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Appunti contro la disgregazione europea. Reddito minimo e nuovi diritti per rilanciare il processo di integrazione

di Giuseppe Bronzini

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Nel suo ultimo volume Rotta di collisione1 Maurizio Ferrera, certamente il più autorevole esperto italiano di politiche sociali europee, ma studioso di caratura continentale, investito anche di incarichi importanti per conto delle Istituzioni dell’Unione, ricorda come nella crisi siano saltate le mediazioni tra l’intensificazione del legame economico tra cittadini europei e la salvaguardia di quei diritti che in genere le costituzioni occidentali del dopoguerra avevano cristallizzato come fundamental social righs, sia a livello lavoristico che welfaristico. Sino agli anni 90 l’equilibrio, ricorda lo studioso della Statale di Milano, poteva esser ancora mantenuto attraverso una sorta di patto di non belligeranza tra il diritto dell’Unione (incentrato sulla costruzione di un mercato unico e sulla garanzia della 4 libertà comunitarie, libertà di circolazione di merci, persone, servizi e capitali) e le Costituzioni nazionali, cui spettava invece di precisare i contorni dei diritti di accesso al welfare. Negli anni 90, attraverso l’Accordo per le politiche sociali poi “costituzionalizzato” a livello europeo con il Trattato di Amsterdam (con il quale fu introdotto uno specifico capitolo con basi giuridiche ad hoc per la disciplina delle protezioni socio-economiche), si volle più decisamente costruire uno zoccolo sociale continentale, attraverso il dialogo sociale e le politiche dei trattamenti minimi comuni. Furono emanate grandi direttive, frutto anche di negoziato tra le parti sociali europee, su aspetti cruciali del rapporto di lavoro; come i contratti a termine, il part-time, l’orario di lavoro che sia aggiungevano così a regolamentazioni precedenti di una certa importanza sui licenziamenti collettivi, il trasferimento di imprese, la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Dopo Amsterdam la materia sociale viene così ad essere disciplinata “a macchia di leopardo” dal diritto europeo (che si avvale anche di una serie di direttive antidiscriminatorie), anche se rimane in gran parte sotto il controllo di quello nazionale2, soprattutto in ordine ai sistemi di protezione sociale di cui l’Unione regola solo i criteri per facilitare il diritto di circolazione delle persone ed il contrasto della discriminazione in ragione della nazionalità3.

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Con il volgere di millennio, come noto, le pretese di costituzionalizzare la dimensione europea si sono rese più forti ed aggressive, prima con l’elaborazione da parte della prima Convenzione di una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e poi con il progetto di una Costituzione europea, affossata dal miope se non reazionario voto dei francesi ed olandesi del Giugno 2005, i cui contenuti però sono stati recepiti nel Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1.12.2009. In ordine al modello sociale europeo ed al suo necessario irrobustimento il Trattato contava di percorrere tre linee convergenti e simultanee ribadendo le scelte della seconda Convenzione4: la prima attraverso una più chiara definizione degli obiettivi sociali dell’Unione, un abbassamento delle soglie necessarie per approvare norme in materia, una più limpida ripartizione di competenza tra Unione e stati membri, per cui la social policy diventava a competenza condivisa. La seconda attraverso la conferita obbligatorietà alla Carta dei diritti dell’Unione, nella quale figurano tutti i principali diritti sociali e di welfare riconosciuti nei paesi occidentali ed anche numerosi diritti di nuova generazione come quello al reddito minimo garantito, la tutela della privacy, l’accesso ai documenti della pubblica amministrazione, il diritto di trasmettere e ricevere informazioni, l’accesso gratuito ai servizi per l’impiego, il diritto alla formazione permanente e continua etc5. Si prefigurava, quindi, che la semantica dei diritti fondamentali avrebbe avuto un effetto espansivo portando ad una federalizzazione delle istanze di giustizia sociali nella contaminazione ed ibridazione delle giurisdizioni di vario livello. Si prevedeva anche l’accessione dell’Unione europea alla Convenzione del 1950, si da permettere anche un controllo esterno, alla luce del diritto internazionale, sulle norme sostanziali dell’Unione. Infine, e questo costituiva forse la maggiore innovazione, si codificava per le questioni sociali il cosidetto open method of coordination, anche fuori dalle aree in cui l’Unione aveva o avrebbe potuto esercitare una competenza regolativa, diretto a definire una serie di obiettivi condivisi, un sistema di rilevazione comune ed uno scambio di informazioni e valutazione per selezionare le migliori pratiche nazionali sotto il profilo della protezione dei cittadini del vecchio continente. Questo potente, anche se formalmente non obbligatorio, processo di autochiarimento collettivo e condiviso sulle più efficaci strategie di garanzia dei fundamental social rights (a cominciare dal reddito minimo garantito già individuato come protezione imprescindibile della dignità delle persone per tutti gli Stati nel 1992 da una “storica” raccomandazione della Commissione europea allora presieduta da Jacques Delors), ha portato nel Dicembre del 2007 all’ approvazione all’unanimità dei principi comuni di flexicurity alla luce dei quali gli Stati dovrebbero impostare le loro politiche sociali anche al di fuori della stretta competenza rergolativa dell’Unione. Nel progetto della seconda Convenzione (che aveva elaborato, come ricordato, quella che doveva essere la prima Higher Law dell’Unione) il modello sociale europeo sarebbe stato rilanciato attraverso la combinazione della pressione giudiziaria “multilievello” per la tutela dei diritti fondamentali alimentata dalla nobiltà e limpidezza delle disposizioni Bill of rights di Nizza che eccede di molto l’immaginario lavorista di tante Carte nazionali alludendo ad una protezione universalistica ed inclusiva del “cittadino laborioso”, con a) il dialogo inter-istituzionale sulle best practises (esaltato nella grande “narrazione” di inizio degli anni 2000 della LIsbon agenda) e b) la lenta espansione degli interventi di carattere propriamente normativo (hard law) aiutata da maggioranze più accessibili e da obiettivi generali resi più sensibili alle istanze sociali (se non altro dalla declassazione dei principi di mercato e di libera concorrenza dal rango di obiettivi dell’Unione imposta dalla Francia per l’approvazione del Lisbon Treaty). Non va neppure dimenticata la clausola sociale (art. 9 TFUE) che obbliga l’Unione nell’insieme delle sue politiche a non regredire dal livello di tutela sociale acquisito6.

