci, un ritorno al passato come quello delineato dai vertici FIAT.

I nostri paesi si spopolano. Mancano servizi, si chiudono scuole. Si interrompono relazioni, si trasformano persino quelle relazioni comunitarie. Pagano le donne, confinate in una “casalinghitudine” della modernità precaria, che rinchiude nel privato, ti espelle dal lavoro e dalla politica. I giovani emigrano, tante e tanti alimentano le statistiche dell’esodo. Quelli che restano, sono i precari a ridosso della pubblica amministrazione sottopagati e costretti a svolgere mansioni che non rendono fecondi percorsi di istruzione e non liberano soddisfazione e desiderio. Una vera e propria fabbrica di produzione di consenso e morte di democrazia.

Questo mentre avanzano per terra e mare quelle pericolose trivelle, interessi di petrolieri, che continuano a promettere sviluppo e  benessere. Lo stesso di sempre.

Costruiamo proprio qui un laboratorio politico sociale per il reddito, come battaglia complessiva nella crisi dell’europa e come terreno di una  risposta politica e sociale locale, immediata. Solo se si resta vivi si esce da questa crisi, di cui adesso sentiamo solo gli accenni. Per restare vivi bisogna osare un’altra risposta all’avanzare delle povertà, che è un atto di fiducia nei confronti di giovani e donne. Reddito perché quelli che restano potrebbero scegliere di alimentare democrazia, e non vivere dentro i rapporti di necessità, e perchè qualcuno tra quelli che va potrebbe decidere di restare, per contribuire a costruire socialità ed economia.

Avanzare una proposta in alto  e in basso di reddito, costruirla nel vivo di un percorso  sociale è anche saper riprendere un filo di altra politica, di altra democrazia, di quell’incompiuto. Farebbe bene ad una sinistra che vuole essere nel mondo e sta al mondo anche aiutando le soggettività a ricostruire spazi pubblici e luoghi collettivi.

Per dirla parafrasando il titolo di un film meridiano proviamo a “ricominciare da tre”.

Angela Lombardi


Franco Cassano Paeninsula, L’italia da ritrovare. Laterza 1998

Francesco Maria Pezzulli, In Fuga dal Sud Bevivino editore 2009

Pubblicato su: Decanter, 2010

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