 

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Il libro di Ferrara è certamente magistrale7 nel ricostruire come la crisi economica internazionale del 2008 convertitasi in Europa in crisi dell’euro e dei debiti sovrani abbia comportato il progressivo logoramento di questo processo di “evoluzione nel progresso”, che pur aveva una sua grandiosità sino a far apparire le politiche europee di risanamento dei conti pubblici e di austerity come una minaccia molto concreta per i welfare nazionali e per la tutela del contenuto essenziale di molti dei fundamental social rights, pur proclamati nella Carta di Nizza. Alla luce di un monetarismo ottuso e socialmente frigido, dismesso persino dalla Banca mondiale, dall’OCSE e dal FMI, ma costituzionalizzato nel Fiscal compact del 2012, e colorato nella gestione della crisi di parte tedesca da un moralismo luterano, i piani di salvataggio e comunque le drastiche indicazioni a tutti gli Stati di tagliare i debiti hanno provocato fratture profonde, ancora drammaticamente aperte, tra paesi del Nord e del sud-Europa, tra appartenenti all’euro e non appartenenti alla moneta comune, tra paesi aperti all’immigrazione e paesi ripiegati sulle proprie frontiere e via dicendo. Tale mancanza di strategia e di visione democratica continentale si è poggiata peraltro su imperfezioni radicali del sistema di governance dell’eurozona, nel quale l’azzardo della creazione di una moneta comune non aveva dato luogo alla predisposizione di meccanismi, sociali, fiscali e di politica economica (ed anche di trasparenza democratica) idonee a sorreggere l’euro, se non la Bce con i soli strumenti monetari. Se è vero che all’ultimo momento si sono creati istituzioni per il salvataggio dei paesi a rischio default, ciò è avvenuto non socializzando, in chiave di coesione solidarietà paneuropea, in qualche modo anche i debiti sovrani ma obbligando gli Stati in difficoltà a crudeli politiche di risanamento che hanno aggravato il male piuttosto che curarlo8. Il risultato è stata la frantumazione di un disegno unitario espansivo, l’arresto del processo di integrazione fattosi così improvvisamente minaccioso e regressivo sul piano sociale, l’aprirsi di una rotta di collisione tra welfare ed Europa. Peraltro, su questo il volume di Ferrera non insiste adeguatamente, la gestione della crisi ha utilizzato ed utilizzerà ancora, sino ad una (difficile) Riforma dei Trattati, regole che non appartengono al corpus del diritto dell’Unione come quelle del Meccanismo europeo di stabilità (MES) e del Fiscal compact che sono Trattati internazionali ai quali non si applica la Carta di Nizza e le cui norme, quindi, non sono giustiziabili secondo le procedure comuni. Ancora di fatto le procedure di governance per salvare l’euro sono state centralizzate sul Consiglio dei Capi di stato e di governo (il più interstatualistico) sotto il controllo diretto ed ineludibile della Germania e dei suoi arcigni alleati (secondo un modello che Jürgen Habermas9 ha definito “ federalismo degli esecutivi”) mettendo fuori gioco la Commissione e lo stesso Parlamento europeo.

 

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Un notevole vulnus alla credibilità costituzionale di una tutela sociale a livello europeo attraverso le sue Carta dei diritti è venuto, proprio, dalla mancata sindacabilità (sia a livello sovranazionale che nazionale) delle misure di austerity sia di quelle adottate nell’ambito dei piani di salvataggio che di quelle solo “raccomandate” nel contesto della governance economica dell’Ue, cui si è aggiunto l’opera della Corte di Strasburgo (Grecia e Portogallo) che le ha addirittura esaltate10. Per quanto riguarda le prime la sentenza Pringle del 27 novembre 2012, C-370/12 costituisce un pessimo precedente per il futuro perché se ci saranno ancora salvataggi questi avverranno da parte del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) che, ci ha detto la Corte, è immune dalla Carta perché è istituito con un Trattato internazionale11. Per quanto riguarda il secondo tipo di misure di austerity (solo “consigliate” ai Member States) le sentenze di incompetenza sinora adottate12 anch’esse sembrano difficili da superare perché occorrerebbe dimostrare che lo Stato è stato costretto ad adottare proprio una misura e non un’altra per ridurre i deficit: per natura quindi le procedure sulla stabilità finanziaria legata all’euro sembrano sottrarsi ad una verifica alla luce della Carta (è così quelle stesse misure che la Bce può richiedere come contropartita alle cosidette outright monetary transactions). Soluzione formalistica che ha suscitato le proteste anche accese degli studiosi (a partire da un vigoroso articolo di Andreas Fischer Lescano13) ma che ha, a catena, demoralizzato le Corti interne (salvo la portoghese e, oggi, quella italiana) e gli stessi giudici ordinari, nonché i cittadini comuni che hanno visto platealmente la Carta come inefficace propri su questioni che afferiscono alla garanzia dei livelli minimi di sussistenza e di accesso al welfare. Nell’ambito di una importante ricerca per l’Istituto Universitario europeo Claire Kilpatrick14 ha mostrato l’effetto conformistico che si è sprigionato da tali decisioni rendendo i vincoli di bilancio metanorme che si impongono a tutte le altre alterando le gerarchie di valori costituzionali. Un esempio di arrendevolezza costituzionale a quella che Alain Supiot ha recentemente chiamato nel suo ultimo volume la “La gouvernance par les nombres”15.

 

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Veniamo ora alle ricette per una riconciliazione tra Europa e welfare: il volume di Ferrera su questa prospettiva non indulge, correttamente, ad semplicismo ottimistico e non oscura tutte le difficoltà per rilanciare il “sogno” del Manifesto di Ventotene. Senza entrare in troppo particolari tecnico-istituzionali si tratta di una proposta complessa secondo un impianto che sembra più “europeista” che “federalista”, non troppo radicale nel ridimensionare gli arcaici poteri degli Stati anche se certamente favorevole ad un sensibile rafforzamento delle prerogative degli organi più squisitamente “federali” come la Commissione o il Parlamento. Il rilancio è così visto correttamente su due piani; quello del rafforzamento della trasparenza dei processi decisionali e della loro accountability e sul lato sostanziale, di rafforzamento di tutele comuni (finanziate il più possibile attraverso fondi sovranazionali) tra le quali, ovviamente, dovrebbe esercitare un ruolo primario un reddito minimo dell’Unione che dia concretezza e solidità giuridica alla formulazione dell’art. 34, terzo comma, della Carta di Nizza. Il punto da cui partire è il parziale miglioramento della situazione, ancora però molto instabile e pericolante, con la nuova Commissione di Juncker che ha leggermente allentato i lacci dell’austerity con un atteggiamento più morbido verso la Grecia (anche se certamente non può dirsi ancora risolta la crisi greca), con la concezione della clausola di flessibilità all’Italia (ma anche a Francia e Spagna), il lancio di una consultazione della società civile europea sulla costruzione di un social pillar 16 dell’Unione, innanzitutto nell’eurozona che terminerà a fine dicembre 2016 ed i cui materiali preparatori appaiono piuttosto interessanti. Un nuovo attivismo della Commissione si è fatto notare anche con le recenti linee guida sulla collaborative economy in cui si assume una posizione piuttosto aperta e costruttiva17.

 

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Il libro di Ferrera è, per ragioni comprensibili, piuttosto generico e sembra riprodurre le proposte dei 5 Presidenti di consolidamento graduale dell’eurozona con qualche ristrutturazione (a Trattati immutati) in nome della democraticità e trasparenza delle procedure decisionali; va peraltro apprezzato il deciso schieramento dell’Autore nel medio periodo in favore di una sorta di “costituzionalizzazione” dell’eurozona (come sostengono anche molti costituzionalisti europei), che così possa sganciarsi dai paesi meno propensi ad andare avanti e possa darsi regole più forti di governance, con la creazione di qualcosa di simile ad un genuino governo economico d’Europa18. Tuttavia le modalità di questo passaggio rimangono sfumate anche perché tutti sanno che occorrerà aspettare, per tentare di compiere questo salto, per lo meno le elezioni in Francia e Germania del 2017. Del resto è piuttosto diffusa una genericità di indicazione in concreto delle riforme costituzionali del sistema europeo che sarebbero necessarie: ad esempio Thomas Picketty, che pur è un fervente sostenitore di questa ipotesi, caldeggia la costruzione di una Parlamento per l’eurozona, ma con parlamentari eletti da quelli nazionali, il che manterrebbe quel deficit democratico di cui, secondo alcuni, è affetta l’Unione.

 

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Ma la parte più preziosa del Volume di Ferrera risiede nel mostrare il cul de sac nel quale è avvolto in questo momento il processo di integrazione. Servono indubbiamente cessioni ulteriori di sovranità soprattutto in favore di organi come la Commissione ed il Parlamento europeo se si vuole che i processi in corso siano gestiti a livello europeo con efficacia e razionalità, ma per queste cessioni le arene politiche nazionali si mostra allergiche perché il potere sovranazionale in questi anni si è dimostrato arcigno, insensibile dal punto di vista sociale, tollerante con i forti (Germania e Francia), inflessibile con i deboli (Grecia). Inoltre, e qui il Volume diventa davvero notevole, il sistema europeo sul fronte del welfare è sin dall’origine eccentrico e poco coerente rispetto ai meccanismi di formazione della lealtà politica nei paesi occidentali post- bellici ( e qui si richiamano i noti lavori di Niklas Luhmann e di Claus Offe degli ani 70, ma anche dello steso Jürgen Habermas); l’Europa raccomanda, castiga, mette in riga e via dicendo, ma mai si attuano politiche sociali che direttamente siano ascrivibili, sul piano anche delle risorse finanziarie, all’Unione (salvo quelle marginalissime di coesione). Il consenso sociale è cos’ interamente catturato dai Governi nazionali attraverso le elargizioni sociali, la cui negazione viene anzi scaricata sull’Unione. E del resto come si potrebbe fare altrimenti con un bilancio dell’Ue all’1%? Per uscire dal guado occorre partire proprio da qui: dalla nuova questione sociale europea cercando, come dice il libro, di riconciliare i cittadini (a cominciare dall’eurozona) con il progetto di integrazione.

 

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Un reddito minimo finanziato almeno in parte dell’Unione (ad esempio con uno specifico Fondo, eventualmente tra gli Stati dell’Eurozona, o anche attraverso il Piano di sviluppo della Commissione, ancora poco operativo, che conta soprattutto sui fondi della Bei o ancora con tasse europee) sarebbe il fulcro di una serie di misure che stabiliscano finalmente il quadro sociale “minimo” di tutti i cittadini dell’Unione: oltre al reddito minimo, un salario minimo comune quanto a standard, un sistema comune di gestione della disoccupazione, una direttiva- quadro sul lavoro autonomo e sull’attività che si svolge sulla digital platforms, e via dicendo19. Sin dagli anni 30 i federalisti europei hanno guardato ad uno ius existentiae come fondamento sociale della costruenda cittadinanza continentale: il passaggio del Manifesto di Ventotene sul punto20 ripropone questa tensione per una coesione ed una solidarietà paneuropea come correlato imprescindibile delle trasformazioni istituzionali. La rete del BIEN europeo, soprattutto con i contributi di Philippe Van Parijs anche di recente è tornata su questo nesso inaggirabile tra il rilancio del “progetto europeo”, una risposta in termini di equità e giustizia sociale alla crisi economica e la creazione di un nuovo welfare continentale, da un lato più universalistico ed inclusivo, dall’altro direttamente imputabile all’Unione21.

 

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Non è questa la sede per affrontare ancora una volta il punto se sia davvero in agenda l’idea di un vero e proprio reddito di base europeo o se si tratti invece di ripristinare al meglio le esperienze di reddito minimo garantito, soprattutto quelle di tipo scandinavo22, che rischiano oggi di essere ovunque in Europa travolte o ridimensionate dalle politiche di austerity ed anche dalle ottuse politiche di workfare che trasformano politiche di sostegno alla libertà e dignità delle persone in mezzi di addestramento coattivo di persone in difficoltà verso posti di lavoro che non ci sono. Il notevole (e meritorio) dibattito che si è sprigionato dal referendum in Svizzera23, le esperienze innovative che cercano di garantire lo ius existentiae su basi effettivamente universalistiche dall’Aquitania alla Finlandia, l’imponente confronto in atto sulle conseguenze emendative e libertarie della robotizzazione della produzione e sui nuovi spazi di attività possibile nella share economy al di là della camicia di forza del contratto di lavoro subordinato, indicano che è giunto il momento di sganciare le politiche di protezione della dignità delle persone dalla coercizione ad un lavoro che o viene drasticamente a mancare o assume modalità completamente diverse da quelle tradizionali e che quindi non necessita di sistemi ottocenteschi di addestramento della manodopera né dello schema quasi- militare della subordinazione. Pertanto è questo il momento per trovare una sponda costruttiva tra il rilancio del progetto europeo (all’insegna di un federalismo radicale di tipo solidaristico coerente con l’ispirazione del Manifesto di Ventotene) e la definizione di uno ius existentiae promosso e garantito direttamente dall’Unione che la riconcili con i sentimenti ed i desideri dei suoi cittadini. La spinta per un reddito minimo garantito incondizionato (anche se rivolto alle persone in difficoltà) e quella di lungo periodo verso un vero e proprio reddito di base, una dotazione originaria per tutti a presidio della “libertà di ognuno”, sono quindi del tutto compatibili e vanno nella medesima direzione24: un’Europa che si rifonda a partire dalla libertà di scelta degli individui che la impone ai mercati (ed agli Stati).

 

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Questa prospettiva in verità emerge in modo ancora più netto come la prioritaria strada da percorrere per uscire dallo choc della Brexit, i cui contorni istituzionali sono ancora molto confusi e problematici. Per uscire dalla UE davvero la Gran Bretagna necessita di un voto del Parlamento che non si sa, allo stato, se ci sarà, visto che si sono sfarinati anche i gruppi dirigenti conservatori e laburisti. Ammesso che questo avvenga l’art. 50 del Tue è però molto confuso sulle procedure per arrivare davvero alla secessione dei sudditi di Sua Maestà; in molti ambienti del PE, ma anche tra i costituzionalisti di fede europeista, si reclama giustamente una mossa politica, quantomeno dei paesi fondatori, per connettere le trattative sulla Brexit ad un rilancio del progetto europeo, eventualmente attraverso due Trattati, uno che regoli il nucleo dl mercato comune (cui eventualmente la Gran Bretagna potrebbe aderire) ed un altro Trattato che lasci ai paesi che lo desiderano la strada dell’Europa politica25. Si comincia a parlare di una seconda Convenzione, difficile però prima delle elezioni franco-tedesche del 2017; inoltre il “modello Convenzione” sembra troppo fragile, anche alla luce delle passate esperienze, nel trovare un consenso che poi resista nel tempo e superi gli ostacoli nazionali, a meno di non convalidarne i risultati attraverso un referendum paneuropeo che appare ostico da vincere da parte dei pro-Europe. Insomma lo scenario è ancora molto aperto, ma sarà difficile una soluzione costruttiva della transizione che eviti casi di secessione ed il contagio centripeto se non emergerà con chiarezza una proposta sociale sostanziale per il benessere dei cittadini europei (e per coloro che sono residenti o ospitati nel Vecchio continente) che renda chiaro che Europa politica non è solo un riassetto delle regole istituzionali (necessario beninteso) che risponda ai principi democratici, ma anche un progetto di garanzie per i progetti di vita dei suoi abitanti che risponda a principi di equità e solidarietà26. Sembrerebbe in verità piuttosto ovvio che il simbolo di questa seconda dimensione incentrata su di una cittadinanza comune non possa che essere uno ius existentiae finanziato (almeno in parte) dall’Unione che marchi una netta discontinuità con l’oscuro passato dell’austerity e che possa facilitare al tempo stesso una soluzione costituzionale ragionevole.

 

Note

1 M. Ferrera, Rotta di collisione. Euro contro welfare?, Laterza, 2016

2 Non solo per le maggioranze necessarie per l’approvazione di norme in campo sociali, ma anche per i limiti di competenza tra cui quello in materia di retribuzione e sciopero inibiti agli organi dell’Unione.

3 Sugli effetti indiretti della libertà di circolazione dei lavoratori in connessione con la nozione di cittadinanza europea in ordine all’ “ apertura” dei welfare nazionali il riferimento d’obbligo è a S. Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa. I modelli nazionali nello spazio giuridico europeo, Il Mulino, 2012

4 Per una trattazione organica del modello sociale europeo alla luce del Trattato di Lisbona rinvio a G. Bronzini, Il modello sociale europeo, in – a cura di F. Bassanini, G. Tiberi, Le nuove istituzioni europee. Commento al trattato di Lisbona, Il Mulino,2008. Sui previsti processi di governance europei dopo il Trattato di Lisbona ( siglato nel 2007) v.- a cura di S. Micossi e G.L. Tosato-, L’Unione europa nel XXI secolo. Nel dubbio per l’Europa, Il Mulino, 2008 e- a cura di M. Ferrera M Giuliani, Governance e politiche nell’Unione europea, Il Mulino, 2008

5 Cfr. G. Bronzini, La Carta europea dei diritti fondamentali: dal progetto di un “ modello sociale europeo” alla costituzionalizzazione dell’Unione?, in – a cura diH. Friese, A. Negri, P. Wagner, Europa politica. Ragioni di una necessità, Manifestolibri, 2002>. u

6 Analoga clausola di non regresso è stata introdotta in ordine al mantenimento di protezione della salute è stata aggiunta

7 L’analisi dei frenetici accadimenti europei dal 2008 ad oggi e delle cause di questo avvitamento distruttivo, mi sembra del tutto concorde con quella del volume G. Allegri, G. Bronzini, Sogno europeo o incubo?, Fazi, 2014

8 Correttamente il volume denuncia come ridicola la ricostruzione degli anni di crisi offerta da un (troppo) fortunato volume di W. Steek, Guadagnare tempo, Feltrinelli 2014 secondo il quale invece l’intera costruzione europea dalla fine degli anni 70 non è che l’esito di una congiura contro la classe operaia internazionale ordita da gruppi occulti tecnocratici internazionali come rivincita contro le politiche democratiche post-belliche. Questo ridimensionamento del “progetto europeo” in una sorta di colpo di stato del capitalismo finanziario internazionale è, in effetti, una grottesca semplificazione degli eventi che ha solo lo scopo di assolvere l’accecamento nazionalistico di tanta sinistra, soprattutto radicale, che si è sempre rifiutata, sino al Governo Tsipras, di prendere sul serio lo scenario europeo.

9 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, Laterza, 2014

10 Si tratta delle sentenza della Corte Edu dell’8.10.2013 Da Conceicaoã Mateus c. Portogallo e di quella Koufaki e Adedy c. Grecia del 7.5.2013, provvedimenti che esaltano il carattere “patriottico” delle misure di austerity contro i più deboli

11 Per una trattazione più organica rinvio a G. Bronzini, La Carta dei diritti dell’Unione europea è effettiva?, in corso di pubblicazione su “Teoria politica” e G. Bronzini, La giurisprudenza multilivello e le misure di austerity, in” Questione giustizia” n. 3/2015 .

12 Il 7 marzo 2013 la Corte di Giustizia (con l’ordinanza Sindicato dos Bancarios do Norte, C-128/2012) ha affermato di non poter giudicare se le misure di austerity adottate dal Portogallo (su richiesta della Troika e siglate in uno specifico memorandum d’intesa ) fossero in contrasto con la Carta di Nizza perché “non emergevano in concreto elementi” per ritenere che la legge portoghese, colpendo esclusivamente i salari e le pensioni dei dipendenti pubblici, intendesse attuare il diritto europeo

13 A. F. Lescano, Competencies of the Troika. Legal limits of the istitutions of the European Union, in – a cura di I. Schoemann ed altri-, Economic and financial crisis and collective labour law in Europe, Oxford University Press, Oxford, 2014 che insiste sul carattere obbligatorio della Carta in ordine a tutte le politiche che promanano direttamente o indirettamente dall’Unione.

14 C. Kilpatrick, Constitutions, social rights and sovereign debt states in Europe: a challenge new area of constitutional inquire, WP, IUE n.34/2015

15A. Supiot, La Gouvernance par les nombres, Paris, 2015

16 Per leggere la convocazione della consultazione cfr. http://ec.europa.eu/priorities/deeper-and-fairer-economic-and-monetary-union/towards-european-pillar-social-rights_en.

17 Al contrario di quella luddista del nostro Governo che con il decreto n. 81/2016 ha avanzato una proposta di sostanziale assimilazione del lavoro autonomo al lavoro subordinato in una logica neo-imperialista che nega le più genuine istanze del nuovo lavoro della share economy. Sulla vicenda cfr. G. Allegri, G. Bronzini; Libertà e lavoro dopo il Jobs act. Per una garantismo oltre la subordinazione, Deriveapprodi, 2015. Per leggere la call della consultazione. http://ec.europa.eu/growth/single-market/strategy/collaborative-economy/index_en.htm.

18 Secondo alcuni ciò potrebbe avvenire anche con un nuovo trattato che si accompagni a quelli precedenti con il quale i 19 paesi dell’Eurozona creino una struttura istituzionale diversa da quella dell’Unione, più stretta ed improntata ad una dinamica apertamente “ politica”.

19 Sul lavoro o attività nelle digital platforms e sulla collaborative economy è recentemente intervenuta la Commissione europea con delle “ linee guida”: cfr. http://europa.eu/rapid/press-release_IP-16-2001_it.htm. Ironizza su www.socialeurope.eu su tali linee guida W. Kowalsky, What a wonderful new world: the sarin economy , ma ci sembra in un’ottica troppo conservatrice.

20 Cfr. a cura di G. Allegri, G. Bronzini, Ventotene, un Manifesto per il futuro, Manifestolibri, 2014

21 Cfr. http://www.euractiv.com/section/social-europe-jobs/interview/van-parijs-an-unconditional-basic-income-in-europe-will-help-end-the-crisis/ . In vista del referendum persino l’Economist del 4.6.2016 ha pubblicato una interessante survey, molto equilibrate, sul basic income, Sighing for padise to came, in cui si afferma sobriamente che il processi perdita dei posti di lavoro è irreversibile, ma forse non è giunto ancora ad un punto tale da legittimare l’adozione di una misura dei genere e che forse sarebbe il caso intanto di contrarsi sulla razionalizzazione dei welfare esistenti, tra i quali, in Europa ( ma non solo) vorremmo ricordare è già ricompreso in genere un reddito minimo garantito, costituzionalizzato in UE all’art. 34 della Carta dei diritti.

22 Come sembra proporre anche la survey sull’ AI ( Artificial intelligence) dell’Economist del Giugno 2016: http://www.economist.com/news/leaders/21701119-what-history-tells-us-about-future-artificial-intelligenceand-how-society-should nella si ribadisce quanto affermato nella precedente ( cfr. nota n. 21) e si richiama come esempio l’esperienza danese della flexicurity, adattata però alle dinamiche della gig economy

23 Cfr. i commenti di S. Gobetti e G. Allegri alla sfida referendaria leggibili unitamente a tanti altri nel sito del Bin-italia

24 Cfr. E. Granaglia, M. Bolzoni, Reddito di base, Ediesse 2016

25 Cfr. S. Fabbrini, Un negoziato difficile che durerà oltre due anni, in Il Sole 24ore 26.6.2016

26 Sembra questa anche l’indicazione di A. Sen nell’intervista sul Corriere della sera del 26.6.2016 che ricorda che le priorità del Manifesto di Ventotene non erano “ le banche e la moneta, ma la pace e una graduale integrazione politica e sociale “

Tratto da Quaderni per il Reddito n° 4

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